Umberto Piersanti ci ha abituati dagli anni Sessanta ad una dimensione immaginativa che richiama una matrice di colline e monti appenninici delimitati, sulla scia della migliore tradizione novecentesca dove tra ombre di ricordi, paesaggio e natura, si intravede ciò che Franco Loi definì “la tradizione dell’Italia che è all’origine della nostra parlata nazionale”. È perfino inevitabile un accostamento ad Attilio Bertolucci: ma se le foglie ingiallite, i bassi portici, il fiume dal letto largo e piatto sono alcuni dei tanti fils rouges e dei luoghi di elezione del parmense, le Cesane, gli altipiani a sud di Urbino, le mura cittadine rinascimentali della città ducale del Montefeltro, i fossi, le erbe e il grano scheggiato dai colori dorati, confluiscono direttamente nella poetica di Piersanti, che include sempre un tempo remoto che domina la sua valle. Il mondo è animato da storie in cui non si distingue più, volontariamente, la realtà dal sogno, la dimensione per lo più domestica dalla memoria fenomenologica.
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Stavolta, però, Umberto Piersanti, tornando alla narrativa, più precisamente al racconto breve, non cammina guardando asfodeli, favagelli e rose canine. Non ha l’impatto antropologico con la terra madre, con i boschi selvatici che rimarranno un “luogo salvato” per l’ambientazione nell’ambiente del tempo differente, fuori dall’ordinario, dunque anacronistico. Con Anime perse (Marcos y Marcos, 2018), entra con decisione nell’oggi e si sofferma sul disagio, sulla sofferenza, sull’emarginazione umana. Fatti e protagonisti sono riferiti e rielaborati con l’orchestrazione di chi, mediante l’oralità, fa sua un’esperienza di sangue che altrimenti non avrebbe avuto voce. Diciotto storie vere, raccolte da Ferruccio Giovanetti nei suoi centri di recupero del Montefeltro, trascritte e interpretate appunto dal poeta e narratore. La pubblicistica ha definito il libro con uno slogan significativo. “Diciotto lampi di vite smarrite che non sempre hanno trovato la pace”. Umberto Piersanti è un poeta e i suoi racconti si impongono immediatamente nella brevità. Non come in un resoconto, né freddamente come in un referto medico. Sono racconti animati, dove uomini e donne dicono poco ma si fanno intendere, dove la gestualità o una frase esplicita, risulta una confessione imprevedibile. Non manca la menzione del mondo circostante, la terra che conosciamo appunto nella mitografia personale di chi ha fatto degli altipiani a sud di Urbino un’operazione di metamorfosi affettiva propria delle Langhe pavesiane o della campagna senese luziana. Una patria poetica, con una cifra melodica, lirica, vivissima. Con Anime perse non sono i luoghi ad essere marginali geograficamente e centrali letterariamente, ma gli abitanti più sfortunati, i malati psichici, i nevrotici o i deliranti. Si tratta di racconti delineati a partire da un nucleo e da un’ellissi. Qualcosa accade e determina qualcos’altro girando intorno al male. Queste anime denotano una depressività stramba, un modo di essere fantasioso seppure distorto, affatto discorde da quel temperamento inventivo non di Bertolucci, ma di Gianni Celati o dello stesso Tonino Guerra, di Raffaello Baldini, tipico di una linea romagnola ed emiliana che sonda la ferialità scossa del reietto. Enrico ha tagliato la gola ad una persona; Mario ha sparato; Amalia non vuole diventare madre; Franco è ammalinconito; Giovanni rimpiange le canzoni. Ai manicomi criminali, veri e propri lager, si sono sostituiti i centri di recupero affollati da chi non ha ucciso con lucidità razionale, ma perché indotto da un’incontrollabile follia. Umberto Piersanti non ha il taglio dello psicologo, come detto, per cui non tratteggia i sintomi, non dà giudizi, ma come farebbe ogni scrittore difensore dell’uomo, assolve chi viene condannato. Entra nel personaggio, lo incarna, lo guida. Insegue le nebbie mentali del passato, un inevitabile destino. Il Montelfeltro, in fondo, è il posto che affievolisce il male, che lo attenua. Forse l’unica ragione di vita: restare nel proprio habitat, nonostante tutto.
Alessandro Moscè