02 Giugno 2020

Elon Musk non mi piace, ma ci ricorda che l’uomo è fatto per cose grandi. L’impresa del Falcon 9, il Salmo ottavo e il Cantico di Francesco

«Altissimu, onnipotente, bon Signore/ tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione».

Se è vero che ogni impresa umana cammina sotto la scure dell’hybris, che tutti i proponimenti di grandezza degli uomini altro non sono se non l’eterno ripetersi dell’empietà di Babele, che cosa mai si potrà dire di Space X e del Falcon 9? Che cosa, tanto più quando sappiamo chi è l’alfiere dell’impresa? Eccolo, l’alfiere: Elon Musk, proprio lui, quell’Elon Musk assurto negli anni a simbolo del capitalismo finanziario più avventato e sprecone, l’uomo la cui ricchezza cresce in proporzione diretta con l’entità e la clamorosità dei suoi fallimenti industriali, il costruttore seriale di start-up dal fallimento già iscritto nel progetto.

D’accordo. Giustissimo. Eppure.

Eppure c’è un topo, un fiore, che s’insinua in quest’analisi razionale e ordinata, in questo giudizio tanto insindacabile nelle sue parti, quanto in fondo fallace nell’intero. Sì, c’è un buco nella maglia, perché Musk e il Falcon 9 – con tutto il male di cui oggettivamente si può accusarlo – hanno fatto qualcosa per me. Per me e per il mondo intero.

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«Altissimo, onnipotente, bon Signore» – così san Francesco, scorticato di bellezza, bruciato di venerazione possente, inizia il suo Cantico. Così – con questa invocazione che è al tempo stesso vocazione, con questa invocazione che nella sua esattezza si risignifica come compito e destino – inizia la sua celebrazione delle glorie del Creato. Francesco ama, ama di uno stupore bambino e noi lo vediamo in ogni singolo aggettivo, rotondo semplice ed esatto come solo gli aggettivi dei bambini e degli ignoranti sanno essere. Lo vediamo nel sole, che è «bellu e radiante», così colmo di «grande splendore» che è segno di dio, ne «porta significatione». Lo vediamo nella luna e nelle stelle, che sono «clarite et pretiose et belle». O ancora nell’acqua, così buona e così cara all’uomo perché «multo utile et humile et pretiosa et casta»; fino nel fuoco, il fuoco che illumina la notte come di giorno il sole, il fuoco «bello», ancora, «et iocundo et robustoso et forte».

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C’è un salmo, l’ottavo, che dice con simile potenza la gloria di dio e del creato:

O Signore, Signore, com’è grande il tuo nome su tutta la terra!
S’alza la tua magnificenza sopra i cieli,
dalla bocca dei bambini e dei lattanti compi la tua lode
contro i nemici tuoi, che siano distrutti nemici e ribelli.

Una potenza e una grandezza di fronte alla quale l’uomo di retto sguardo non può che sentirsi misero:

Se guardo i tuoi cieli, l’opera delle tue dita
la luna e le stelle che tu hai fondato,
che cos’è l’uomo che te ne ricordi,
o il figlio dell’uomo, perché tu lo visiti?

Ma se lo sguardo analitico dell’uomo non può che essere sovrastato, diversa è la faccia e la voce di dio. Basta avanzare un versetto, uno solo, per avere la risposta. Che cos’è l’uomo? È il culmine del Creato, quel punto della Creazione che partecipa appieno della natura di dio:

L’hai fatto di poco minore degli angeli,
di gloria e d’onore lo hai coronato,
l’hai posto in capo all’opera delle tue mani,
ogni cosa hai sottomesso ai suoi piedi.

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La gloria e l’onore: quale gloria, quale onore? Ecco. Lasciamo perdere che quello di sabato è stato il primo passo verso la commercializzazione dei viaggi nello spazio. Lasciamo perdere che questa commercializzazione banalizzata sarà, quando sarà, un diletto per ricchissimi annoiati e forse privi della stoffa umana necessaria a goderne. Lasciamo perdere chi davvero andrà in futuro nello spazio.

Che cosa ha fatto ieri Musk per me, per tutti gli uomini della terra, persino per il bambino africano che sta morendo affamato nel suo stesso sterco? Ha posto un principio antropologico. Ci ha ridetto, quasi malgrado sé, che cos’è l’uomo.

Adesso, proprio adesso, mentre il sistema capitalistico sferra i suoi lunghi colpi di coda nel tentativo disperato di non morire, adesso che gli uomini-ingranaggio che ne fanno parte si mostrano sempre più nella loro evidenza di parti non necessarie, sostituibili e spesso inservibili al sistema, proprio adesso, il turbo-capitalista Musk ci rimostra la gloria dell’uomo, la gloria di una natura «di poco minore degli angeli», di una natura che ha in sé, con la sua meschinità la sua protervia la sua miseria, i semi di una gloria più grande di sé e alla quale per natura tende.

Ci ricorda lo stupore bambino delle cose grandi e degli aggettivi semplici e che l’uomo non è fatto per la conservazione di sé, né per l’ordine e la sicurezza, o per la reiterazione di riti e liturgie.

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Ci ricorda il compito nobile di competere con dio per concreare, che siamo fatti per distruggere e oltrepassare il confine del noto – non per il sapere, ma per la sapienza. Conservazione, ordine, ritualità sono mezzi necessari e venerabili, sì – ma mezzi necessari e venerabili di un altro fine, che è l’oltre, l’infinito. La caccia all’infinito in terra, la lotta più che la pace, il caos più che la stasi: per questo siamo fatti, per rompere il limite, per scoprire quella traccia di aldilà, di oltre, che in questa terra, in questo universo, ci è dato di svelare e comprendere.

E se oggi, segno amaro di tempi immeschiniti e disillusi, dobbiamo contentarci che sia il vezzo di un capitalista a mostrarci chi siamo, non è con lui, né con il sistema, che dobbiamo prendercela. Pensiamoci, quando pensiamo al nostro mondo ideale e progettiamo il sistema equo stabile e perfetto nel quale morire senza vivere. Perché non è negando la natura umana che diventeremo più uomini. Non è negando la nostalgia del viaggio, che impareremo a restare pacifici sulla banchina del porto.

Daniele Gigli

*In copertina: “Elon Musk l’architetto del domani”, così s’intitolava una intervista pubblicata su “Rolling Stones” nel 2017; photo Mark Seliger

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