24 Novembre 2020

Lizavéta, la pazza dei “Karamazov”. Dostoevskij e la violazione dell’innocente

Una povera pazza. Una stracciona, muta, per giunta. Un viso da ventenne, largo, sano e colorito, ma con un’espressione completamente idiota. Lo sguardo fisso e sgradevole, la piccola Lizavéta se ne va in giro (è alta meno di un metro e mezzo) d’estate come in inverno, scalza, con indosso soltanto una camiciola di canapa. I capelli folti e neri, come un vello di montone, ritti in testa come fossero un colbacco e sempre pieni di foglie, rami e terriccio. Già, perché la povera Lizavéta dorme all’addiaccio. Insieme all’urlona, la seconda moglie di Fëdor Pavlovič, Sofia Ivanovna, Lizavéta Smerdjascaja (il cui cognome significa puzzolente) è uno di quei personaggi femminili che non si possono dimenticare, cristallizzati dentro l’affresco senza tempo de I fratelli Karamàzov di Fëdor Dostoevskij (Mondadori, traduzione di Nadia Cicognini e Paola Cotta a cura di Igor Sibaldi).

Due note biografiche. Chi è questa Lizavéta? “Suo padre, Il’jà, era un piccolo borghese senza casa, malandato e in rovina, che beveva forte e viveva ormai da molti anni come lavorante presso certi agiati padroni, anch’essi borghesi della nostra città”. Il padre picchiava la figlia senza pietà le poche volte che Lizavéta tornava a casa. Ma se in famiglia non trovava affetto, tutti le davano ospitalità. Molte persone caritatevoli la vestivano, ma, poco dopo, lei si toglieva di dosso ogni abito decoroso che, pazientemente, si era lasciata mettere poco prima. Una volta, vista la piccola matta in giro, il governatore della provincia aveva provato a proibirle di girovagare con indosso solo la camiciola perché violava la pubblica decenza. Ma poi il governatore era partito e la giovane aveva ripreso ad andarsene in giro, come le piaceva. Anche dopo la morte del padre, se ne andava a spasso entrando in casa sconosciute da dove nessuno la scacciava, anzi le davano una carezza e qualche monetina che lei correva a mettere tra le offerte della chiesa. Se le davano un panino o una ciambella regalava ogni cosa al primo bimbo che incontrava per la strada o, persino, a qualche ricca dama che non disdegnava. “Non si nutriva che di pane nero e acqua. A volte entrava in qualche ricca bottega e si metteva a sedere, e se pure vi erano merci di valore e denaro, i padroni non diffidavano di lei”.

Non sapeva pronunciare neppure una parola: di tanto in tanto, muovendo la lingua, mugolava. Ma un giorno accade una cosa. Una comitiva di uomini “reduci da bagordi”, nel cuore di una mite notte di settembre, tornando a casa, scorge Lizavéta che dorme presso le ortiche. Vedendola così, gli uomini si scambiano molte oscenità. Ma in particolare questa, una domanda: “è possibile, per così dire, che qualcuno, chiunque sia, scambi un simile animale per una donna, magari ora, in questo momento?”. Fëdor Pavlovič, che solitamente era dedito a fare il buffone oltreché il dissoluto, dice che, nel suo genere di femminilità, c’è in lei “qualcosa di piccante”. Tra risate e sputi, la comitiva si separa. Ma in quella notte – il narratore è reticente sullo stupro – Lizavéta subisce un oltraggio. Oltraggio che diventa evidente cinque o sei mesi più tardi quando lo stato interessante della ragazza inizia a scorgersi sotto la camiciola. Chi è il padre? Chi ha violentato Lizavéta? Chi ha approfittato di quella povera stracciona? La voce corre a Fëdor Pavlovič. Che sia stato proprio lui? Non è dato sapere con certezza. “Da dove proveniva questa voce? Allora di quella brigata di gaudenti signori non ne restava in città che uno solo, e per giunta maturo e rispettabile consigliere di Stato, con famiglia e figlie grandi”.

Lo stato di gravidanza della piccola Lizavéta non fa che conquistarle nuove simpatie e slanci d’affetto. Viene sorvegliata continuamente, ma, nonostante le cure di cui è circondata, riesce a scappare, nel momento del travaglio. E dove fugge? Riesce a scavalcare, in quello stato!, l’alto e solido steccato della casa di Fëdor Pavlovič. Qui, nel cuore della notte, un’altra notte, il fidato servo dei Karamazov, Grigòrij e sua moglie Màrfa Ignàt’evna svegliati improvvisamente, sentono forti lamenti provenire dal giardino. Ma i lamenti provengono dal bagno, nel giardino. La piccola Lizavéta ha appena partorito un bambino. “Il piccino giaceva vicino a lei, ed ella gli stava morendo accanto. Ma non parlava, non proferiva parola, per la semplice ragione che non sapeva parlare”. Il pensiero del servo corre al suo di bambino, all’unico figlio che gli era venuto al mondo. Il servo Grigòrij, infatti, aveva visto morire, sotto i suoi occhi, pochi giorni dopo la nascita, il figlio malaticcio da lui considerato un drago, “uno scherzo della natura” per il fatto che aveva sei dita. Ma la passione del servo per i bambini era molto forte e, in quella piccola creatura orfana, caduta dal cielo nelle sue mani, vede un segno di Dio. Un bimbo “nato da un figlio del demonio e da una donna giusta”. Ma sull’identità del padre non ci si interroga, poi, più di tanto. Il bambino cresce chiamato Smerdjakov, nel nome l’ombra e l’impronta della madre, una stracciona muta, una pazza che se ne andava in giro in camiciola.

I bambini tornano con prepotenza tra le pagine dei “Karamazov”. Sono bambini innocenti e colpevoli. Che lanciano le pietre e che sempre sono puniti. Soprattutto ingiustamente. Le crudeltà contro i bambini sono descritte con minuzia per scandagliare un senso che non si trova. Si pensi a quando Dostoevskij si interroga per cercare il significato di questo episodio: un bambino, lanciando un sasso, ferisce il levriero di un tenente il quale per punizione chiede al bambino di spogliarsi sotto gli occhi della madre. Al bambino viene chiesto di correre, nudo, inseguito dai cani che lo sbranano. Sotto gli occhi senza pace della povera madre. Quale pena affibbiare al crudele tenente? La fucilazione? Quanto sono giustificabili le violenze contro i bambini? E contro i pazzi incapaci di difendersi?

La violazione dell’innocenza sembra una costante del mondo, della vita degli uomini. La domanda centrale, filo di tutto il maestoso romanzo non resta che questa, furiosamente infilata tra le labbra di un Ivàn Karamazov, violento e cocciuto: “C’è Dio, sì o no?”.  “Non lo so” è la risposta. Del resto “Se sulla terra tutto fosse sensato, allora non succederebbe niente”. “Senza dolore che piacere ci sarebbe, in essa?”. Nella vita, s’intende, come in un romanzo.

*In copertina: una scena da “Il gabinetto del dottor Caligari”, film del 1920 di Robert Wiene

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