La nuova Repubblica italiana fondata sul risparmio ha il viso di Carlo Cottarelli, il Clint Eastwood dell’economia. Cottarelli, come si sa, ha lavorato tanto per il Fondo Monetario Internazionale, organo supremo di controllo dove quelli che contano di più, nell’ordine, sono Usa, Giappone, Cina, Germania, Francia e UK. Dopo, a una certa distanza, c’è l’Italia. Secondo lo schema, Cottarelli – risposta stracotta ai mali italici, c’era già nel Governo Letta come Commissario per la Revisione della spesa pubblica – dovrebbe raffigurare l’italiano borghese. Risparmiatore, morigerato, tiepidamente europeista. Perfeziono il concetto. L’italiano borghese non si muove dal suo quartiere, eventualmente frequenta il quartiere un po’ più in là se lì abita l’amante. L’italiano crede nell’Italia se ci sono i Mondiali – l’esito elettorale va letto in concordia con la clamorosa esclusione dai prossimi Campionati di calcio – e nell’Europa se ha da guadagnarci. Altrimenti, sta alla foce del proprio campanile. D’altronde, tra Milano e Napoli ci sono le stesse differenze che tra Bangkok e San Francisco. Il bello è quello, c’è una Italia differente in ogni borgo. Detto questo: tra la plutocrazia finanziaria che imbavaglia il popolo sovrano e il popolo sovrano che scalpita per bonificare il Parlamento e pigliare a calci i magnati di Bruxelles, non c’è, nella sostanza, differenza. Si tratta, sempre, di umani che vogliono spadroneggiare sul prossimo. Di uomini che vogliono inculare altri uomini. Ecco. Il problema è tutto lì. All’italiano non garba che venga qualcuno a fare i bisogni a casa sua – e magari a metterglielo dietro. E ormai un po’ tutti, un po’ troppi, vengono a fare i bisogni in Italia. Solo che prima – da un bel tot – andava bene. Ora si svegliano le falangi dei ‘sovranisti’.
Voglio dire. L’Europa è l’invenzione dei poeti. No. Non lo dice la chiromanzia letteraria. Lo dice la Storia. Victor Hugo, nel 1849, sognava un “faccia a faccia” tra Stati Uniti d’America e Stati Uniti d’Europa. Ma siamo ancora nell’alveo della lirica. Nel maggio del 1930 il poeta Saint-John Perse, tra i massimi del secolo scorso e di sempre, braccio destro di Aristide Briand, “presenta alla Società delle Nazioni un Memorandum per ‘l’Organizzazione di un Regime di Unione Federale Europea’” (Romeo Lucchese). Una manciata di anni prima, rifugiatosi in un tempio taoista fuori Pechino, in siderale solitudine, Saint-John Perse scrive Anabasi, tra i più alti poemi del secolo; dieci anni dopo, dopo aver affrontato Hitler di petto, a Monaco, a differenza degli altri politici inchinati in coro, dopo aver dovuto lasciare Parigi, dopo che i nazisti gli hanno confiscato e devastato l’appartamento, dagli Stati Uniti, scrive Esilio, poema di tormentata e intollerante bellezza. “Porte aperte sulle sabbie, porte aperte sull’esilio… Ospite, lasciami questa casa di vetro nelle sabbie… Io eleggo un luogo flagrante e nullo come l’ossario delle stagioni”. Mi piace ricordarmi che l’Europa unita è l’intuizione di un poeta, del poeta più vasto. Però. Stati Uniti d’Europa è altro da Europa con parlamentari di cui non sappiamo neanche il profilo del viso. Intendo. L’esito è doppio. O facciamo da noi. Ci riprendiamo l’Italia diventando una specie di neo sudamericano sulla chiappa europea (impossibile). O facciamo l’Europa, quella vera. In grado di partorire un governo vero e un Presidente vero, un Carlo Magno, ca**o. Assegnando competenze specifiche – e determinanti – ai ‘territori’. Insomma, bisogna cambiare la geografia degli Stati (abolendo le Regioni in virtù dei ‘territori’, appunto) e la latitudine democratica. Per tornare da popolo di risparmiatori – un po’ laidi e un tanto scaltri – a popolo di avventurieri e di poeti. Purché, ora, non rompano più le palle: sono l’incontrastato re della mia stanza, qui, in un bunker di libri, governo io. (d.b.)