Nel 2010 soggiornai a Vienna per alcuni giorni. Da oltre un anno mi occupavo di Est Europa e in particolare della Romania e delle regioni limitrofe, legate alla capitale asburgica e all’Austria dal Danubio e da numerosi eventi storici e culturali.
Mi accompagnava una guida preziosa, la Rapsodia viennese di Anacleto Verrecchia (Donzelli 2003), uno dei suoi lavori migliori, in cui sono raccolti descrizioni, aneddoti, storie e riflessioni su «luoghi e personaggi celebri della capitale danubiana», come spiega il sottotitolo, e che talora allarga la sua geografia fino alle Porte di Ferro (con un irresistibile richiamo wagneriano) e a figure eccentriche rispetto al tema dell’opera. Tra i molti e variegati capitoli mi colpì subito quello dedicato a Nikolaus Niembsch von Strahlenau, meglio noto semplicemente come Nikolaus Lenau, uno dei più svettanti spiriti europei del XIX secolo, e che per caso lessi nella corte di una delle case in cui dimorò un altro gigante, Beethoven.
Ripiglio in parte, integrandole, quelle pagine in occasione dell’uscita di ben due nuove edizioni del Faust, il capolavoro dell’infelice poeta, pubblicate da editori molti diversi: Le Cáriti di Firenze e la milanese Carbonio.
Lenau nacque nel 1802 nella colonia sveva in Ungheria, ex slava, di Csatád, sotto l’Impero, oggi nei confini romeni, ma allora di lingua prevalentemente magiara, e studiò nella capitale asburgica, dove morirà nel 1850. Nel 1927, in onore del poeta, Csatád mutò il nome in Lenauheim, ossia «casa» o «focolare» di Lenau. Il lettore non si stupisca di questo intrigo: da quelle parti, soprattutto entro il versante nord-occidentale dei Carpazi, razze e lingue si mescolano come in un frullatore. Ci sono stanziati, nemmeno a dirlo, anche italiani.
Lo stesso Lenau si sentì sempre una specie di apolide e si spostò in diverse zone dell’Impero, sebbene fosse più legato all’Ungheria di cui conservò sempre il passaporto. Era stata la famiglia a portarlo obtorto collo a Vienna, città che egli imparò presto a detestare. Egoisticamente dobbiamo della riconoscenza a quella famiglia pur scombiccherata, come leggeremo a breve, perché il tedesco è una lingua assai più ricca dell’ungherese e del romeno e assai più adatta a comporre versi. Anche se, è facile immaginarlo, Lenau sarebbe stato in grado di esprimere i suoi profondi pensieri anche in altri idiomi: il genio se ne infischia delle contingenze.
Un simile patchwork fa sì che Lenau, pur avendo scritto sempre e soltanto in tedesco, sia conteso tra Austria, Romania e Ungheria. Ciò significa che nessuno vuol farselo scippare. E con grande ragione! Egli è infatti uno dei più alati poeti della nostra storia e i suoi versi volano al cielo, sebbene sia un cielo plumbeo, anzi infernale, come ci raccontano la sua vita e la sua opera.
Il padre «era uno scapestrato e un caposcarico», che morì «vittima dei suoi stravizi a soli trent’anni, lasciando nella miseria la moglie e i tre figli». La madre invece gli trasmise «il tarlo devastante della malinconia». Nonostante natali poco fortunati, Lenau era un uomo colto, bellissimo e affascinante, e soprattutto geniale. Ma capita spesso che esseri siffatti debbano per così dire subire un pesante contrappasso.
Dopo aver peregrinato inquieto di qua e di là nell’Impero senza però trovare requie, decide di trasferirsi, come li chiamerà poi, negli Stati Insuiniti d’America, alla ricerca dell’agognata pace. Ma l’esperienza è traumatizzante, come si capisce dall’aggettivo e da ciò che scrive al cognato Schurz, il quale in seguito diverrà il suo primo biografo:
«Questi americani sono putridissime anime di mercanti, completamente morte a ogni vita spirituale… Ci vuole proprio la voce del Niagara per predicare a questi cialtroni che al mondo ci sono Numi più alti di quelli coniati dalla Zecca».
Ecco una scena a cui Lenau assiste presso un albergo:
«Suona la campana del pasto, e cento americani si precipitano dentro senza guardarsi, senza dirsi una parola. Ciascuno s’immerge nella propria scodella, mangia in fretta e furia, balza in piedi, getta via la seggiola e corre a guadagnarsi dollari».
Così, per ristorarsi lo spirito, Lenau andava nei boschi a suonare da solo il violino, un Guarneri del Gesù, strumento che maneggiava a meraviglia. Figurarsi cosa potessero pensare di un soggetto simile quei tangheri dei suoi provvisori vicini di casa. Lo ritenevano un bizzarro, anzi un disadattato.
Ritornato affranto e schifato a Vienna, la vita non gli sorrise molto di più, anzi. Conobbe infatti Sophie von Kleyle, sposata von Löwenthal, una nobildonna la quale, sebbene fosse ammaliata dal poeta, non gli si concedette mai per non sporcare la sua rispettabilità sociale e soprattutto per non rischiare di perdere gli ingenti benefici materiali che le derivavano dal matrimonio, peraltro aborrito per sua stessa ammissione.
Nel 1844, sulla strada che lo avrebbe portato a contrarre alla sua volta un matrimonio, Lenau mutò d’avviso, o se si preferisce rinsavì, e decise di soggiornare presso alcuni suoi amici a Stoccarda. Fu qui, nella notte tra il 13 e il 14 ottobre, che fu colto da un primo e violento attacco di pazzia.
Ora la parabola di Lenau scivola piuttosto rapidamente lungo una china vertiginosa ed egli trascorre da un medico a un altro (tra cui il celebre Karl Eberhard Schelling, fratello del filosofo), da un manicomio a un altro e da un tentativo di suicidio all’altro. «Parlava spesso in latino – racconta Verrecchia – e assumeva atteggiamenti ieratici, dicendo di essere il Paracleto». Ogni tanto ricuperava lucidità e controllo, ma poi «si perdeva di nuovo e, forse ripensando al viaggio avventuroso in America, scambiava la sua stanza per una nave in tempesta e guidava il timone al canto dell’Inno alla gioia di Schiller».
Nel 1847 fu ricoverato presso la clinica psichiatrica di Oberdöbling a Vienna, dove trascorse i suoi ultimi anni e in cui morì. La storia di quest’ultimo torno di tempo è straziante e fa tornare alla mente gli ultimi anni di Nietzsche, raccontati anch’essi da Verrecchia (non senza parecchie ingiuste stoccate) nella Catastrofe di Nietzsche a Torino. Basti apprendere questo breve ma dolente scambio con un sorvegliante: «Sa che lei è il signor von Niembsch, il grande?». E il poeta rispose: «Oh, ora Niembsch è diventato piccolo». Oppure le parole che disse al suo medico: «Una notte si sentì un grande rumore nella sua stanza. Il dottor Görgen accorse subito e gli chiese che cosa avesse. Lenau lo guardò con occhi di una tristezza abissale e rispose: “Il povero Niembsch è molto infelice”».
I suoi funerali furono partecipati da numerose persone, tra cui due ministri, e solenni come si dovevano a un dio. Lenau infatti, prima di sprofondare nell’ottenebramento, era considerato uno dei poeti più eminenti e corruschi della sua epoca, tantoché, solo per fare due esempi, il prestigioso editore Cotta gli offrì di pubblicarne l’opera omnia e Franz Grillparzer, un altro condomino aureolato del Parnaso, dopo aver ascoltato alcuni brani proprio del Faust, definì Lenau «il Dante tedesco».
E cosa sarebbe potuto uscire dalla penna di un uomo dalla vita tanto tormentata e dal temperamento malinconico? Egli non avrebbe certo potuto comporre versi scanzonati o gloriosi: il suo Faust è infatti un tragico inno di dolore e che, sia detto con rispetto, dal punto di vista letterario e filosofico non ha nulla da invidiare al più famoso poema di Goethe. Tuttavia non si commetta l’errore di pensare a Lenau come a una specie di prefica o al salice piangente della poesia. La sua sofferenza ha bensì origini famigliari, ma ha soprattutto un movente trascendente, metafisico o, se si preferisce, psicologico, che nel Faust trova la sua apoteosi, o sarebbe meglio dire la sua catabasi o “apodiabolosi”.
Lenau, come il suo alter ego letterario, è tormentato dal problema della conoscenza e lo sarebbe stato forse anche se fosse nato sotto una stella benigna. C’è però un’abissale differenza tra il dottore “borghese” goethiano, che trova riscatto nell’eterno femminino, e quello di Lenau. Quest’ultimo infatti non trova alcuna soluzione, nessuna pacificazione. Lenau declina il tormento faustiano in maniera radicale e ne fa, come accennavamo poc’anzi, un problema metafisico. Per Lenau l’autentico strazio sta nella caduta, quindi nella separazione dell’uomo e quindi in primis anche di sé stesso, dalla verità naturale, che egli purtuttavia si ostina a perseguire. Ma finirà per rifugiarsi nell’Io, eretto ormai a divinità. Ed è ciò che lo porterà alla sconfitta totale.
Dovremmo qui indugiare su questa scelta, ad esempio evidenziando la possibilità di trovare proprio nell’Io, quindi nel soggetto, una soluzione alla lacerazione. Ma, come si capisce, il discorso diventerebbe oltremodo esteso.
Lenau era innamorato della natura, della quale si sentiva parte integrante ancorché non riuscisse a penetrarne l’arcano. Per chi sia nato e vissuto in quelle regioni l’amore per la natura è quasi un’attitudine congenita. Figurarsi a metà Ottocento che cosa potessero essere i paesaggi e come si riflettessero nella mente di Lenau. Ancora oggi lassù, nonostante gli scempi, foreste boschi e animali fanno parte della vita quotidiana delle persone. Fu una delle caratteristiche che mi colpirono per prime a Vienna e soprattutto in Romania. Ma Lenau non amava la natura come un Hölderlin: il suo amore va inteso nel senso del latino studere, che significa per l’appunto anche provare amore. Leggiamo una fondamentale notizia riportata questa volta Simonetta Carusi, che cura il Faust “fiorentino”. Nel 1824 «in una lettera a Friedrich Kleyle [il marito di Sophie] si dichiarò deluso dai filosofi che rifiutavano la filosofia della natura e pretendevano di “fondare le loro teorie metafisiche esclusivamente sullo spirito”». Erano stati il romanticismo jenese, Schelling e soprattutto Spinoza a pungolare Lenau a una più incisiva contemplazione della natura per trarne la verità sul mondo e sull’essere umano. Ma poi venne qualcosa, o più precisamente qualcuno a guastare la festa.
Ascoltiamo i versi che il poeta mette in bocca a Mefistofele. La traduzione è quella di Simonetta Carusi.
Tradita la Natura, restò loro impresso in volto quel terrore, e si trasmise ai discendenti; la Natura con la scheggia di una roccia acuminata, ricoprendo tutto l’arco del futuro, incise per i posteri la sua maledizione: «Gli ebrei hanno trasgredito il patto sacro!». – Per riparare all’anatema, un giorno giungerà un grande giudeo; ma troppo tardi! Autore sapientissimo di testi imperituri, verrà a inchiodare Cristo al palo della morte con le punte di diamante del suo spirito, porterà il nome della corona di Gesù. Ma ormai sono spenti i vostri istinti primordiali, avvizziti gli impulsi nobili del cuore, ed i potenti canti, i miti favolosi, ed il possente amore che genera gli dei. Tradendo la Natura voi avete dissipato la sua fiducia, e non l’avrete più; potete anche indagarla, studiandone l’aspetto, ma lei non vi aprirà mai più il suo cuore; giacché chi non la elegge a sommo bene, chi cerca Dio nell’aldilà, l’ha persa.
In buona sostanza, ripigliando in parte l’attacco del poema, Lenau sta dicendo che sull’umanità si è abbattuta una sorta di maledizione: prima per colpa degli ebrei, e poi di Gesù e dei cristiani, entrambi colpevoli di aver reciso il legame primigenio e, scusate il bisticcio di parole, naturale tra uomo e natura. Sarà Spinoza a rimettere dritta la barra del timone, ma ormai è tardi. La caduta è irreversibile. E non ci si dimentichi in parentesi, quasi a conferma delle parole di Mefistofele-Lenau, che Spinoza fu prima espulso e poi maledetto come eretico coram populo, con parole agghiaccianti, dalla comunità ebraica di Amsterdam, la quale gli scatenò addosso persino un sicario, che per fortuna fallì il colpo. Esiste ancora il mantello appartenuto al grande filosofo squarciato dal coltello “benedetto”.
In base a quanto detto, risulta piuttosto temerario da parte di Verrecchia imputare all’eterno femminino la disperazione di Lenau e il suo declino psichico. Sarebbe meglio dire, invece, che certe donne hanno incrudito il tormento del poeta, il quale avrebbe forse potuto chetare l’agitazione interiore con le imprese dell’alcova. Che le donne possano portare alla rovina materiale e mentale un uomo, è storia vecchia come il mondo e in un certo senso fa parte della natura, come si capisce anche da alcune acute osservazioni della Metafisica dell’amore sessuale di Schopenhauer. Ma è altrettanto vero che vi sono stati uomini i quali, pur suscettibili di cadere nella trappola e addirittura cascatici dentro con mani e piedi, hanno saputo risollevarsi o resistere, e così salvarsi.
È altrettanto azzardato e persino offensivo chiedersi se Lenau in qualche maniera, proprio come il protagonista del suo poema, non se la sia andata a cercare. Pongo la questione perché da parecchi anni a questa parte circolano nuove e curiose teorie psicologiche secondo le quali ciascuno di noi, nonostante qualche margine di casualità, sarebbe artefice del proprio destino, disgraziato o felice che sia. Ovviamente non è questo il luogo per approfondire il problema del libero arbitrio. Constato soltanto che quanti propendono per una simile congettura, o ragionano poco oppure sono affetti da intensa miopia, ovvero degli autistici, poiché ignorano una molteplicità di fattori che si incaricano di sbugiardarli. In ogni caso, per mia diretta esperienza, tutti costoro non hanno mai provato autentico dolore, come ad esempio una malattia mentale (a meno che non si contemplino come tali anche l’egoismo e l’ottusità), i morsi della fame o le vessazioni da parte altrui. Vorrei tanto vedere questi saccenti psicologi spiritualizzanti alle prese con qualche serio infortunio esistenziale.
Mi sia consentito in proposito una notazione polemica che riguarda una famosa sentenza di Pascal, secondo il quale la maggior parte delle sventure degli uomini è dovuta all’incapacità di starsene chiusi nella propria stanza. Così parla soltanto un privilegiato o piuttosto uno stolto, ignaro di quanto le disgrazie possano abbattersi persino sul più schivo degli eremiti. Preferisco ascoltare le fusa di un gatto o il canto di un’allodola che non queste considerazioni temerarie e sfrontate. E non è necessario arrivare dagli strati infimi della società o essere colpiti da una sorte avversaper aprire gli occhi e rendersi conto del dolore di cui è intessuta la vita: si pensi ai privilegiati Schopenhauer e Siddharta Gautama, vale a dire il futuro Buddha! Tra Schopenhauer da una parte e un Pascal o qualche fricchettone del New Age dall’altra, c’è tutta la differenza tra un angelo e un prete.
È pur vero, come dicevamo poc’anzi circa il rapporto con le donne: c’è quasi sempre la possibilità di una mediazione, di resistere all’abbandono e alla sconfitta, o di accettare la sconfitta con animo sereno o almeno rassegnato. Ma non tutti godono di un temperamento solido che impedisca di sprofondare negli abissi. Ciò che possiamo e dobbiamo fare noi, è chinare il capo davanti alla sofferenza ed essere riconoscenti, pur a malincuore, per quei versi, così brucianti perché nati dal dolore, ma che possono istruirci molto sulle nostre scelte intime.
In conclusione vorrei spendere due parole sulle traduzioni, il cui arrivo bisogna festeggiare perché il Faust mancava da quasi quarant’anni e precisamente dal 1985, quando fu stampato da Marietti, di cui Carbonio riprende la versione, leggermente ritoccata dall’interessato, ossia Alberto Cattoi, che aggiunge una breve prefazione. È una traduzione filologicamente corretta, anche se si concede qualche libertà non necessaria e ammiccamenti inopportuni (con Lenau non c’entrano nulla Carducci e meno ancora Benigni…). Ed è un peccato anche che Cattoi non abbia minimamente tentato di rendere la straordinaria musicalità dei versi e quindi la pagina risulti troppo prosaica. Anche l’introduzione avrebbe potuto essere più esaustiva o meglio meno sbrigativa. Purtroppo è del tutto assente un apparato critico.
Simonetta Carusi, invece, si sforza assai di più, sia nella restituzione del poema, sia nell’introduzione, alquanto accademica e quindi ingessata, ma ricchissima di informazioni e appone anche qualche utile nota. Ma non cavilliamo troppo: è già manna dal cielo che due piccoli editori abbiano rimesso in circolazione il Faust e che quindi il nome di Nikolaus Lenau possa arrivare a chi ha le antenne sensibili per intercettare le perle nascoste della nostra letteratura.