“Sono l’orfano e la vedova, di entrambi indosso le vesti”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
Ne parlavano con venerazione, sussurrando, come fosse un enigma, una leggenda pericolosa; saranno stati quindici anni fa. Il romanzo s’intitolava Il fuoco nuovo, l’allora direttore della Marietti accennò l’incipit,
“Dopo il tramonto dell’ultimo giorno del secolo, nel mondo dei mexica anche l’ultimo fuoco fu spento… La disperazione aveva distrutto i simulacri degli dèi domestici, a brandelli le vesti, a pezzi gli arredi. I fuochi sacri sui templi si erano già estinti. I geni della desolazione aleggiavano sulle ceneri”.
Con voce severa, ne parlò come di un capolavoro – poi mi cacciò via, la mano pareva una ghigliottina. Mi lasciai inghiottire dal fascino corrusco di quel libro: l’autore, Enzo Fontana, raccontava, con scrittura d’acciaio, la storia di Montezuma, di Hernán Cortés, dei massacri perpetrati dai conquistatori di Spagna agli albori del XVI secolo. Tutti i giorni sono il Giorno dei Giorni, dissi, tra me. Mi informai. L’editor della Marietti, setacciando le oscurità, raccontò che Fontana, molti anni prima, aveva pubblicato “il più bel romanzo su Dante mai scritto”. Lo cercai. S’intitola Tra la perduta gente, l’ha stampato Mondadori, nel 1996. In effetti, il romanzo fu una specie di ‘caso’. “Fontana riesce a fare di Dante un personaggio forte, vivo, resistente alla stupidità umana”: questa è Maria Corti, interpellata, all’epoca, da “Panorama”; che ribadiva, “è un romanzo affascinante, ben scritto”. Mi colpì il titolo, a caratteri cubitali, con cui “TuttoLibri”, l’inserto culturale de “La Stampa”, censiva quel libro: “Un ex terrorista in esilio con Dante”. Nel sommario si tratteggiava la biografia spiccia dello scrittore, “Milanese, gappista, 20 anni di prigione, ora in libertà vigilata”. La vita, poi, mi ha travolto, mollai Milano, dimenticando Fontana. Alcune leggende, però, ti braccano perfino nei meandri del sonno, vengono a mutilare le tue certezze.
Intorno al 2014 cominciai a collaborare con l’editore Guaraldi. Nel suo catalogo scoprii un libro che era come un chiodo puntato in faccia. Mia linfa, mio fuoco è un’antologia, stampata nel 1996, che allinea testi di Jack London, di Tolstoj, di Giovanni della Croce, e molti altri. Mi colpì una frase, nel testo introduttivo: “Io ho trovato la mia consolazione, se non la salvezza, nella poesia”. Chiesi di più. Una nota sanciva il profilo dell’autore:
“Enzo Fontana è un’autentica anima in pena. Diciottenne, prese la strada della rivolta armata”.
Guaraldi mi raccontò, confusamente, come chi ama il riscatto più della pena, di quell’uomo che andava a trovare in carcere, con cui aveva progettato i fatidici ‘Post-Libri’, libri speciali, eccentrici, inscatolati come una cartolina, dedicati ad assaggi, commentati, di grandi classici, da Dante ad Agostino, da Shakespeare all’epopea di Gilgamesh. Guaraldi mi mollò un altro libro, Labyrinthos, un testo teatrale scritto su ispirazione di Franco Parenti, alla fine degli anni Ottanta. È un testo sapienziale, una confessione dolente e orgogliosa,
“In un punto della mia giovinezza, quando indossavo la pelle di un Teseo errante nel labirinto della lotta armata, incontrai le braccia violente del Minotauro. Nei miei occhi è l’immagine di una strada alle porte di una città e di una pattuglia di polizia. L’immagine di una sparatoria e di un poliziotto ucciso”.
Le ricerche successive furono sconcertanti. Nell’“Archivio Franca Rame Dario Fo” trovai un dossier sul processo Fontana: classe 1952, arruolato nei Gruppi di Azione Partigiana fondati da Giangiacomo Feltrinelli, Enzo Fontana viene arrestato nel 1977, in seguito a un conflitto a fuoco, e condannato a 28 anni di carcere. Da lì, nei recessi del carcere, come in un sepolcro, comincia, lentamente, la nuova vita di Fontana: per Spirali pubblica Le prigioni dei media (1988) e Il fiore di Mnemosine (1989), per Laterza L’ultimo viaggio di Ulisse (1999), con l’editore Àncora, nel 2002, stampa Diario di un ragazzo clonato. Avvia, in parallelo, una notevole attività da pubblicista; insomma, è ritenuto uno degli scrittori italiani più autentici di quegli anni, tra i più tormentosamente radicali.
Poi, Enzo Fontana svanisce. Con l’estremismo proprio di chi di un abisso conosce la cloaca, la bellezza, la fuga. I suoi libri iniziano a scomparire dall’orizzonte editoriale, lui non fa nulla per farli risorgere, “chi vuole, può andare in biblioteca, ci sono”, mi dice, in uno dei nostri scambi, trinciando ogni dettaglio. Più tardi – come se ogni parola fosse sotto dettatura, a fossilizzare il caos in vaniloquio – scopro che Remo Cacitti, il professore universitario che mi ha spinto a pigliare a morsi la Bibbia, è stato il maestro che ha eletto Fontana alla scrittura, in carcere.
Ricorsi, rincorse, lampi.
Quando un lettore, dopo anni di ricerche a vuoto, mi dice, “provi a scrivere a Fontana, è ora che esca dal suo isolamento”, e scrive un indirizzo mail, mi inchino ai segni. Nelle fotografie, spesso offuscate, a relegare la fisionomia nell’occulto, regicidio dell’io, Fontana ha il volto esatto, come un coltello, come i chiamati, glaciali, belli, per sempre giovani.
Chi ha visto all’eccesso sa che ciò comporta un canone, e vive alla presenza del terribile.
Parto da Dante. Come le è venuto in mente di scrivere un romanzo su Dante?
È sempre difficile e stabilire un solo e preciso movente per il principio di un atto creativo. Per Dante penso sia anzitutto l’aspirazione al trascendente che gli viene da “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”, e, insieme, l’ispirazione che gli nasce dal grande amore d’una vita per l’eternamente giovane Beatrice, amore vero, non allegorico: “I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando”. Non penso che questo precetto valga solo per gli stilnovisti. Per il mio romanzo sulla vicenda umana di Dante Alighieri mossi da un groviglio di sentimenti e da un sogno ad occhi aperti. Il sogno della libertà. Ma devo partire da molto lontano, dal 1977 e da una conferenza che Jorge Louis Borges tenne al Teatro Colòn di Buenos Aires sulla Divina Commedia.
Lei c’era? Era a Buenos Aires ad ascoltare Borges?
Non ero al Teatro Colòn ad ascoltare Borges che parlava di Dante. Non ero neanche a Buenos Aires. Se mi ci fossi trovato, in quegli anni, sarei entrato nella guerriglia e, probabilmente, sarei stato gettato da un aereo militare nel Mar de la Plata. Però mi trovavo in un labirinto italiano e Borges, com’è noto, non era solo un elegante scrittore, ma un grande esploratore di labirinti. Solo che il mio labirinto non era una metafora, uno dei grandi temi della condizione umana, ma un labirinto con corridoi, sotterranei, segrete e celle, e mura altissime. Mi trovavo, insomma, in un carcere secolare, di pietra, nel girone dei detenuti politici. Mi ci trovavo da pochi mesi, in quel ’77 di sogni e di violenze, di sommosse e di ideali rivoluzionari che a tanti giovani come me sembravano veramente a portata di mano. Seppi di questa conferenza di Borges su Dante e in qualche modo riuscii a procurarmi il testo scritto. Lo lessi e ciò mi indusse a farmi portare il libro che mi sarebbe stato prezioso nei durissimi anni a venire: la Divina Commedia, in una vecchissima edizione. Questo libro, insieme a un’edizione Sansoni delle Opere di Shakespeare cui tenevo molto, sarebbe finita al rogo.
Al rogo? Per accidente?
Letteralmente al rogo, ma non per accidente, e nemmeno per decreto del Santo Uffizio, e neanche per ordine del cardinale Bertrando del Poggetto, colui che, oltre al De Monarchia, avrebbe voluto bruciare le spoglie mortali di Dante Alighieri, in piazza a Bologna. No, i miei libri sarebbero stati gettati tra le fiamme, insieme ad altri libri, dalle guardie dell’Isola dell’Asinara, dopo una rivolta. Ma l’Inferno di Dante mi bruciava dentro. Fuoco sacro o fuoco empio che fosse. La mia situazione di allora mi appariva senza vie di uscita, se non con l’evasione o con una rivoluzione in cui credevo oramai poco o niente. Era già evidente quel fenomeno che sarà chiamato “riflusso” dell’onda giovanile, in Italia e non solo. Passarono altri anni, durissimi, però mi ero procurato un’altra copia della Commedia! E un giorno, avendo già scritto e pubblicato qualcosa, mi chiesi: perché non tentare qualcosa su Dante? Nel corso degli anni hai letto e riletto la Commedia forse più volte di Colui che la scrisse! Sono state scritti opere di narrativa sul Cristo, perché non sul più grande poeta cristiano? Pensavo, ad esempio, al romanzo di Ponzio Pilato, questo libro prezioso incastonato ne Il Maestro e Margherita che aveva rappresentato uno dei miei libri di formazione. Però non volevo scrivere l’ennesima biografia, ma tentare un’opera narrativa.
E fu così che incominciai a scrivere un romanzo con Dante al centro della scena?
Prima, e parallelamente, cominciai a fare ricerca. Solo che non avevo a disposizione biblioteche universitarie, fondazioni, ecc. Così ricorsi all’aiuto all’esterno, a Gabriella, la mia compagna, e a quello dello storico del cristianesimo Remo Cacitti che misi letteralmente in croce. Avevo già letto e studiato tutte le opere di Dante, e poi il Trattatello del Boccaccio, la Cronica di Giovanni Villani e quella di Dino Compagni, il Codice diplomatico dantesco… Il professor Cacitti e Gabriella mi procurarono migliaia di fotocopie di testi giacenti (in pace!) nelle più diverse e lontane biblioteche. Potrei stilarle un lunghissimo elenco delle opere lette o consultate. Ma da subito mi furono evidenti due pericoli: quello del gravare di tanti libri sulla narrazione che volevo intraprendere e la trappola rappresentata dall’immedesimarmi oltre misura nelle sventure di Dante. Credo di aver scampato questi pericoli, e la critica me lo ha riconosciuto.
Cosa è stato Dante per lei?
Se dicessi che è stato un maestro, pavento che la volta celeste mi crollerebbe sulla testa! Giustamente. Per cui mi limito a dire che la storia di Dante mi ha affascinato e commosso sin da ragazzo.
Che idea di Dante si è fatto?
Di un gigante che fu abbattuto da una zanzara (Dante morì di febbri malariche e la malaria è trasmessa dalla puntura della zanzara Anopheles). Magari gliela avranno mandata le maledizioni dei parenti di Filippo Argenti, o di Branca Doria, o le preghiere a Lucifero dei tanti dannati ricordati e in eterno infamati nell’Inferno. Nietzsche definì Dante “la iena che verseggia sui sepolcri”. Chateaubriand nel suo Génie du Christianisme scrive di preferirgli Milton e il Paradise Lost, e definisce la Commedia “étrange”, qualcosa di più sfumato di “bizarre”, termine usato dal critico Voltaire, il quale considerava Dante al massimo un poeta minore, a voler essere generosi. Opinione, questa, largamente condivisa a quei tempi e persino in epoca romantica. Come vede, nella storia delle fortune e sfortune dantesche non mancano i detrattori, i riduzionisti; non mancano quelli che della Commedia hanno capito poco o nulla, pensando di aver capito tutto. Insomma, non sempre Dante fu celebrato come “l’autore del più gran libro che uomo abbia scritto”, malgrado le odierne celebrazioni. Ma ben più della critica dantesca, come dicevo, sin da ragazzo fui colpito dalla sua vicenda umana e da come egli seppe scrivere un capolavoro assoluto intingendo la penna nella ferita dell’esilio. Si da il caso (ma non è un caso) che io sia nato, nel 1952, tra profughi ed esiliati. Naturalmente tra essi non ricordo nessun Dante! Ma l’aver trascorso i primi anni dell’infanzia tra gli esuli, gente sradicata dalla violenza e dalla guerra, mi ha dato una sensibilità particolare verso questa condizione.
Oltre alla Divina Commedia, c’è una pagina di Dante che l’abbia colpita più di altre?
Una delle pagine più belle e più degne, secondo me, consiste in un’epistola del 1315 che Dante inviò ad un amico fiorentino, probabilmente un religioso. (Dovevano essergliene rimasti ben pochi, di amici in Firenze, come sempre avviene a chi cade in disgrazia). Così concludeva la lettera: “Non è questa la via del ritorno in patria, o padre mio… E che, dunque? Forse che non vedrò dovunque la luce del sole e degli astri? Forse che non potrò meditare le dolcissime verità dovunque sotto il cielo, se prima non mi restituisca alla città, senza gloria e anzi ignominioso al popolo fiorentino? Né certo il pane mancherà”. In quell’anno era stata promulgata un’amnistia che, finalmente, non escludeva nemmeno Dante Alighieri. Si trattava di pagare una multa e di sottomettersi ad una sorta di rito espiatorio che si sarebbe celebrato in processione verso la chiesa di San Giovanni. In sostanza si trattava di un’ammissione di colpa (baratteria, inique estorsioni, ecc.). Oggi si chiamerebbe “patteggiamento”. Ebbene, Dante rifiutò di patteggiare e per questo fu ribadita la sua condanna a morte per decapitazione, questa volta estesa ai figli Pietro e Jacopo. Ma se anche avesse accettato di rientrare in Firenze, secondo me lo avrebbero accoppato i parenti di qualche dannato fiorentino. Magari quelli del ramo nero della casata degli Adimari, il cui congiunto egli aveva immaginato piangente nella palude Stigia, aggrappato alla barca del nocchiero Flegiàs, e Virgilio che lo respingeva: “Via costà con li altri cani!”. E coi dannati indemoniati che gridavano: “A Filippo Argenti!”. E Dante col dente canino avvelenato a scrivere: “…e il fiorentino spirito bizzarro, in sé medesmo si volvea co’ denti”. Ripeto, immaginiamoci i parenti del suddetto Filippo Cavicciuoli (detto Argenti per via del vezzo di farsi “ferrare” d’argento gli zoccoli del cavallo), parenti e amici ancora al potere a Firenze, se Dante fosse rientrato in patria, amnistia o non amnistia: lo avrebbero affogato nell’Arno, non potendolo impaludare all’inferno.
Nell’antologia Mia linfa mio fuoco lei dice, chiaramente, “Io ho trovato la mia consolazione, se non la mia salvezza nella poesia”. Cosa significa? Lei usa parole enormi e allo stesso tempo frugali. Che tipo di consolazione offre la letteratura, che tipo di salvezza?
Mi riferivo anzitutto alla salvezza mentale, se non alla felicità, anche se Borges (mi permetta ancora una volta di citarlo) definisce la letteratura “una delle forme della felicità”. In guerra o in prigione o in qualunque altra situazione drammatica ci metta la vita (o ci si metta da noi stessi), si può impazzire, imbestialire, incattivire… oppure cercare di guardare oltre, volare alto. Ho sempre amato i bei libri. Può essere che io non sappia scrivere, magari per il largo pubblico, ma le assicuro che so leggere. Sin da bambino, sin da ragazzo. Da bambino e da ragazzo trascorsi lunghi anni in un buon collegio cattolico. Ricordo che d’estate gli altri ragazzi ritornavano alle famiglie, ed io restavo il solo allievo. Evidentemente la vita o il mio angelo custode mi stava preparando a ben altre e drammatiche solitudini. Allora, in quelle estati, avevo sempre dei veri amici al mio fianco. Ne cito almeno uno: Il Vagabondo delle Stelle. Se ha letto il romanzo di Jack London, ricorderà che il vagabondo delle stelle è un prigioniero, un ex professore universitario condannato per l’omicidio di un collega, che sistematicamente viene rinchiuso in una cella di punizione e stretto in una specie di camicia di forza. In questa condizione però trova il modo di evadere con lo spirito e di rivivere altre vite, le sue vite precedenti (era il periodo in cui London si interessava di metempsicosi!). Similmente, quando fu il mio turno e caddi nella stessa condizione, mi venne quasi naturale di evadere con lo spirito. Senza ricorrere alla metempsicosi, ritrovai i libri, i buoni libri, i libri che avevo amato e altri che avrei letto, e non era sempre facile, allora, procurarsi dei libri. Uno me lo fece avere il cardinale Martini, il Libro dei libri, la Bibbia. Anni dopo gli avrei fatto dono del romanzo su Dante. (Conservo ancora la fotografia!).
Lei ha conosciuto il cardinale Martini?
Sì, e sarebbe stato l’unico, un giorno, a offrirmi un posto di lavoro, all’ufficio stampa della Caritas ambrosiana. Nessun aiuto mi venne dal “soccorso rosso”, bensì da un gesuita. Erano anni, la seconda metà degli anni ’80, in cui in Italia volavano ancora le pallottole. Ricordo che un esponente di Prima Linea, un gruppo della sinistra armata, fece recapitare a Milano, in curia arcivescovile, qualche fucile. Come a dire: “Deponiamo le armi di fronte alla Chiesa”. Gesto eclatante, altamente simbolico, solo che le armi come ovvio non restano in curia, non vanno a Roma ad armare le guardie svizzere, ma finiscono in deposito nei sotterranei di qualche tribunale e, dopo un certo tempo, vengono messe all’asta dove dei fanatici delle armi (magari tipo avvocati, ecc.) con regolare autorizzazione possono acquistarle a prezzi di stracciati. Così, alla fine, le armi consegnate o sequestrate finiscono a dei maniaci! No, buon Dio, io avrei consegnato al Cardinale il mio romanzo su Dante Alighieri, sicuro che lo avrebbe apprezzato più di qualche ferrovecchio.
E lo apprezzò?
Il gesto lo colpì, e lo compresi dal suo sguardo, ma voglio sperare che avesse qualcosa di più importante da fare per l’umanità che leggere il mio Dante. Non si immagini, la prego, qualcosa di manzoniano: il Cardinale, noi bravi, l’Innominato… Macché bravi, semmai cattivi, noi fummo!… Ma forse no, almeno non più di tanto. Com’è noto a tanti che da giovani cantavano (sulle note della Varsavienne) “Stato e padroni, fate attenzione, nasce il partito dell’insurrezione…”, com’è noto a certi storici ex militanti di Potere Operaio che in televisione oggi fanno il bello e il cattivo tempo, i cattivi nella storia sono sempre gli altri. È un modo, il loro, di rifarsi una verginità sulla pelle dei loro compagni di gioventù.
La vita, però, non è soltanto un esercizio di lettura. Quali altri incontri l’hanno segnata?
Di gente di gran valore spirituale, umano e culturale, oltre al cardinale Martini, sulla strada di casa (diciamo così) ebbi modo di incontrarne altre: oltre al già citato martire Remo Cacitti, ricordo Davide Maria Turoldo, Camillo de Piaz, Franco Fortini, Lucilla Morlacchi, Franco Parenti (per cui scrissi il dramma Labyrinthos), Gianpiero Gamaleri, con cui mi laureai in sociologia (da asociale qual sono!); ricordo l’immortale Sandro Bajini… Per non parlare del mio miglior editore, Mario Guaraldi, e poi l’ex direttore de “L’Adige”, Paolo Ghezzi, sotto la cui direzione per anni scrissi liberamente editoriali perlomeno arditi. Un altro incontro fondamentale è stato quello con Pupi Avati con il quale da molti anni condivido un sogno. Ma per timore di dimenticare di citarne qualcuno e di fargli un torto, preferisco fermarmi qui. Magari avessi fatto questi incontri quando avevo vent’anni!
C’è, tuttavia, un incontro che l’abbia segnata più degli altri?
Sì, l’incontro con l’Ineffabile.
Dio?…
Chi altri?
Lei crede in Dio?
In fondo ci ho sempre creduto. Non per niente sono stato educato dai preti! E dei buoni preti, non come certi giornalisti che procedono per velenose generalizzazioni e non vedono altro che preti corrotti e pedofili, e magari lo sono loro stessi. Se tra i preti oramai la simonia è una rarità, se non altro considerata la crisi delle vocazioni, tra i maestri del giornalismo e i loro cortigiani è la regola. L’alternativa a Dio è un buco nero in cui sono caduti illustri fisici e astrofisici. Se mai avessi un dubbio, mi basterebbe leggere le banalità filosofiche di certi scienziati. Non sono completamente a digiuno in fatto di storia e filosofia della scienza. Se mai avessi un dubbio, mi basterebbe alzare gli occhi in una notte stellata. Ha funzionato persino con Kant. Se esiste una legge morale (ed esiste!), c’è un legislatore. In ogni caso, credevano in Dio Dante Alighieri, Copernico, Galileo Galilei… Insomma, sono in buona compagnia.
“Ma questi sono geni del passato!”, potrebbe obiettare qualcuno.
Già, l’universo ci appare spaventosamente dilatato, dilatato all’inverosimile, e a noi verosimilmente si è ristretto il cervello. Al presente, in questo presente bassamente poetico, questo presente vile e fraudolento, non potrebbe nascere nessuna Divina Commedia. Oggi la gente può vedere le volte plastificate dei centri commerciali, dell’Inferno commerciale, non contemplare le volte affrescate. In quanto a Copernico e Galileo Galilei, mai avrebbero immaginato che, scalzata la Terra dal centro dell’universo, al centro sarebbe finita la Merce e non certo l’essere umano, come in fondo voleva significare l’altra metafora. Credo che su questa conclusione concorderebbe persino Karl Marx, che pure considerava la religione “l’oppio dei popoli”. Ma già! Dio è morto, Karl Marx è morto e sepolto e i progressisti sono passati dal Manifesto del Partito Comunista al Manifesto del Partito Eugenista. In quanto a Galileo costretto all’abiura, la centralità della Terra in senso astronomico non fu mai un dogma della Chiesa. E questo lo appresi tanti anni fa mentre preparavo un esame universitario. Lo appresi da Thomas Kuhn (ma non solo), uno dei più influenti filosofi della scienza della seconda metà del XX secolo, e dal suo La rivoluzione copernicana. Il cardinale Bellarmino lo sapeva benissimo che la Terra si muove, così come lo sapevano i Greci e Aristarco da Samo.
Cos’è stata la lotta armata? Perché tanti giovani come lei la percorsero?
Da una vita, si può dire, non parlo di questo argomento, né in pubblico e nemmeno in privato, ma purtroppo “gli esami non finiscono mai” come scriveva Eduardo de Filippo. Ne parlai, e chiaramente, quando era il momento di farlo. E ne parlai francamente, dolorosamente. Non può venirne niente di buono, a parlarne troppo. Comunque mi sento di rispondere, e per me stesso, che quanto avvenne soprattutto negli anni ’70 in Italia e non solo fu una delle appendici delle grandi tragedie dell’ultimo secolo dello scorso millennio. Ma tanto per non partire da Adamo ed Eva, posso dirle che in principio furono le parole, le parole si trasformarono in pietre e le pietre in pallottole. Molti spararono parole a raffica, altri tirarono le pietre e poi nascosero la mano, altri presero le armi “contro un mare di guai”. Talvolta i più ingenui, questi ultimi, ingenuamente coerenti con parole tipo “lo stato borghese si abbatte e non si cambia!”, “e tu, compagno, cosa aspetti a capire che è giunta l’ora del fucile?!”… C’era una marea di giovani a sognare la rivoluzione, la fine dell’egoismo, la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, per non dire dello sfruttamento della donna. C’era una miscela veramente esplosiva che aspettava solo di essere innescata. Il che, puntualmente, avvenne. A innescarla fu una strage degli innocenti che urlava vendetta al cielo. Una strage attuata da un gruppo nazifascista, ma che nelle intenzioni degli ideatori avrebbe dovuto ricadere sugli anarchici. Ci sarebbero voluti anni affinché emergessero le connivenze, le complicità e il tradimento di uomini (se uomini si possono chiamare) che appartenevano agli apparati di sicurezza dello stato. Quella strage, cui sarebbero seguite altre carneficine, indusse molti a credere che “lo stato borghese si abbatte e non si cambia”. Allora avevo sedici anni. L’anno successivo sarei entrato nell’unica formazione clandestina in cui io abbia veramente militato: i Gruppi di Azione Partigiana dell’editore Giangiacomo Feltrinelli. Feltrinelli vedeva il pericolo di un colpo di stato in Italia, e non era una visione campata per aria. Per questo fondò i Gruppi di Azione Partigiana. Questa esperienza però per me fu una grande delusione e cercai di uscirne, e davvero me ne andai per la mia strada mesi prima che Feltrinelli morisse. Successivamente, alla prima inchiesta, un idiota e un infame mi denunciarono. Poi c’è l’amicizia, il compagno che è finito in prigione, ed io non ero e non sarò mai il tipo che abbandona il compagno, in azione o in prigione. Così mi ritrovai alla macchia, come sul dirsi. Il resto è cronaca, ma vorrei poter dire “il resto è silenzio”, e bere di “quell’acqua che toglie altrui memoria del peccato”.
I suoi libri, mi riferisco anche a Il fuoco nuovo, sono pressoché scomparsi dal convegno editoriale e letterario: come mai? Anche lei, in effetti, è scomparso…
Dica pure che sono entrato in clandestinità culturale, e un po’ mi ci hanno costretto. Che dire? Aveva ragione quel Grande con cui lei ha incominciato l’intervista, che nell’XI del Purgatorio scrisse: “Non è il mondan romore altro ch’un fiato di vento…”
Sta scrivendo? Che cosa ha scritto in questi anni? Che cosa vorrebbe scrivere?
Non scrivo da molto tempo, se non qualche lettera a qualche buon amico. Non scrivo non perch’io soffra del “blocco dello scrittore”, ma perché sono stato in un certo senso “bloccato”. Pare che scrivere sia diventato un reato. Naturalmente custodisco il classico manoscritto nel cassetto, anzi due o tre.
Si trova, come dire, al di là della scrittura?
In un certo senso.
Le chiedo di estrarre un verso, un libro, un autore che hanno cambiato la sua vita.
L’unico Autore che può cambiare la nostra vita non scrisse nulla, se non una volta, quando con un dito traccio qualcosa sulla terra, mentre stava per iniziare il linciaggio di una donna, un’adultera, un linciaggio legale. Parole che Egli scrisse ma che nessuno lesse, poiché le cancellò, se dobbiamo prestare fede al Vangelo. Che dire? Se oggi un povero cristo dicesse “chi è senza peccato scagli la prima pietra” verrebbe sepolto da insulti sui social e lapidato per strada. Se però devo proprio citare un verso, gliene cito due, ovvero la “picciola” orazione dell’Ulisse dantesco: “Fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza”. Pur avendo conosciuto il peggiore mondo brutale, ho cercato di non vivere come un bruto. Sulle mie virtù stendiamo un velo pietoso, ma il mio amore per la conoscenza non è mai venuto meno, è un amore sincero. Insomma, sulla nave di Ulisse, per il “folle volo”, mi ci sarei imbarcato anche come mozzo. E non solo da ragazzo, ma anche oggi, mi ci imbarcherei.
Che idea ha, oggi, dello Stato, del mondo, della politica?
Lo stato del mondo oggi più che mai è desolante. Qui mi verrebbe da citare Cecco Angiolieri: “S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo…”. Al che lei avrebbe ragione se mi desse dell’irriducibile nichilista. Lo stato del mondo oggi è tale per cui i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri. Almeno su questo Karl Marx fu profetico. La condizione giovanile poi è semplicemente spaventosa. Insomma, il modo di oggi è persino peggiore del mondo contro cui ci ribellammo. I padroni dell’umanità esistono per davvero, non sono un’invenzione di Noam Chomsky, e l’espressione è mutuata da Adam Smith: “La vile massima dei padroni dell’umanità: tutto per noi, niente per gli altri”. La democrazia è un’apparenza, un fantasma, una recita, dietro cui ci sono registi e produttori. Noi viviamo sotto il tallone di ferro (direbbe Jack London) dell’oligarchia finanziaria, digitale… La politica oramai conta poco o nulla, e non penso solo al pantano della politica nostrana. Alla gente sono offerte due alternative: la brutalità più manifesta o la frode. E questa “sozza imagine di froda” sovente ha “la faccia di uom giusto”, come il mitologico Gerione, e scrive puttanate sui grandi giornali padronali, e appartiene alla mafia del talk show. Se l’Amore muove il cielo stellato, nel mondo che gira sono altri a farla da padrone.