Chiudiamole, sì! Ah, che sollievo sarebbe! Sbarrare le loro porte e dire basta all’indottrinamento di Stato, allo strazio di una struttura burocratica che funziona con la stolida organizzazione di un ufficio postale.
E poi, diciamoci la verità, la scuola trasmette ben poco, se non addirittura niente. A fronte di un investimento spropositato di denari ed energia, un’opera letteraria ha meno valore oggi che ai primi del ’900. A quanti, tra quelli che hanno frequentato un istituto superiore, è capitato di leggere, durante o dopo, I Malavoglia di Verga, Le ceneri di Gramsci di Pasolini, ma anche solo una qualunque raccolta di poesie? Pochi, troppo pochi. Il sistema educativo rivela il suo colossale insuccesso al nostro cospetto.
Tralascio di parlare dei docenti e di una certa loro saccente incompetenza che si accompagna a una triste vocazione propagandistica, in previsione dell’ennesima chiamata alle urne. Curiosa, peraltro, la loro tendenza masochista: da sempre difendono chi puntualmente li sodomizza senza alcuna pietà. In ogni caso sono da perdonare, perché anche loro necessitano – quando riescono a ottenerla – di un’occupazione sicura. E, del resto, per un così misero stipendio, non si potrebbe chiedere maggiore passione – qualità che, a onor del vero, una minima percentuale possiede.
Ma, in fin dei conti, cosa abbiamo appreso in quelle aule che giustamente Papini, in Chiudiamo le scuole, paragona alle celle di un penitenziario? I più sensibili tra noi hanno potuto toccare con mano ciò che tante distopie, da Saramago a McCarthy, raccontano, ovvero che l’umanità è, a fronte dei millenni di accumulazione del sapere, ancora così ferina e incivile da suscitare i brividi. Ci sono più episodi di violenza e sopruso tra i banchi di scuola che in un cantiere edile, o al mercato del pesce, tra la gente che, almeno sulla carta, dovrebbe essere maggiormente rozza e incolta. Per quanti libri siano passati entro quelle mura, il loro numero non potrà mai equiparare gli episodi di brutalità. Mi si perdoni la caduta sul personale, ma come dimenticare di aver assistito alla violenza perpetrata ai danni di una povera ragazza il cui unico difetto era di non essere né bella né ben vestita. Insulti e prevaricazioni erano all’ordine del giorno e provenivano dai maschi come dalle femmine. L’aspetto più singolare sta nel fatto che gli stessi aguzzini si dichiaravano in larghissima parte di sinistra, progressisti e antifascisti. Dopo aver dileggiato in branco una creatura sola e indifesa, si recavano all’interrogazione sciorinando puttanate retoriche del tipo: “Non si capisce come i tedeschi abbiano potuto sviluppare, sotto l’influsso della propaganda hitleriana, un tale astio verso gli ebrei che erano stati loro vicini di casa e amici”. Quanta ragione ha Papini quando asserisce che là dentro si acquisisce unicamente l’arte della dissimulazione e il servilismo. Gli stessi artefici di tali efferatezze, infatti, si nascondevano abilmente dagli sguardi delle autorità preposte a sanzionare simili gesti e, pubblicamente, le lusingavano. Chi per grazia ricevuta non era coinvolto imparava presto a farsi gli affari propri, permettendo così a quelli che esercitavano le vessazioni di non subire alcuna ammenda.
Ma anche quando la scuola ha un qualche effetto positivo – cioè nel momento in cui qualcuno apprende qualcosa –, siamo sicuri che vengano raggiunti gli effetti sperati? In tal caso, più spesso di quel che si crede, non si fa che introiettare un ottuso senso dell’autorità: quella del libro. Si impara ad affastellare citazioni in modo scriteriato, da utilizzare come giustificazioni per ogni nostro atteggiamento che possa essere soggetto a critica. I più non giungono neppure a padroneggiare l’abilità di argomentare. Piuttosto apprendono come salire in vetta arrampicandosi sulle spalle altrui, le famose spalle dei giganti. Ma, come nel saggio di Hazlitt, L’ignoranza delle persone colte, le parole, l’inchiostro con cui sono scritte nei testi, divengono l’unico orizzonte – che non dà propulsione al proprio pensiero, ma inchioda casomai a quello altrui.
In ultimo, come nel pamphlet di Leda Rafanelli, Contro la scuola, l’istituzione è il luogo di culto del pensiero dominante. Nel caso della nota socialista degli inizi del secolo scorso, la denuncia riguardava l’indottrinamento – perpetrato sempre nel modo più stupido – al culto della patria, del lavoro umile e del Re. Oggi, con sotterfugi affini, idee diverse vengono riversate nel cervello dei poveri allievi. Prima tra tutte quella del progressismo più imbecille e, a seguire, un europeismo servile, paragonabile unicamente allo spirito di sudditanza che il padrone cercava di trasmettere allo schiavo nero nelle piantagioni americane dell’’800.
Chiudiamole, dunque, queste fabbriche della propaganda e della violenza. Le migliori menti della Nazione – pensiamoci – non vengono certo da lì. Torniamo agli istitutori privati di Leopardi. Anche tra i nostri premi Nobel per la Letteratura, in fondo, pochi possedevano una preparazione universitaria. Un motivo ci sarà pure. Ugualmente c’era quando nel Manifesto del Futurismo venne scritto, all’undicesimo punto, quello maggiormente estremo e senza appello, che si ripropone oggigiorno più vivo che mai: “Vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, di archeologi, di ciceroni e di antiquari. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri”.
Chiudiamole e vediamo se i ragazzi non gioiranno… Se non è questa la prova di un fallimento!
Matteo Fais