22 Marzo 2022

“Hai tu fatto – ringhiava – la tua scelta ideologica?”

È sempre un confine, un limite, a svelare le carte, quale ne sia la forma e quali che siano le carte. La porta di Caproni, «biancomurata / e intransitiva», che non apre su larghezze sconosciute ma al contrario «dalla trasparenza, porta / nell’opacità» (La porta). O un fiume, il fiume eliotiano di The Dry Salvages, per esempio, che nel succedersi delle generazioni passa da essere un temibile dio bruno e scontroso a un problema per costruttori di ponti. O ancora altri due fiumi di Toscana, il Magra e il Bisenzio, sulle cui rive – più o meno in anni consimili, i primissimi Sessanta del secolo scorso – Vittorio Sereni e Mario Luzi ambientano il loro personale autoprocesso per ignavia, il processo a chi come loro non accetta di schierarsi sempre e in forma data. Così Sereni nel primo testo di Apparizioni e incontri, da Gli strumenti umani:

Ero a passare il ponte
su un fiume che poteva essere il Magra
dove vado d’estate o anche il Tresa,
quello delle mie parti tra Germignaga e Luino.
Me lo impediva uno senza volto, una figura plumbea.
«Le carte» ingiunse. «Quali carte» risposi.

(Un sogno, 1-6)

È un sogno, come racconta il titolo, ma quanto sa di realtà questo sogno in cui Sereni e il suo avversario senza volto replicano la lotta tra Giacobbe e l’Angelo. Ma se presso il guado dello Jabbok a Giacobbe non è chiesto altro che di dare tutto sé senza chiedere il nome, che è mistero, qui – sia il Magra o il Tresa il fiume teatro di battaglia – non tutto sé ma il «programma», la «scelta», la presa di posizione è ciò che viene chiesto per guadagnarsi il lasciapassare, «le carte», il diritto di residenza nel corpo sociale.

«Ho speranze, un paese che mi aspetta,
certi ricordi, amici ancora vivi,
qualche morto sepolto con onore».
«Sono favole – disse – non si passa
senza un programma». […]

(Un sogno, 9-13)

Non la vita, non la quotidiana battaglia tra le infamie e le glorie di giornata né il lavoro, il patimento nella carne che con fatica si fa verso. Non questo chiede la società intellettuale del tempo (del tempo?) ma piuttosto l’adesione, l’atto di fede:

Volli tentare ancora. «Pagherò
al mio ritorno se mi lasci
passare, se mi lasci lavorare». Non ci fu
modo d’intendersi: «Hai tu fatto –
ringhiava – la tua scelta ideologica?».

(Un sogno, 15-19)

Italia anni Sessanta, certo, quell’Italia che tanto più il boom spinge verso il benessere e l’oblio, tanto più nei suoi mandarini sente e impone il lavacro purificatore per il fatto e, ben di più, per il non-fatto, il non-detto, il non-avversato. O di qua o di là, senza scampo, senza possibilità terze che prevedano sfumature esistenziali, prima ancora che espressive. Italia anni Sessanta ma umanità di ogni tempo, se Vaclav Havel nel Potere dei senza potere – scritto nel 1978 sotto lo sguardo occhiuto delle sentinelle che gli stazionano davanti alla porta di casa – così bene descrive come la vita nella menzogna propria di ogni totalitarismo necessiti di poggiare sulla viltà quotidiana della logica di branco. Quella logica per cui ogni pudore, ogni esitazione nell’accogliere con il dovuto entusiasmo la causa del giorno sono visti come sospetti, come micce di antisocialità pronte a deflagrare da un momento all’altro:

“Il direttore del negozio di verdura ha messo in vetrina, fra le cipolle e le carote, lo slogan: «Proletari di tutto il mondo unitevi!». Perché l’ha fatto? Cosa voleva far sapere al mondo? È davvero personalmente entusiasmato dall’idea dell’unione fra i proletari di tutto il mondo? Questo entusiasmo è così forte che sente il bisogno irrefrenabile di comunicare all’opinione pubblica il suo ideale? Ha riflettuto, almeno per un istante, sul modo in cui questa unione dovrebbe realizzarsi e cosa significherebbe? […] Lo slogan ha funzione di segnale e come tale contiene un messaggio preciso anche se nascosto. A parole suonerebbe così: io, ortolano XY, sono qui e so che cosa devo fare; mi comporto come ci si aspetta che faccia; di me ci si può fidare e non mi si può rimproverare nulla […]”.

(Il potere dei senza potere, 1978-79, trad. it. di Angelo Bonaguro, La casa di Matriona 2013)

Niente di paragonabile con il nostro tempo e le nostre latitudini, certo. Qui nessun potere totalitario staziona davanti alla porta di casa mentre noi scriviamo analisi esistenziali del corpo sociale; qui nessuna sentinella multa le automobili che vengono in visita da noi minacciando i passeggeri che, se proprio vogliono proseguire, la visita «continuerà a nostro rischio e pericolo». Ma l’aria ammorbata piena di non-detto, di non-dicibile, di non-pensabile, oh, quella sì che la respiriamo anche da noi – e non da oggi. L’aria che obbliga a innumerevoli premesse prima di azzardare un pensiero nemmeno opposto ma anche soltanto laterale rispetto a quello dominante. L’aria che tiene in sospetto qualsiasi esitazione, qualsiasi disagio nel dover prendere posizione sempre su tutto senza poter chiedere spiegazioni, senza potersi dare del tempo. Un’eterna «casa che brucia» in cui ogni empatia con le ragioni altre – del nemico, del divergente – è soffocata sotto la scorta di una cappa conformante e auto-conformante, per cui è più facile desistere che tentare, lasciare ogni discorso a chi presume di sapere – «amici, non questi accenti!».

La stessa accusa che velatamente l’Italia letteraria faceva a Sereni – il non-posizionamento, la non-scelta ideologica – già da molto prima, e per tante ragioni con più violenza, investiva anche Mario Luzi. Tra i tanti episodi, è famosa la querelle sul realismo e sul marxismo sorta nel 1954 sulle pagine de «La Chimera», quando Pasolini sferra un duro attacco agli intellettuali che rifiutano il marxismo, accusandoli di vivere in un iperuranio idealista senza legami con la realtà. Un attacco a cui Luzi risponde su quelle stesse pagine con una magnifica difesa delle ragioni dell’umano e della vita, e che ben avrà in mente nello scrivere Presso il Bisenzio, che nel 1963 apre la sua nuova raccolta Nel magma.

Ancora un fiume, ancora un paesaggio onirico che porta a un incrocio inatteso, a uno sbarramento che ancora una volta chiede l’adesione alla causa in cambio del diritto alla vita:

La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia
e il viottolo che segue la proda. Ne escono quattro
non so se visti o non mai visti o non mai visti prima,
pigri nell’andatura, pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.
Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente,
mi si fa incontro, mi dice: «Tu? Non sei dei nostri.
Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta
quando divampava e ardevano nel rogo bene e male».

(Presso il Bisenzio, 1-4)

Il battibecco avanza tra le lunghe litanie dell’accusante e le laconiche risposte di Mario, finché al primo si sostituisce un sodale, «il più giovane […] e il più malcerto», che nella sua ingenua onestà è più diretto nel fare proprio dell’esitazione, proprio della profondità, i veri capi d’imputazione. Non è la posizione di Mario, il problema, ma la sua non-posizione, il suo bisogno di contemplare e comprendere:

«O Mario» dice e mi si mette al fianco
per quella strada che non è una strada
ma una traccia tortuosa che si perde nel fango
«guardati, guardati d’attorno. Mentre pensi
e accordi le sfere d’orologio della mente
sul moto dei pianeti per un presente eterno
che non è il nostro, che non è qui né ora,
volgiti e guarda il mondo com’è divenuto,
poni mente a che cosa questo tempo ti richiede,
non la profondità, né l’ardimento,
ma la ripetizione di parole,
la mimesi senza perché né come
dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine
morsa dalla tarantola della vita, e basta.
Tu dici di puntare alto, di là dalle apparenze,
e non senti che è troppo. Troppo, intendo,
per noi che siamo dopo tutto i tuoi compagni,
giovani ma logorati dalla lotta e più che dalla lotta, dalla sua mancanza umiliante».

(Presso il Bisenzio, 43-60)

 

La risposta di Mario è la natura di fondo del realismo, la presa d’atto di questo mondo amaro ma capace di meraviglia, in cui siamo chiamati a convivere per forza, se non per amore:

«È triste, ma è il nostro destino: convivere in uno stesso tempo e luogo
E farci guerra per amore. Intendo la tua angoscia,
ma sono io che pago tutto il debito. E ho accettato questa sorte».

(Presso il Bisenzio, 72-74)

Una sorte da accettare, un debito da pagare. Resistere nella contemplazione, nel farsi ponti gettati sul vuoto, in attesa di una riva che ci si faccia incontro. Sessant’anni dopo, siamo capaci di accogliere questo compito? Di accettarne il marchio d’infamia per farne ancora una volta seme?

Daniele Gigli

Gruppo MAGOG