Parto dall’epilogo. Cinquant’anni fa, il 25 novembre del 1970, moriva Mishima Yukio, per dirla alla giapponese, ossia anteponendo il cognome al nome proprio. Morte volontaria, autoinflitta. Un suicidio spettacolare, quello dello scrittore, inteso a fare clamore, magari suscitare una reazione, innescare una qualche insurrezione, o forse anche no. Atto premeditato per disperazione politica, oppure allo scopo di varare con taglio di spada un’opera letteraria compiuta, augurandole così vita eterna? Difficile dirlo. Furono quasi trasmessi in diretta gli ultimi momenti del grande scrittore, almeno l’arringa di fronte ad un migliaio di uomini del reggimento di fanteria dal balcone dell’ufficio del generale Mashita dell’esercito di autodifesa. Poi il gesto estremo, compiuto secondo l’antico rituale samurai del seppuku: auto-sventramento più decapitazione da parte di un fidato compagno d’armi (il kaishakunin). Un gesto obbligatorio o volontario compiuto dal samurai per sfuggire a una morte disonorevole per mano dei nemici, per espiare una colpa commessa. Poteva essere anche un tipo di condanna a morte, per consentire di andarsene con onore. L’onore, classica virtù di società guerriere e aristocratiche, o con ancora forti ascendenze in tal senso. Valore strettamente connesso all’identità, all’integrità e, come somma delle due, alla dignità. Altri motivi del seppuku: manifestare cordoglio per la morte del proprio signore oppure protestare per un’ingiustizia subìta. Quello di Mishima fu un atto simbolico di ultraradicale protesta contro un Giappone che egli riteneva vilmente arreso alla sudditanza occidentale e alla decadenza della propria tradizione imperiale. Fu molto altro ancora, probabilmente, ma il motivo resta ad oggi indecifrato, smembrato e disseminato tra le migliaia di pagine scritte in meno di trent’anni di attività letteraria.
Secondo l’antico rituale il taglio del ventre doveva essere eseguito da sinistra verso destra e poi verso l’alto mentre ci si trovava nella classica posizione giapponese detta seiza, cioè in ginocchio con le punte dei piedi rivolte all’indietro. Una posizione non casuale: aveva infatti la funzione di impedire che il corpo cadesse all’indietro. Secondo il codice morale samurai il guerriero deve morire cadendo in modo onorevole, in avanti. Non certo arretrando. Sempre allo scopo di preservare l’onore del samurai, il kaishakunin decapitava il compagno appena questi si era inferto la ferita all’addome in modo che il dolore non gli sfigurasse il volto. La compostezza viene così ricercata anche in una sì violenta dipartita. Abbiamo la forma che sublima il tremendo e lo trasfigura in bellezza tragica e algida. La decapitazione (kaishaku) richiedeva eccezionale abilità nell’uso della spada. Nel caso di Mishima le cose andarono parzialmente storte. Lo scrittore riuscì a sventrarsi, ma il kaishakunin, il prescelto Masakatsu Morita, fu vinto dall’emozione e sbagliò ripetutamente il colpo di grazia. Dovette pertanto intervenire Hiroyasu Koga, che finalmente decapitò lo scrittore.
Il ventre: l’antico rito suicida partiva da lì, perché si riteneva che il ventre fosse la sede dell’anima. Il gesto parla ed imperterrito riecheggia solo se si fa simbolo. Può farlo grazia ad un rituale, rigidamente codificato. Il significato sotteso al rituale consisteva nel mostrare agli astanti la propria essenza di guerriero leale e onorevole. Un’essenza priva di colpe, da rivelare in tutta la sua cristallina purezza. La trasparenza squadernata da una lama.
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In tutta la letteratura del Novecento non c’è alcunché di paragonabile a Mishima Yukio, scrittore per tre volte candidato al Premio Nobel. A stento Céline o Burroughs o Pasolini possono unire fino ad analoga vertigine un così grande talento letterario ed un altrettanto enorme dispendio esistenziale. La radicalità ed esplosività della fusione che Mishima compie di arte e vita sono inimitabili, anche perché la condotta quotidiana della sua vita così come la sua prosa sono reciproco elogio di forma e compostezza. Céline e Burroughs, ad esempio, debordano in vita e scrittura. Così anche Pasolini. Mishima no, mantiene sempre la misura, anche quando la sua penna affonda come un micidiale coltello affilato nello scavo psicologico e sbalza fuori il furore passionale dei suoi personaggi. Il suo sguardo spietato e talora feroce conficcato nella spietatezza e nella ferocia delle nostre umane, troppo umane psicologie, sovente si mostra non esente da quell’ironia e da quel sorriso sardonico che nelle interviste emergono con frequenza e spiazzano chi vorrebbe affibbiare allo scrittore giapponese un ruolo stereotipato, un copione monotematico. Se volete davvero incontrare il diverso, il totalmente Altro in letteratura, non potete non leggere Mishima.
Tutto il resto è un gradino sotto quanto ad alterità, ad estraneità rispetto ai nostri codici consueti, di sistema e di antisistema. Non c’è analoga trasgressione bacchica perpetrata nella forma più apollinea possibile, non si trova una misurata dismisura paragonabile alla sua. Ghiaccio incandescente e fuoco vitreo, un vulcano in piena eruzione che si ritrova inchiavardato dentro una bomboniera di finissimo cristallo: solo l’ossimoro può alludere all’effetto provocato dalla lettura di una pagina mishimiana. Bisogna restare in contesto nipponico per avvicinarsi molto, farsi prossimi alla sua quintessenza, ma anche lì manca qualcosa. Manca quel qualcosa di maledettamente malato in Mishima e, al contempo, di sublimante, di trasfigurante e salvifico, ma fuori da ogni prospettiva cristiana, europea, occidentale.
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Non può che provocarci un primo rigetto il tipo di redenzione propostaci dallo scrittore, anche perché non è mai chiaramente formulata. L’abbandono alla fede nella dottrina buddhista della vanità di tutte le cose e della reincarnazione delle anime, oppure la sublimazione tutta terrena e ultrapagana del sacrificio eroico? Non ho ancora compreso se l’opera ultima della produzione mishimiana, la tetralogia Il mare della fertilità, contenga in tal senso la risposta univoca e netta, la sentenza definitiva.
Ai nostri occhi, specie se di orecchiante piuttosto che di attento lettore della sua immensa e variegata produzione, Mishima sembra persino anacronistico, un vinto dalla storia, intesa come inarrestabile progresso e modernizzazione americanomorfa. La sua misura, la disciplina guerriera e gerarchica ricercata in tempi pacifisti ed egualitari esplose d’improvviso cinquant’anni fa, con quello spettacolare eppure tradizionalissimo e ritualizzato suicidio. E la sconfitta immortalata in posa da samurai ha tramutato il mortale in immortale, il vinto nell’invincibile. L’opera è finalmente perfetta. Cinquant’anni dopo, il mite e sorridente volto di Mishima resta una maschera che non ci ha ancora confessato tutti i suoi segreti.
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Colgo l’occasione di questo anniversario per fare alcuni conti con un autore incontrato sin dalla tarda adolescenza, complice il film che Paul Schrader gli dedicò nel 1985, Mishima – Una vita in quattro capitoli, presentato al 38° Festival di Cannes. Quelle immagini dai rutilanti colori rendono moltissimo dell’universo mentale ed estetico dello scrittore giapponese. Mi colpirono per la loro capacità di rendere morbose ossessioni dentro forme rattenute, situazioni scabrose e atti di estrema violenza entro la ferrea e smaltata cornice di riti miscredenti come di liturgie religiose. Recepii il fascino magnetico di un furore selvaggio servito in guanti bianchi e modi eleganti, il crescente pulsare di sangue rosso patinato che scorre dentro vene sottili e soffici come seta. Le immagini di quel film sono introduzione più che adeguata alla comunque imprescindibile immersione nella lettura totale dell’opera narrativa e teatrale di Mishima. Per non parlare delle musiche di Philip Glass, altrettanto pertinente traduzione, sonora stavolta, dell’immaginario mishimiano. Eppure tanta sapienza registica, scenografica, fotografica e musicale non basta, seppure correttamente amalgamata, a contenere l’universo espanso dell’artista giapponese.
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Bisognerà perciò tentare di riannodare i fili di una ben intricata, quando non contorta, matassa fatta di pensieri abissali e pulsioni primordiali, di parole rovesciate sulla pagina con un’apparentemente inarrestabile frenesia ma in realtà sempre dosate e cesellate da una costantemente vigile coscienza di scrittore che cerca la poesia dentro la prosa. A Kobayashi Hideo, nume tutelare della critica letteraria giapponese del secondo dopoguerra, Mishima confessò – siamo intorno al 1956, all’indomani della pubblicazione del romanzo Il padiglione d’oro – che lo stile da egli ritenuto più adatto al romanzo era quello costruito come una serie ininterrotta di «onde di prosa che si frangono eternamente sulla costa». Mishima apprezzava molto Balzac e condivideva a pieno un giudizio espresso da Hugo von Hofmannsthal sul grande romanziere francese: «per scrivere di cose brutte e sporche usa sempre colori trasparenti». Trasparenti e proibiti, evocativi di un erotismo così intenso, portato fino allo zenith, che la carne infine si dissolve in spirito e dalla materia incenerita sorge l’asiatica fenice di un’idea, di un principio, sempre e comunque eterno.
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Gli amori omosessuali descritti e narrati nel suo terzo romanzo, Colori proibiti (in giapponese禁色, Kinjiki, dove il primo kanji significa “proibiti” e il secondo “piaceri erotici” o, in alternativa, “colori”), sono inseriti nel quadro di una concezione virile ed etica della bellezza, propria dell’antica Grecia, e di Sparta soprattutto. Leggiamo infatti tra le pagine di quel romanzo: “Poiché la moralità antica era semplice e vigorosa, la nobiltà era sempre al fianco della raffinatezza e il ridicolo al fianco della volgarità. Oggi, invece, la moralità si è staccata dall’estetica. A causa di meschini principi borghesi, essa si è schierata con la banalità e con il minimo comun denominatore. La bellezza è divenuta una forma di esagerazione, superata, ormai è o nobile o ridicola. Di questi tempi le due cose hanno semplicemente lo stesso significato. In ogni caso, come ho già detto prima, un immorale pseudomodernismo e un immorale pseudoumanesimo hanno propagato l’eresia della venerazione degli umani difetti. L’arte moderna, a partire dal Don Chisciotte, ha teso verso la venerazione del ridicolo”.
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Su questo punto avrebbe più tardi insistito Milan Kundera, retrodatando il fenomeno all’opera di François Rabelais, con l’ulteriore e decisiva differenza che il boemo dà l’idea di apprezzare quel che il giapponese disapprovava. Ma è piuttosto un’impressione, credo, perché entrambi attribuiscono all’arte del romanzo una funzione compositiva rispetto allo smembramento operato dalle avanguardie, che non disprezzano affatto ma si fanno carico del fatto di scontarne, come scrittori, l’esito dissolutivo e nichilistico, con la parola che si fa afona e infine muta, insignificante. Solo che Kundera finisce spesso per privilegiare uno dei due corni del dilemma spezzato, il ridicolo, e la successiva francesizzazione della sua esistenza come della sua lingua hanno attenuato a tratti la forza contrastiva della sua prosa rispetto a stile e cultura del postmoderno. È come se, talvolta, vi rimanesse imbrigliato dentro. Mishima, invece, cerca fino all’ultimo di ristabilire l’equilibrio, di raggiungere in punta di penna l’antica, classica armonia perduta, attraversando non meno, ma di più, enormemente di più rispetto a Kundera e a molti altri scrittori novecenteschi e contemporanei, la vastissima gamma della umana difettosità.
Pubblicato in due volumi tra il 1951 e il 1953, Colori proibiti risentiva fortemente di un viaggio compiuto anche in Europa nel 1952. Tra i luoghi visitati vi è proprio la Grecia, dove campeggiano Delfi e il suo tempio, l’ombelico del mondo. Dell’impatto e relativo choc culturale di quell’incontro ellenico-nipponico parleremo nel secondo atto del nostro piccolo e personale viaggio letterario. (Fine Atto I).