Fu un simbolo. Poi divenne un totem. Fu Gabriel García Márquez a raccontare al mondo la storia di Haroldo Conti. L’articolo, pubblicato in inglese su El Pais, nel 1981, s’intitolava The last and bad news of Haroldo Conti. García Márquez aveva conosciuto Haroldo Conti diversi anni prima, aveva premiato un suo romanzo, En vida (1971), insieme a Mario Vargas Llosa. A quell’epoca, Haroldo Conti era un simbolo. “Era uno scrittore argentino tra i più grandi della sua generazione”, come scrive García Márquez. Guadagnava con i libri, scriveva sceneggiature. Il 5 maggio del 1976, dopo aver visto al cinema Il padrino. Parte II, con sua moglie Marta, Conti viene arrestato, torturato e più tardi ucciso. La giunta militare guidata da Videla si era insediata con la forza da poco. Haroldo Conti diventa un totem: l’emblema di un’epoca che tragicamente continua a uccidere gli scrittori ‘dissidenti’. Diventa – ce lo ha raccontato Sylvia Iparraguirre su questo foglio telematico – il totem degli scrittori che continuano a resistere alla tracotanza delle falangi militari, che urlavano il nome ‘Haroldo Conti’ come un monito. “Una quindicina di giorni dopo il rapimento”, racconta García Márquez, “quattro scrittori argentini – tra cui i due più grandi – accettarono un invito a pranzo da parte del Generale Jorge Videla. Erano Jorge Luis Borges, Ernesto Sabato, Ernesto Ratti e il prete Leopoldo Castellani. A tutti e quattro, in modo diverso, era stato chiesto di risolvere il dramma di Haroldo Conti, al cospetto di Videla. Ratti lo fece, presentando una lista di altri undici scrittori imprigionati. Castellani, che aveva circa ottant’anni ed era stato l’insegnante di Conti, chiese a Videla di essere condotto dallo scrittore. La notizia non fu mai resa pubblica, ma pare che Castellani vide Haroldo Conti l’8 luglio 1976, nel carcere di Villa Devoto, in uno stato di tale prostrazione che era impossibile parlargli”. Così spira uno scrittore sotto il calcagno del potere. Ma la sua opera è imperitura e invitta. Il romanzo più grande di Conti, Sudeste (1962), che racconta la storia di un tagliatore di giunchi, il Boga, lungo la foce del Paranà, “questo fiume” che “sembra diabolicamente astuto e torvo, e perfino crudele”, atterra in Italia, troppo tempo dopo. Il libro, che prolunga il genio selvatico di Horacio Quiroga e pare preludere al più contorto dei romanzi di Cormac McCarthy, Suttree, ha una nitidezza epica, una necessità atavica. “La gente di questo fiume somiglia in tutto e per tutto all’uomo che sta osservando le acque con i suoi occhi da pesce moribondo, sospesi sulle acque come due lenti sospese nell’aria. Per questo gli uomini del fiume ancora sopravvivono. Per questo sembrano tanto vecchi, distanti, e solitari. Non è che amino il fiume, ma non possono vivere senza. Soprattutto, sono indifferenti come il fiume. Sembra che capiscano di appartenere a un tutto inesorabile che avanza sotto l’impulso di una determinata fatalità. E non si ribellano affatto. Neanche quando il fiume distrugge le loro capanne, le loro barche, e perfino loro stessi. Anche per questo sembrano cattivi”. Basta questo brano per capire la natura, mitologica, epigrafica, del libro, la sua scrittura cangiante, che si snoda con la stessa paziente furia del fiume. A rendere grazia linguistica a Sudeste, pubblicato, per la prima volta in Italia – l’unico libro di Conti capitato su queste sponde, Mascarò, il cacciatore americano, del 1975, è stato pubblicato da Bompiani nel 1983, con prefazione di García Márquez, ora introvabile – dall’editore Exòrma (pp.218, euro 14,90; sia lode ora ai tenaci, piccoli editori), lo scrittore Marino Magliani (autore, tra l’altro, di libri fuori dal tempo come L’estate dopo Marengo, Quella notte a Dolcedo, L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi), insieme a Riccardo Ferrazzi. Li abbiamo contattati, per entrare nel carisma linguistico di Conti, il totem.
Haroldo Conti. Pressoché sconosciuto da noi, in realtà un piccolo genio della narrativa sudamericana e argentina in particolare. Ci riassumi per sommi capi la sua biografia.
Haroldo Conti nasce a Chacabuco, nella profonda pampa, nel 1925, docente e innamorato del delta del Paranà, che conosce bene, per averlo navigato a lungo. Autore di romanzi e raccolte di racconti, molto apprezzato da García Márquez e Vargas Llosa, nel 1962 scrive Sudeste e nel 1976, poco tempo dopo il colpo di stato argentino che porta al potere la junta fascista presieduta da Jorge Rafael Videla, viene sequestrato e torturato, ad oggi risulta desaparecido.
“Sudeste”. Cos’è questo libro torbido, amazzonico, mirabile? Con quale lingua l’hai affrontato? Ti sei lanciato nel suo vortice, hai usato una lingua ‘tua’, in qualche modo? Dimmi.
La principale difficoltà che abbiamo incontrato è la grande varietà di registri che Conti usa nell’affrontare la narrazione. Crediamo che sia impossibile rendere fino in fondo certe atmosfere sospese, per esempio nelle descrizioni del fiume, nel primo dialogo con i pescatori o nell’incontro con il Cabecita. Per questo abbiamo dovuto rinunciare a rendere tutte le sfumature, i polisensi, le acrobazie dell’autore: abbiamo lasciato che fosse la parola, il suo significato, a ricreare la magia dell’originale. Ovviamente non è mai possibile restituire con una traduzione tutta la ricchezza del testo, ma crediamo di aver fatto un buon lavoro e di aver reso un servizio all’autore.
Ami di più gli scrittori, per così dire, ‘selvatici’ e che narrano la provincia ‘barbarica’ o gli scrittori che fanno della città il centro della loro osservazione?
Riccardo Ferrazzi: Personalmente sono più attratto dall’esotico. Il mio romanzo preferito è Le avventure di Huckleberry Finn! Ma questo non vuol dire che nella grande città non sia possibile organizzare una storia interessante. Per esempio, la città è il luogo ideale per il giallo. E spero che non mi diate del barbaro se vi dico che, a mio parere, i romanzi di Rex Stout formano una comédie humaine come quella di Balzac.
Marino Magliani: Amo la provincia calma, abbandonata, i mondi narrativi a ridosso. Gli esercizi dell’occhio di Sebald, i solchi delle frontiere biamontiane, la prosa e le passeggiate di Walser, l’ironia di Adrian Bravi.
Gli scrittori che abiti nella traduzione non finiscono per influenzarti? Dimmi il libro più bello che hai tradotto e quello che vorresti tradurre.
Riccardo Ferrazzi: Tutto quel che leggiamo ci influenza. Personalmente credo che, più si nota l’influenza di un autore letto o tradotto, più si tratta di un’influenza superficiale che riguarda lo stile o un paio di argomenti. La vera influenza che esercitano i libri è più profonda e riguarda il senso della vita. Ma questa non traspare, se non a livello filosofico. Il libro più bello è sempre il prossimo. Per me tradurre significa scoprire, e i classici non si finisce mai di scoprirli. Mi piacerebbe tradurre Amleto. Ma anche Il capitan Fracassa.
Marino Magliani: Sono romanziere e naturalmente, in qualche modo, ogni mio libro finisce per farsi trasportare lungo le rive dei libri tradotti. Solo l’acqua non è mai la stessa, melmosa o limpida, certo, potrebbe assomigliare ad altre acque incontrate ma così non è, anche se vista dalla riva inganna, sembra acqua già vista, mentre poi penetrandola, o forse guardando la riva dal centro dell’acqua, tutto appare unico, un mondo mai visto prima, mai narrato. Una grande soddisfazione è di aver tradotto con Riccardo Ferrazzi Sudeste, ma anche Letti da un soldo di Enrique González Tuñon e Ultima rumba all’Avana, di Fernando Velázquez Medina, e mi fermo qui.
Cosa stai leggendo, ora? A che libro stai lavorando?
Riccardo Ferrazzi: Ho letto, e mi è piaciuto molto, L’esercizio del distacco di Mary Barbara Tolusso. In questi giorni, per dovere, sto ricuperando Il lamento di Portnoy. L’avevo tralasciato perché, contrariamente a quanto dichiarano in coro tutti i critici, avevo letto Pastorale americana e non mi era piaciuto. In autunno dovrebbe uscire il mio ultimo romanzo: N.B. un teppista di successo, una biografia romanzata dei primi successi e insuccessi del giovane Napoleone, travolto ed esaltato dalla rivoluzione francese.
Marino Magliani: Sto leggendo le poesie di Giuseppe Cassinelli e correggendo le bozze di un romanzo che si intitola Prima che te lo dicano altri, al quale lavoro da anni. Uscirà a fine agosto.