È il 1956 quando a San Francisco Gregory Corso ritrova Allen Ginsberg – conosciuto nel 1950 al Village, dove si era trasferito uscito dai tre anni di carcere che lo convertirono alla poesia – e, dopo che «Ferl – cioè Lawrence Ferlinghetti – mi chiese un libro», parte con lui per il Messico. «Là», dice Corso, «scrissi la maggior parte di Gasoline», che esce nel ’58 e che dopo più di sessant’anni – gioia delle librerie dell’usato – mi torna tra le mani in una vecchissima edizione di poco più tarda.
Gasoline è, con Howl di Ginsberg e A Coney Island of My Mind di Ferlinghetti, uno dei libri seminali della poesia beat – del suo farsi nel tempo tradizione, passando da mezzo di rottura a patrimonio linguistico comune. Ma se proprio l’oggettiva importanza storica, unita al tempo trascorso, ne suggeriscono l’acquisizione al novero delle opere più citate che lette, che effetto fa invece a leggerlo oggi? A leggerlo davvero, quando la tradizione linguistica che ha contribuito a fondare è già a sua volta sorpassata e fatta maniera?
Beh, per cominciare mantiene integra una sensazione di freschezza. Sembra incredibile, ma anche uno come me – che poco o male traffica coi versi da venticinque anni e qualcosina, poco e male, ovvio, ne conosce – ecco, anche uno come me cui il grido post-adolescenziale «ODIO I VECCHI POETI» (I am 25) non farebbe alcun effetto se non una gran noia, non può non restare ammirato e travolto dalla freschezza che questo grido, o meglio i suoi esiti, ancora promana. Perché se a dire odio i vecchi qualunque adolescente o tardoadolescente è buono, sono invece rari quelli capaci di prenderne il posto, di diventare cioè i nuovi vecchi senza consumare la verità profonda della propria e altrui giovinezza. E Gasoline è sì l’opera di un giovane uomo che odia i vecchi poeti, ma la prova del tempo ci mostra come sia stata capace di diventare vecchia senza monumentalizzarsi: istituzionalizzata, certo, ma ancora in grado di farsi pietra di paragone, insegnamento, compagnia viva a chi voglia imparare a leggere e scrivere poesia oggi. E non tanto per quella giusta dose di storicità che ogni lotta con la lingua richiede – storicità, si badi, non storicismo; non per quello, ma per la vivezza delle sue proposte linguistiche, della sua architettura immaginativa. Per la sua capacità, insomma, di offrire strumenti espressivi a quanti bramino catturare un brandello di realtà, di inoltrarsi in quell’impossibile ma necessaria caccia alla verità di se stesso che l’uomo è.
In mezzo a questa gamma di strumenti c’è un trittico, in particolare, che ispirandosi a tre dipinti – la Primavera botticelliana, una Crocifissione di Teodoro di Praga e La battaglia di San Romano di Paolo Uccello – ci fa vedere una volta di più come l’arte, la grande arte, sia, se non un fattore di con-creazione della realtà, quanto meno una sua incarnazione, un suo fattore disvelante. Il primo pannello, Botticelli’s «Spring», ci presenta un’annoiata Firenze in cui la primavera tarda ad arrivare o anche solo a dare un cenno – un’annoiata e nervosa Firenze in cui con licenza spazio-temporale converge l’intero Rinascimento coi suoi prodromi e la sua maturità – finché Botticelli «apre la porta del suo studio» e noi sappiamo – Corso non lo scrive ma ce lo lascia immaginare – noi sappiamo che da quello studio uscirà una primavera più reale di ogni primavera, la primavera-archetipo che l’esperienza fa intuire presente ma che solo l’arte può fissare. Un’eternizzazione, un’universalizzazione che anche Teodorico di Praga, in Ecce homo, opera. Il suo è uno dei «molti dipinti» sul soggetto visti e «tutti scordati»: «le stesse inflizioni, / (…) / la stessa faccia triste»; ma questo diversamente dagli altri non si scorda, qui il miracolo dell’arte eterna e disvela, «i frammenti di vecchie ferite (quasi sanate) / (…) / rispondono a sufficienza», arrivano a farci vedere come «i chiodi attraversarono l’uomo fino a Dio».
È il miracolo ipostatico dell’arte – maxime della poesia: di una realtà invisibile che viene catturata, come in negativo, e che si fa presente, viva, eterna. Quella stessa invisibile realtà per cui alla vista della Battaglia di San Romano – ed ecco Uccello, ultimo pannello del trittico – la prima cosa che viene in mente è che nessuno su quel campo di battaglia potrà davvero mai morire. Perché se il tempo consuma, l’eternità salva: e quel dipinto è già eternità, imperativo estetico e perciò morale – attrattiva, desiderio di comunione con l’essere, dentro il tempo, al di là del tempo: «Quanto vorrei unirmi a una tale battaglia / un uomo d’argento su un nero cavallo con rosso stendardo e lancia / striata per non morire ma essere eterno / un principe d’oro di una guerra dipinta».
Daniele Gigli
*
Botticelli’s «Spring»
Di primavera nemmeno un cenno!
Sentinelle fiorentine
da campanili ghiacciati
cercano un segno –
Lorenzo sogna di svegliare uccelli azzurri,
Ariosto si succhia il pollice.
Michelangelo è seduto in mezzo al letto
…niente di nuovo lo sveglia.
Dante si tira indietro il cappuccio di velluto,
ha gli occhi scuri e tristi.
Di primavera nemmeno un cenno!
Leonardo misura coi passi la sua stanza insopportabile
…butta un occhio arrogante sulla neve dura a morire.
Raffaello entra in un bagno caldo
…i suoi lunghi capelli di seta seccati
per il poco sole.
Aretino ricorda la primavera a Milano; sua madre,
che adesso, sulle dolci colline milanesi, dorme.
Di primavera nemmeno un cenno! Nessuno!
Ah, Botticelli apre la porta del suo studio.
*
Ecce homo
– dipinto di Teodorico –
Nelle mani e nei piedi feriti
i frammenti di vecchie ferite (quasi sanate)
come mandorle nere incrostate
rispondono a sufficienza –
i chiodi attraversarono l’uomo fino a Dio.
La corona di spine (che idea superba!)
la ferita al costato (che atrocità)
penetrano soltanto l’uomo.
Ho visto molti dipinti di questo;
le stesse inflizioni,
soggetto di prova: ecce signum,
la stessa faccia triste:
li ho tutti scordati.
O Teodorico, giovinezza, incertezza, mia colpa – ma tua!
Che pena! Questa,
impossibile da scordare.
*
Uccello
Non moriranno mai sopra quel campo
né l’ombra dei lupi chiamerà a raccolta le loro orde come spose di grano
da ogni orizzonte lì aspettando che si consumi la fine della battaglia
Non ci saranno morti a tendere le loro pance molli
né mucchi di cavalli inamidati a scheggiare di rosso i loro occhi lucenti
o accrescerne il pasto di morte
Morirebbero di fame con lingue impazzite
prima di credere che su quel campo nessun uomo muore
Non moriranno mai – questi che combattono così abbracciati
fiato per fiato occhio nell’occhio impossibile morire
o muoversi nessuna luce s’infiltra nessun braccio massacrato
nient’altro che cavalli ansanti scudo brillante su
scudo tutti fatti brillanti dal raggio appuntito di un occhio con l’elmetto
oh quant’è difficile cadere tra quelle lance intrecciate
E quei vessilli! Arrabbiati da far scorrere le insegne in quel cielo cancellato
Si direbbe che dipingesse le sue schiere presso i fiumi più freddi
hanno file di teschi di ferro che lampeggiano nel buio
Si direbbe che è impossibile per chiunque morire
la bocca di ogni combattente è un castello di canti
ogni pugno di ferro un gong sognante mazza riecheggia mazza
come grida dorate
quanto vorrei unirmi a una tale battaglia
un uomo d’argento su un nero cavallo con rosso stendardo e lancia
striata per non morire ma essere eterno
un principe d’oro di una guerra dipinta
Gregory Corso
*La cura e la traduzione sono di Daniele Gigli