EMILIO
Il 31 dicembre 1909, un giovane giornalista arriva a Torino da Napoli per intervistare Emilio Salgari, autore popolarissimo di romanzi d’avventura, il padre di Sandokan e del Corsaro nero, l’inventore di cicli narrativi di enorme successo – quello dei pirati della Malesia, dei corsari delle Antille e delle Bermude, del Far West più altri innumerevoli romanzi, forse ottanta, forse più di cento, contando anche i libri firmati con diversi pseudonimi – una leggenda per generazioni e generazioni di ragazzi cresciuti con il suo immaginario esotico. Lo stesso giornalista che si appresta a intervistarlo, tale Antonio Casulli, studente universitario che collabora con la rivista napoletana “Don Marzio”, infiammato dalle pagine dei suoi libri, da adolescente lo considerava un vero e proprio dio. Si capisce, dunque, con quale stato d’animo s’inoltri nella campagna della Madonna del Pilone, il quartiere che sorge ai piedi della collina di Superga, dove lo scrittore veronese abita con la sua famiglia: la moglie e i quattro figli, tra i sedici e i nove anni. Ma quando vede profilarsi davanti a sé una «casetta modesta», una «costruzione semplice ed umile, fra un vigneto ed un orto», non riesce a nascondere una certa delusione. Oltre il piccolo cancello, nel giardino, i tre figli maschi di Salgari si rincorrono giocando, mentre la moglie accoglie il visitatore introducendolo nel salotto, «un salotto che è anche una camera da pranzo e camera da studio» annota il giornalista, non senza stupore:
«un tavolinetto ed un armadio: sul tavolinetto il calamaio ed alcune cartelle; sull’armadio una baraonda di volumi, di fascicoli, di riviste, di giornali».
Possibile che questa sia la residenza del famoso Emilio Salgari? Poi, finalmente, appare lui, «il celebratore del mare», «l’antico capitano di velieri», vestito di nero, in bocca l’eterna sigaretta (ne fuma cento al giorno) e allora ogni perplessità viene cancellata via, lasciando il posto all’entusiasmo. Il giornalista gli stringe la mano, confessandogli subito la sua ammirazione: «Anch’io, cavalier Salgari, seguivo con animo trepidante le vicende dei suoi personaggi – gli dice – E quante ore felici trascorrevo con i suoi romanzi…». Emozionato, chiede subito a Salgari di raccontargli di sé, della sua vita, dei suoi viaggi. E lui risponde, assecondando la curiosità del giovane:
«Ho viaggiato molto, arrivando sino allo stretto di Bering» dice. «Andai a Venezia, per studi nautici, e fui dopo tre anni capitano di lungo corso. Avevo una ventina d’anni; era l’82 o l’83. E viaggiai, viaggiai… Ho visto il mondo. Sempre in velieri, osservando e fumando montagne di tabacco».
L’intervista prosegue con lo scrittore che rievoca gli anni del giornalismo («Ebbi un duello, spaccai la testa all’avversario e piantai il giornalismo»), mentre la moglie interviene paragonandolo a Yanez de Gomera, il suo celebre personaggio, il portoghese amico inseparabile di Sandokan («Fuma sempre, come Yanez») e lo rimprovera affettuosamente di lavorare troppo, affaticandosi la mente («Ha il sistema nervoso irritabilissimo…»). Salgari risponde che non è niente, che la sua è la tipica malattia degli scrittori, la «nevrastenia». E spiega che non può smettere di scrivere, perché ha dei contratti da rispettare con gli editori. Poi invita il giornalista a festeggiare con loro l’ultimo dell’anno, chiama la figlia primogenita esortandola a cantare, in onore dell’ospite, una romanza napoletana.
Bevono vino dei colli di Superga. Prima di congedare il giornalista, Salgari chiede al figlio Nadir di prendere una vecchia carabina per mostrarla all’ospite: «Con questa carabina inglese io davo la caccia agli squali» gli dice. Infine gli presenta gli altri due figli: Omar («ecco il nostro indiano! Vede che profilo indiano?») e Romero, entrambi «pieni di pugnaletti e di pistole». Tutti, infine, accompagnano il visitatore fino al giardino, per i saluti. Ma nonostante il calore e l’accoglienza, nonostante l’ammirazione incondizionata per il suo mito d’infanzia, al giovane giornalista resterà, di quell’incontro, una sensazione di tristezza e di malinconia. Non poteva saperlo, ma in quello stesso anno che si concludeva, Salgari ha tentato il suicidio, gettandosi maldestramente su una spada, ma è stato salvato dalla figlia.
Dopo l’intervista, però, le cose sarebbero precipitate in poco tempo. La salute mentale della moglie Ida, già da qualche anno instabile, peggiora, costringendo il marito, incapace di sostenere le spese per le cure, a chiuderla in un manicomio. Poco dopo, la mattina del 25 aprile 1911, Emilio Salgari esce di casa e si reca nel bosco di Val San Martino, la zona collinare sovrastante la sua residenza, dove con la famiglia andava solitamente per i pic-nic. Qui, fattosi largo tra le betulle, e poi avanzando in un’impervia radura, arriva al fondo di un «burroncello». Depone, ben piegata, la giacchetta, estrae dalla tasca il rasoio che ha portato da casa e prima si squarcia il ventre, poi si taglia la carotide. Questa volta il rito del seppuku gli riesce. Il suo corpo senza vita e insanguinato viene trovato da una lavandaia, tra gli sterpi.
Aveva solo quarantanove anni, ma era invecchiato precocemente, per il carico di lavoro, le preoccupazioni economiche e familiari, gli eccessi impressionanti di tabacco e marsala cui si è costretto per tenersi attivo allo scrittoio e infine il dolore per la moglie. Prima di uccidersi, ha lasciato due lettere. Una, durissima, agli editori:
«A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna».
Un’altra, tenerissima, ai figli:
«Sono ormai un vinto. La malattia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni di miei ammiratori che per tanti anni ho divertito e istruito provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di lire 600 lire, che incasserete dalla signora Nusshaumer. Vi accludo qui il suo indirizzo. Fatemi seppellire per carità essendo completamente rovinato. Mantenetevi buoni e onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre. Vi bacia tutti col cuore sanguinante il vostro disgraziato padre».
Si è dato, giustamente, molto peso, per spiegare il suicidio di Salgari, allo sfruttamento cui lo scrittore è stato sottoposto da parte degli editori (uno di loro, Donath, gli chiedeva per contratto quattro volumi l’anno e nessun accordo prevedeva i diritti d’autore sulle copie vendute, nonostante la diffusione mondiale dei suoi libri). La lettera d’accusa lasciata dallo scrittore prima di togliersi la vita ha contribuito a questa interpretazione, così come le lamentele dello stesso Salgari per le condizioni in cui era costretto a lavorare.
«La professione dello scrittore – scrisse a un amico nel 1909 – dovrebbe essere piena di soddisfazioni morali e materiali. Io invece sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno e alcune della notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle, e subito spedire agli editori, senza avere avuto il tempo di rileggere e correggere».
Nessuno, però, ha attribuito la causa principale del gesto estremo alla mitomania dello scrittore, quella stessa patologia che ha anche nutrito l’arte di Salgari. Eppure, in questo senso, l’intervista rilasciata per il giornale napoletano è rivelatoria. Le continue «bugie» dichiarate dallo scrittore sui suoi viaggi, le sue imprese, compresa quella su cui ha costruito la sua leggenda di «capitano di lungo corso», non sono vanteria, o semplici smargiassate, ma il sintomo di una psicosi. L’unico viaggio per mare compiuto da Salgari, infatti, come si sa, è durato tre mesi, probabilmente come passeggero, o semplice mozzo, a bordo di «Italia Una», una sgangherata nave da carico che costeggiava le rive dell’Adriatico, fino a Brindisi. Lo scrittore è stato per tutta la sua vita un viaggiatore sedentario: i suoi unici spostamenti sono stati da Valpolicella a Verona, da Ivrea a Cuorgné, da Genova a Torino: un perimetro assai ristretto, da cui però partiva per i suoi viaggi tutti mentali nelle Indie e in Africa, in Russia e in Persia, nell’Oriente e nelle Americhe, in Groenlandia e in Oceania. Tutto il mondo ha visitato solo compulsando mappe geografiche, dizionari, atlanti, senza mai vedere ciò di cui raccontava dettagliatamente, nominando flora e fauna, costumi e climi.
L’unica vera avventura che ha vissuto è stata quel duello a cui pure accenna nella sua intervista, quando era un giovane cronista di un giornale veronese. Nel 1885 un giornalista si era permesso di mettere in dubbio la sua qualifica di capitano, irridendolo dalle colonne di un giornale rivale. Lo scrittore, che sapeva maneggiare bene la sciabola, colpì il collega con un «molinello di testa» alla tempia sinistra, ferendolo gravemente. Ma essendo i duelli vietati dalla legge, dovette pagare una multa di trenta lire e fu detenuto per sei giorni nella fortezza di Peschiera. Per il resto, la sua vita si è svolta tutta all’ombra dei suoi libri, scritti a un ritmo forsennato («a tutto vapore»), senza tregua.
Quella qualifica di capitano, a cui tanto teneva, e che ancora millanta nell’intervista, in effetti non l’ha mai ottenuta. È stato il suo grande smacco, la ferita narcisistica da cui tutto è derivato. Nel 1878 si era iscritto al Regio istituto nautico «Paolo Sarpi» di Venezia, ma senza mai conseguire il diploma di Capitano Marittimo di Gran Cabotaggio. Bocciato due volte all’esame conclusivo, abbandona gli studi nel 1881 e torna a Verona per intraprendere l’attività giornalistica. Da lì inizia a costruire la sua biografia immaginaria, che sarà sostenuta anche dai familiari. Del resto, anche in una delle lettere scritte alla stessa Ida, prima di sposarsi, Salgari tenta di accreditare la sua leggenda di viaggiatore nelle Indie, «in quel paese di belve umane», firmandosi «selvaggio malese».
Perché Salgari si finge quel che non è? In parte perché vuole che lo scenario esotico dei suoi libri d’avventura sia preso sul serio, come una testimonianza di ciò che ha visto, perché vuole presentarsi come un vero «lupo di mare», un Conrad, un Kipling, per i quali viaggiare e scrivere sono la stessa cosa. Ma se mente è soprattutto perché la sua vita è un caso emblematico di quel bovarismo che, in dosi diverse, patisce ogni scrittore. Come ogni vero scrittore, infatti, Salgari – che vocazione di vero scrittore aveva, nonostante fosse un autore popolare di libri d’evasione, da feuilleton – ha vissuto al suo grado zero, per così dire, la frattura tra le parole e la realtà. Scrivere, per lui, era l’unico modo di vivere che conosceva, l’unica possibilità che aveva di salvarsi dall’insignificanza della vita quotidiana. La realtà borghese, deludente, asfittica dell’Italietta della Belle Époque viene così elusa dalla scrittura, che diviene un rifugio, una compensazione. I romanzi di Salgari non nascono dall’esperienza, ma da altri romanzi e soprattutto dai resoconti di viaggi e dalle enciclopedie, tutto materiale attinto in biblioteca: è un’esperienza fatta esclusivamente di parole, di parole che si sostituiscono alla realtà.
Se Salgari scrive compulsivamente, senza sosta, non è soltanto perché incalzato dai creditori e dagli editori, ma soprattutto perché scrivere è l’unica cosa che sa, vuole e può fare, in un’immobilità fisica ed esistenziale che si serve del viaggio mentale come via di fuga dal presente. Ma questo meccanismo nevrotico, messo in moto dallo stesso scrittore, finisce per travolgerlo: negli anni più frenetici della sua produzione il conflitto tra realtà e fantasia si tramuta in delirio. La quotidianità si va progressivamente annullando, e la frattura è ormai insanabile. Nella sua piccola casa torinese, lo scrittore ricostruisce un campionario esotico che è il perfetto rispecchiamento della sua fantasia libresca, con l’angolo-giungla, il separé-capanna indiana, il giardinetto-foresta del Borneo. Il letto matrimoniale intarsiato di madreperla viene cosparso ogni sera di essenze orientali, affinché la camera da letto emani profumo di foreste e di tropici, di alghe marine e di venti del Sud. Vede nel figlio un «profilo indiano», nella moglie la Perla di Labuan. Del resto, proprio nell’intervista per il «Don Marzio», in quell’ultimo dell’anno del 1909, Salgari fornisce una diagnosi lucidissima della sua patologia:
«Vede, i medici mi hanno consigliato il riposo – confessa al giornalista – Soffro di nevrastenia acuta. Ma non saprei vivere lontano dai miei personaggi. Staccarmi dalle mie fantasie vorrebbe dire togliermi la ragione logica dell’esistenza. È inutile! Soffro lo “spleen” degli inglesi e sento il bisogno per non morire di noia, di seguire le mie chimere nel mondo dei personaggi e di rivivere nella creazione le avventure che ho vissuto in India o sulle coste della Groenlandia».
Solo che lui, quelle avventure in India o sulle coste della Groenlandia, non le ha mai vissute, o meglio le ha vissute solo nella sua immaginazione. Immaginazione fervida, che si traduce in una scrittura dal potente impatto visivo (basta rileggere l’incipit del romanzo I misteri della jungla nera, dal tono manzoniano, per rendersene conto, con la descrizione dell’immenso delta acquitrinoso del Gange). Se quella di Salgari è, come è stato detto, «letteratura allo stato puro» – nel senso della dimensione infantile, aurorale che è alla base di ogni letteratura – è proprio perché il suo suicidio ha disvelato la condizione borderline di tutti gli scrittori (e forse di tutti gli artisti in generale), quella scissione psichica, quella tendenza autistica – ciò che lo stesso Salgari chiama «nevrastenia», o «spleen» – che sempre implica la scrittura. Ma la finzione, la messinscena, la confusione tra scrittura e vita (tutta dalla parte della scrittura) durano fino a un certo punto. Almeno finché Salgari trova una complice preziosa nella moglie, che recita accanto a lui. Non a caso Ida Peruzzi, sposata nel 1892, è un’ex attrice.
Ida – da Salgari ribattezzata Aida, trasfigurata ancora in un’eroina da melodramma esotico – ha da sempre tenuto il gioco, avallando anche l’identificazione dell’autore con i suoi personaggi («Ricorda Yanez? – dice al giornalista – Ebbene, eccolo lì: è mio marito!»). Ma quando lei ha cominciato a dare i primi segni di squilibrio mentale – forse dovuto proprio a quella coazione recitativa – qualcosa si rompe nel «giocattolo» costruito da Salgari. Senza lo sguardo complice della moglie, lo scrittore si smarrisce in un solipsismo drammatico. Non è un caso che il primo tentativo di suicidio avviene proprio nel momento in cui le condizioni di Ida peggiorano. Quando poi è costretto a ricoverarla in manicomio, ecco che cala il sipario anche sulla vita di Salgari. «Non sentirò più il profumo di eliotropio» dirà, riferendosi all’allontanamento della moglie.
Da allora non ci sarà più Borneo né Malesia a poterlo salvare, né tigri o pantere, né regine o principesse orientali, nessun pirata o corsaro, nessun’isola di Raimangal o stella dell’Araucania, nessun uragano nelle Antille.
Finiti tutti i viaggi.
Non gli resta che spezzare la penna e il fondo di un «burroncello» sulla collina dietro casa, per mettere fine ai suoi giorni.
Fabrizio Coscia