Dove la poesia abiti realmente è domanda annosa e impercorribile. Forse in quel certo vedere, cui segue quel certo dire, che sappia scuotere la parola fino a estrarne il più intimo umore, per lacerazione, per attrito; ponendola in frizione vergine con le contigue, al fine di perseguire il nitore della visione. Nitido, che conosce nel suo etimo il risplendere, il purificare, ma anche l’accendere, in strofinio di scintilla. La poesia strofina le parole, e fa simbolo, crea barbaglio; evoca un margine, apre al fuoco del vedere – un vedere barbaro, straniero – che è irruzione e spinta, urto d’intatto stupore. Del discorso, la poesia, salta ogni ragionevole costruzione, per planare direttamente nel senso.
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È l’ottobre del 1907, quando Rainer Maria Rilke sente di essere in una fase di metamorfosi della propria personalità e poesia. Scrive alla moglie Clara Westhoff da Parigi lettere commosse, per l’incontro dei suoi occhi con i quadri di Cézanne, esposti al Salon d’Automne. Per il poeta nulla avrà più, da quel momento, lo stesso intento, lo stesso spirito e sapore. In sole due settimane Rainer è sopraffatto da un profluvio di pensieri ispirati, da un castello interiore di nuove consapevolezze. L’intensità e la sintonia dell’incontro con il pittore s’illuminano nella lettura dei documenti che riportano della sua vita, percorsi con venerazione quasi evangelica; la sensazione aurorale di una nuova esistenza artistica e spirituale accompagna il poeta, a partire da incursioni alle sale espositive che prendono via via il portamento del pellegrinaggio: Cézanne ha il suo contesto ideale in quel Grand Palais consacrato per definizione a tumulti e fermenti, dimora dedicata alle avanguardie non accademiche, che solo due anni prima aveva ospitato i fauves Henri Matisse, André Derain e Maurice de Vlaminck.
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Rilke è a Parigi per la terza volta. Vive solo, ha lasciato a Brema la moglie e la figlia Ruth, perché vuole dedicarsi in modo assoluto alla poesia: cerca di armarsi di maggiori austerità, aspira a un dettato “inesorabile”, che non si lasci intorpidire dalla melodia, ma persegua una disciplina di obiettivo “vedere” e riportare, che siano gli strumenti e i principi primi del “lavoro”.
Questi anche i propositi attribuiti, nei suoi Quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), al giovane protagonista: Malte è un personaggio nostalgico e ritroso, che vive una Parigi aggressiva, con animo afflitto; se una traccia dell’opera era già stata concepita prima dell’incontro con Cézanne, è pur vero che essa sembra trovare la sua intonazione definitiva proprio in certe meditazioni originatesi nel Salon d’Automne.
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Rainer guarda i dipinti con rapimento, legge le parole di Emile Bernard, che ricorda Cézanne sul “Mercure de France”: l’indigente squallore, l’esistenza scandita dalle privazioni, nella dignità più spoglia, nell’ostinata operosità. Bernard tratteggia una figura umile e sovrana, che rivive nei suoi alti canoni della réalisation, come impegno dell’artista a tracciare nuove plausibili vie di senso nella realtà, dell’oggettività nell’osservare, dell’importanza dei plans, dell’autonomia di tela e colore nel sostanziarsi in forme e volumi: una pittura plastica, una pennellata vigorosa, sicura, che declama densità ed essenzialità. Vigore ed essenza di cui il pittore fa testimonianza anche nella sua etica del travail; tutti aspetti che Bernard ripercorre e illumina, e che Rilke accoglie come una monastica regola, e inscrive nella sua concezione di vita come fondamenti: pietre d’angolo di un’estetica che si fa etica, di un portamento che da artistico diviene profondamente esistenziale.
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Così, due anni dopo (1909), scrive nel suo Requiem, rivolgendosi alla cara amica scomparsa:
“Se ci sei ancora, se in questo buio
c’è ancora un posto dove il tuo spirito
delicato vibri alle piatte onde sonore
[…] allora ascoltami: aiutami. Vedi, noi scivoliamo così,
senza sapere quando, dal nostro progresso giù
in qualcosa che non supponiamo; lì dentro
c’impigliamo come in sogno
e lì dentro moriamo senza destarci.
Nessuno è più avanti. A chiunque ha sollevato
il proprio sangue in un’opera che diviene lunga
può capitare di non più tenerlo alto
e ch’esso segua il peso suo, senza valore.
Da qualche parte infatti c’è un’antica ostilità
tra la vita e il gran lavoro.
A che la riconosca e dica: aiutami”(Rainer Maria Rilke, Requiem per un’amica)
Ma anche nel Libro d’ore (1905), se pur in liriche intensamente spirituali, in cui il poeta cantava l’umano tremore al cospetto di Dio, un giovane monaco russo pittore di icone incarnava la preziosità e il decoro presenti nella disgrazia e nella mancanza, stati disadorni ma altissimi, indifferenti al grigio degrado delle realtà industriali.
Nei Quaderni questi temi ritornano privati di ogni conforto mistico: l’artista lotta contro avverse circostanze in una grande città, e tenta di oggettivarle; è qui che Rilke mostra nuova tensione espressiva, intensificata in una prosa vigile al particolare.
Rainer ha appreso l’occhio desto di Cézanne, proteso al dettaglio, e ha appreso a trasfondere l’osservato in parola come mai prima, proprio descrivendo le tele di Paul nelle lettere a Clara: il Ritratto della signora Cézanne nella poltrona rossa, l’Autoritratto, la Pendola nera, la Natura morta con coperta celeste sono ridipinti in parola, con l’acribia che avrebbe potuto avere Malte nei suoi taccuini, visitando il Louvre.
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Un’apprensione all’oggettività che, dopo la pubblicazione dei Quaderni Rilke prese tuttavia a reputare manchevole di ulteriore slancio e significato, deviando dall’idea di una necessaria restituzione oggettiva della realtà, quella che Malte concretava, al principio d’amore. È il passaggio alla fase orfica illustrata dai cicli delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo: il poeta può farsi latore di salvezza universale traslando il tangibile nell’incorporeità dello spirito, aprendo alla possibilità un mondo soprasensibile che acconsente a essere evocato e reso presente mediante la poesia.
In tali sponde di riflessione, la povertà assume connotati redentivi: elegge l’individuo nella sventura a una sofferta reintegrazione a sé del mondo e delle cose, che sono traslate e trasfigurate ora in uno spazio “interiore” (Innenraum); canale tematico questo di una delle più celebri Elegie. Ma già nel Libro d’ore, la povertà è condizione superstite e rifondante, che intaglia in rigore e autenticità coloro che tutto hanno perso, per tutto ritrovare:
«Perché sono più puri delle pietre pure,
ciechi come le bestie appena nate,
candidi, infinitamente tuoi
e non vogliono nulla e hanno bisogno d’una cosa sola:
di poter essere poveri come veramente sono.Perché la povertà è un grande splendore del cuore…»
(Non lo sono più, da: Rainer Maria Rilke, Il libro d’ore).
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Rilke dalle iniziali posizioni di oggettività cultuale, passando attraverso la trasfigurazione interiore, approda in sintesi a una posizione integrata, in cui la percezione è condizione dovuta, e privilegio in essenza: grazie a questo epilogo attentivo ma non sterile dell’osservare, il poeta ci racconta un Cézanne fedele ma aumentato, spessorato in dimensione ulteriore, rispetto a quello che conosciamo attraverso la memoria critica. Uno sguardo scevro di struttura, ma intenso in amore fino allo strazio:
«Io non studio la pittura [di Cézanne] perché, nonostante tutto, davanti ai suoi quadri rimango incerto e solo a stento imparo a distinguere i buoni dai meno buoni, scambio di continuo quelli dipinti prima con quelli dipinti dopo»
(18 ottobre 1907)
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Rilke scrive a Clara, e i dipinti di Cézanne che le riporta nelle lettere prendono corpo come accadimenti, pieni, fastosi di segnali, latori di confessioni; nulla a che vedere col riportare tema e tecnica della critica d’arte professionale. Si stagliano per importanza la considerazione del quotidiano compiere l’opera, l’etica del lavoro, la sprezzatura di ogni economica ristrettezza, che, da condizione limitante, assurge a perorazione, ad affrancata nobiltà.
La tumultuosa vita che Cézanne ha impresso nelle sue tele si fa, in Rilke, tumulto interiore, lucente catastrofe, e tenero fervore di dare assoluta attenzione a ogni singolo quadro, facendolo proprio, particella di mutato sentire, in esercizio di aperto intelletto. Una dinamica armonia, un profondo accordo che esita in suprema intesa morale lega infine il poeta al “vecchio”, com’egli affettuosamente lo chiamava, pur nelle differenti pratiche espressive:
«Quanto riconobbi fu la svolta di quella pittura, perché la stessa avevo compiuto io con il mio lavoro, o ad essa mi ero in ogni modo avvicinato, preparato forse da lungo tempo a quel fatto unico, da cui tanto dipende. Per questo debbo andare cauto nel provare a scrivere su Cézanne, cosa che naturalmente mi tenta molto. Non la persona che capisce i quadri da un punto di vista tanto privato è autorizzata a scrivere su di essi…».
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Proprio questo sentire personale, che Rilke viveva come imperfezione di sguardo e lacuna, nel valutare e descrivere l’universo di Cézanne, lo porta invece a una prosa incantata, sensoriale, precisissima, e a riconsiderare a ritroso ciò ch’egli andava cercando già da tempo, senza saperlo: «A un tratto (e per la prima volta) capisco il destino di Malte Laurids […] Il libro di Malte Laurids, se un giorno verrà scritto, sarà soltanto il libro di questa intuizione, applicata a un uomo per cui era troppo grande…» (19 ottobre 1907).
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Sono ormai passati quattordici anni dall’incontro con le tele di Cézanne al Grand Palais, quando Rilke, in una missiva al critico R. H. Heygrodt, scrive:
“Il fatto infinitamente grandioso e commovente della figura di Cézanne […] fu di essere rimasto durante quasi quarant’anni nell’interno, nell’interno più fondo della sua opera e io di mostrare una volta appunto quanto l’infinita freschezza e verginità dei suoi quadri vada debitrice a tale ostinazione: la loro superficie è come la polpa di un frutto appena aperto mentre la maggior parte dei pittori stanno di fronte alle proprie opere come gaudenti e delibatori, profanandole addirittura durante il lavoro in qualità di spettatori e di committenti…”.
Ancora una volta, per l’artista, durare in purezza di intento e umile operosità equivale ad aver cura del proprio talento, che si fa, negli anni di produzione artistica, plurimo e complesso, fedele messaggio.
Elargirsi in umiltà, farsi custodia della propria innocenza fa del tempo in opera un cammino accompagnato e benedetto, che conserva a sé l’ispirazione nel bene; è rinnovata così l’ideazione, e si schiude, come gemma imprevista, ogni nuovo capolavoro: notizia che s’impenna, frutto inatteso, pur nella via segnata e sicura del quotidiano impegno. Qui vive il rispetto del proprio genio, ricevuto come un talismano da non smarrire né dissipare, ma da condurre al giorno con devozione chiara.
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Testi consultati:
Rainer Maria Rilke, Lettere su Cézanne, a cura di Giorgio Zampa, Abscondita 2011.
Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di Giorgio Zampa, Adelphi 1992
Rainer Maria Rilke, Requiem per un’amica, cura e traduzione di Dario Borso, Il ragazzo innocuo 2007 (apparso on line in rebstein)
Rainer Maria Rilke, Il libro d’ore, a cura di Lorenzo Gobbi, Servitium Editrice 2012
Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, a cura di Michele Ranchetti, tradotto da Jutta Leskien, Feltrinelli 2014
Rainer Maria Rilke, I sonetti a Orfeo, a cura di Franco Rella, Feltrinelli 2016