Per carità, castrato dal mondo come sono preferisco la prima edizione, quella del 1968, tradotta in fretta e furia da Liliana Magrini, stampa Bompiani. Copertina rigida, con quella fotografia dagli occhi liquidi e spiritati, la mano da efebo, da violento coi guanti, che regge la sigaretta e copre il mento, la bocca. André Malraux nel 1930, secondo lo sguardo fotografico di Germaine Krull: sono gli anni dei romanzi cinesi e indocinesi, già lividi e bellissimi, Les Conquérants e La Voye royale, esito delle maldestre, folli spedizioni tra i templi diBanteay Srei insieme alla straricca Clara Goldschmidt, impalmata Malraux. Malraux si mette in scena, ovunque; e si copre la faccia – il tutto per tutto del sommo mentitore. D’altronde, Antimémoires era uscito l’anno prima, nel ’67, Malraux era ancora plenipotenziario della cultura francese, e quel libro, prodigio sublime, catastrofe di bugie, era il suo De Bello Gallico, monumento perenne all’ego della dissoluzione.
Quel libro – in cui confessione e autodafé, ammissione e abiura, ordalia e ordine, legge e caos procedono, magistralmente, a braccetto – è un rito iniziatico. Comincia con un’evasione, termina tra le grotte di Lascaux, quando l’autore-tiranno rammemora la guerra di Spagna, la resistenza francese, pensa se sia meglio l’eterno ritorno o il risorto. Su tutto, riluce il corpo lussurioso della morte. Cinto da una frase buddista, il romanzo autobiografico assembla, in una violata wunderkammer – ‘museo immaginario’ direbbe Malraux –, Cristo e la Sfinge, Marx e il taoismo, le maschere africane e i diktat confuciani, Mao e i misteri dell’io. Malraux manda al rogo ogni credo. In un dialogo – reale e dunque immaginato – con l’allora primo ministro indiano Jawaharlal Nehru, lo scrittore discetta della storia di Siddharta, di Gandhi, del Gange, di Einstein e della “Danza della morte”, di Le Corbusier e dei Veda; e conclude:
“L’Occidente era l’individualismo; un individualismo che era al tempo stesso il crocefisso e il reattore atomico”.
L’erudizione è sfidata da chi s’imbeve di abisso.
Beh, insomma, dopo troppi anni, da quel dì, tornano per Bompiani le Antimemorie.Un libro eroico, disperato, estroso. Estremista. L’antitutto Malraux fa della memoria un memoriale, stempera la Storia in una staffilata di spettri, mente per necessità del vero. L’ossessione di Malraux è quella, impaziente: lo scrittore non si inscrive in una storia – che è sempre cronaca di cadaveri –, piuttosto, scrive la Storia. Protervia demiurgica, progenie di angeli fraudolenti. Le Antimemorie, così, più che ai ‘parenti’ stretti di Malraux – l’amico fraterno Drieu, l’ambiguo Aragon – vanno comparate agli scritti di René Char, l’eroe dei resistenti francesi, a quelli di Saint-John Perse, alto diplomatico, braccio destro e mente di Aristide Briand. Per capire come venga declinata quella stessa onnipossente pulsione: fare la Storia con la scrittura. Ritornello che sa di scampanio funebre, di elegia degli estinti. Saint-John Perse è elusivo, un seguace del pudore – mira ai meandri del cosmo, allo scandaglio geologico, con linguaggio imperiale –, Char fa della latrina della Storia un covo battesimale, spazio di velature e rivelazioni; Malraux, con impeto sgraziato, per sempre adolescente, bisbiglia segreti, si fa fotografare al desco dei potenti, si sente il più grande di tutti, ma di tutti, per manifesto ripudio di sé, ha bisogno. Titanismo frutto di crisi di inferiorità.
Ad ogni modo. L’evento editoriale resta. Azzoppato. La nuova versione delle Antimemorie è nella stessa traduzione di allora – Magrini – benché “integrata, riveduta e corretta da Lia Bruna”. Il libro – in foggia meno importante della prima edizione – si spacca facilmente, miseria della carta odierna. L’operazione culturale è sciatta. Antimemorie, infatti, è il primo volume del ciclo autobiografico “Le Miroir des limbes”, che comprende anche La Corde et les Souris (1976) e l’appendice, Oraisons funèbres (in origine, 1971). Il volume è stato raccolto nel 1976 come, appunto, Le Miroir des limbes, numero 263 della ‘Pléiade’ Gallimard, 1024 pagine. Specchi sul limbo, a lambire la morte: qui c’è tutto Malraux. Perché non pubblicare integralmente l’opera? Misteri. Spiegabili, credo, con la teoria dell’accattone: costa troppo e non frega a nessuno. Insomma, la pietra tombale dell’editoria.
Cerchiamo, allora, di portare avanti la conoscenza dell’opera di Malraux, miliare. Nel 1996, il tomo secondo delle Œuvres complètes di Malraux – come sempre: ‘Pléiade’ Gallimard – pubblica una assoluta primizia. Le Démon de l’absolu.Romanzo picaresco e mitologico, roseto di appunti sparsi, che pareva scomparso, dedicato ad analizzare la vita di Lawrence d’Arabia, ennesimo ‘specchio’ – l’altro è Gabriele d’Annunzio – in cui Malraux confronta se stesso, fa la tara sulla propria, personale, violacea epopea. Manoscritto enorme, involuto, magnetico – occupa le pagine 817-1301 del tomo ‘Pléiade’ – abbozzato dal 1946. È il libro in cui Malraux mette in gioco se stesso, certo che gli dia fama imperitura – e che sceglie di nascondere in un cassetto. “Liberation” ne scrisse dicendo di un Malraux d’Arabie; gergo analogo adotta Stenio Solinas in un capitolo di Compagni di solitudine (ora Bietti, 2022), Malraux & Lawrence. Malraux d’Arabia, dedicato a sviscerare i legami tra lo scrittore francese e l’avventuriero inglese. “Libro sofferto, poderoso (quasi tremila pagine di manoscritto), incompiuto, misterioso (‘L’hanno distrutto i tedeschi’, dirà, e invece lo teneva ben nascosto nel suo archivio), alla fine sgradito perché non riuscito. Libro però significativo quanti altri mai per capire il vero Malraux e il vero Lawrence, per cogliere nelle idee del primo i riflessi del secondo”, scrive Solinas, in un pezzo, come sempre, da leggere, da appuntare, da fare proprio.
Nel libro, soprattutto, Malraux definisce il profilo claustrale dell’avventuriero, colui che fugge dalla prigionia della realtà, e la categoria esistenziale dell’azzardo. Come un Caino moderno, l’avventuriero è braccato dal senso del sublime e dallo stigma di una ineluttabile colpa: pur scaltro, ‘cittadino del mondo’, eterno solitario, esteta del ‘bel gesto’, non trova pace. Ogni stazione porta in sé il pericolo della resa alla vita ‘civile’, infine borghese; ogni amore il dramma didattico di ‘metter su casa’; ogni impresa reca l’ombra del fallimento. Tra avventuriero e straccione la differenza è infima; tra malia e malattia resta una dracma di fiato, un refolo. Il rifiuto non basta.
Nel perenne insoddisfatto che azzarda fino all’azzeramento di sé, naturalmente, s’intuisce il ritratto di Malraux. Non riuscì a uccidersi, non sarà mai un autore ‘da salotto’.
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Le Démon de l’absolu
L’avventuriero si oppone, anzi tutto, ad essere identificato in un’identità: non solo cambia stato civile per conquistare il proprio particolare, spesso anela a perdersi. Sembra sempre ossessionato da ciò che gli uomini dicono di lui: “io non sono il mio nome, non sono la mia professione, me ne andrò dove posso agire senza essere riconosciuto, rigetto tutto ciò che mi classifica, che mi declina in un aggettivo, che mi costringe a essere solo e soltanto questo”. Il suo nemico è l’ordine del mondo – il reale.
Il reale si definisce entro un demanio di resistenze, implica un’azione ordinata – un lavoro ordinario. Nel profondo di noi stessi, lo percepiamo come un dominio al quale dobbiamo rispondere con l’ordito di una musica, e su quella, solo su quella, architettare la nostra danza. Tutta la sua struttura si regge sul fare. La perdita del paradiso costringe l’uomo al lavoro. Questo concetto è spesso stato interpretato nel senso di: lavoro duro; foss’anche una minima fatica, il mito agirebbe comunque: l’Arcangelo condanna l’uomo alla realtà. Diciamo che la realtà è un sistema di relazioni di cui l’uomo, che non sa definirla, sente fortemente la totalità. L’avventura, come l’immaginazione, tende a distruggere questo sistema. Non a caso, tutti gli avventurieri sono dei viaggiatori, anche in tempi in cui in cui il viaggio non comporta alcun prestigio: il viaggiatore guarda come uno spettacolo chi ritiene la vita una mera azione. Salvo l’uomo che vive in paesi lontani al fine di esercitare un mestiere, egli ridiventa il missionario, l’antico viandante, per cui gli uomini sono uguali ovunque: se agli occhi di chi attraversa la Cina il cinese è uno spettacolo, agli occhi del commerciante che vi risiede non è che un cliente. Il mestiere chiude sul viaggiatore il mondo che il viaggio gli aveva squadernato. L’avventuriero non si legherà mai a una professione, non attenderà il momento in cui un lavoro lo impegnerà di nuovo: lo fisserà, piuttosto, da un universo a cui non appartiene, in cui cerca soltanto metamorfosi o movimento.
Essere un nomade dei mestieri – come dei luoghi, degli stati civili, di se stessi, se possibile – è porsi di fronte alla realtà nella condizione del meraviglioso.
L’avventuriero non può “far accadere qualche cosa”. Può distruggere tutto ciò che impedisce a qualcosa di accadere. Vale a dire, si pone sistematicamente in un universo dove tutta la forza è consegnata all’avversario della realtà: l’azzardo.
Che tipo di azzardo? L’avventuriero è un essere dotato di arguzia. Per fare cosa? Non lo sa quasi mai – lo sente, con forza. Non soltanto azioni romanticheggianti. Direi: opera azioni il cui scopo gli è parzialmente sconosciuto.
La singolare fratellanza che unisce il giocatore, il cercatore d’oro e Hernán Cortésderiva dal carattere allo stesso tempo vasto e confuso dei loro obbiettivi, dal fatto che il profitto che ne trarranno, eventualmente, non sarà mai proporzionale al lavoro, al talento, all’intelligenza profusa per raggiungerlo. Ciò che distingue radicalmente l’azione di un Hubert Lyautey o di un Robert Clive da un Cortés è che Lyautey sa cos’è il Marocco e cosa intende farne e che Clive sa cos’è l’India; Cortés non sa cosa sia il Messico: sa solo che ne desidera l’oro. L’avventuriero è l’uomo che non si illumina al sole, ma sotto i dettami della torcia che impugna.
Qualsiasi attività diretta verso un obbiettivo parzialmente sconosciuto beneficia del prestigio dell’avventura, a volte si fonde con essa: l’azione di capi militari che combattono per la propria solitudine, quella del conquistatore, dell’esploratore; quella dei grandi capitani capitalisti, un Cecil Rhodes, per dire, o dei borghesi dell’industria americana, di uno Stinnes – tutte attività nelle quali si annida l’azzardo.
Il gioco è il mezzo per combattere la condizione sociale. La geografia dell’avventura si sviluppa intorno ad esso. L’emigrante è un avventuriero in potenza; se diventa agricoltore, cessa di esserlo; se fa il cercatore d’oro lo è a pieno titolo – soprattutto se, falegname o barbiere, abbandona la professione per correre verso il Klondike; se è un cercatore professionista lo è solo a metà.
Il desiderio di un rapido guadagno cela la vera natura del Giocatore più che illuminarla. Nessuna passione si risolve nel profitto che può trarne chi la vive; la possibilità di guadagnare molto denaro spiega il gioco come avere molti figli spiega l’amore. La parola gioco evoca dapprima il gioco d’azzardo; quando si parla di grandi somme in campo, il fascino della perdita è più intenso di quello del guadagno.
Il giocatore si mette nel Gioco tramite un’astrazione che lo maschera; l’avventuriero tramite una profusione romanzesca; gioco e avventura non si congiungono in ciò che sono, ma in ciò che non fanno: non si sottomettono alla realtà. Entrambi, il giocatore e l’avventuriero, vivono in modo dispotico un sentimento particolare: l’insoddisfazione. Un uomo ingaggiato in un’avventura non è diverso da un giocatore d’azzardo che compra un biglietto della lotteria; chi vive l’avventura come sola realtà, come passione, ha in sé il fuoco di Ercole; e per questo risveglia in molti cuori una comunione spesso fraterna. Se anelasse soltanto al potere, gli uomini avrebbero nei suoi riguardi quel misto di ammirazione e di odio che ogni regalità ispira. Per quel fanatico rifiuto contro la condizione umana, per quel tratto inafferrabile, l’avventura partecipa della rivolta contro l’ordine imposto dagli dèi; ossessiona quegli uomini che, attraverso di lei, si domandano se non sia lecito riconoscere nei propri gesti – da imperatore, da eroe e da eccentrico –, la lezione di Prometeo.
Il fallimento distrugge l’avventuriero, lo uccide o lo rende un vagabondo; il successo lo precipita nella condizione sociale dalla quale intendeva liberarsi; come il Giocatore, gioca più volte, ancora e ancora, soprattutto contro se stesso, per afferrare un altro se stesso. Il sentimento che prova in modo sempre più letale – perché glielo impone il destino o perché lo ha dentro di sé – è l’insoddisfazione.
André Malraux
André Malraux, Le démon de l’absolu, 1946 ; «Préface»