Gli ultimi anni di Marguerite Duras reclamano il silenzio. Nel 1984 ha vinto il Goncourt per L’amante, poi tradotto in film, da Jean-Jacques Annaud, nel 1992 (ma senza l’aiuto della scrittrice). Nata nel 1914, nella Cocincina francese, la scrittrice s’incunea dalla fine degli Ottanta in una solitudine che sancisce l’ultima stagione letteraria. Scrive vivendo, sgargiando nelle banalità. Muore nel marzo del 1996, venticinque anni fa: sulla sua tomba, a Montparnasse, ci sono vasi di menta e lavanda, con alcune matite. La difficoltà fisica degli ultimi anni diventa carisma dello scrivere, una sovrapposta solitudine. La fama, comunque, è bestia: la Duras, fino a qualche lustro fa, era sfornata come il pane; ora è riassunta in alcuni libri, mentre altri rotolano in oblio. Écrire, di cui si traducono le prime pagine, è uno dei libri terminali della Duras, un taccuino quotidiano sulla disciplina della scrittura. Pubblicato nella ‘Blanche’ Gallimard nel 1993, riproposto due anni dopo nella ‘Collection Folio’, è tradotto da Feltrinelli come Scrivere nel 1994, ma risulta attualmente “esaurito”.
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È in casa che siamo soli. Non fuori casa, ma dentro la casa. Nel parco ci sono uccelli, gatti. Una volta: uno scoiattolo, un furetto. Non sei solo al parco. Ma in una casa, siamo così soli da perderci. Ci sono rimasta per dieci anni. Sola. Per scrivere libri che hanno fatto sapere, a me e agli altri, che sono lo scrittore che sono. Com’è andata? E chi può dirlo. Posso solo dire che la solitudine di Neauphle è fatta per me. Per me. Ed è solo in questa casa che sono così sola. Per scrivere. Per scrivere come non ho ancora fatto. Scrivo libri che mi sono sconosciuti, che non scelgo, che nessuno sceglie per me.
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Il rapimento di Lol V. Stein e Il viceconsole li ho scritti lì, nella mia camera, con gli armadi blu, ora distrutti dai giovani muratori. A volte ho scritto anche qui, sul tavolo del soggiorno.
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Custodisco la solitudine dei primi libri. La porto con me. Ovunque io vada, porto con me la mia scrittura. A Parigi. A Trouville. A New York. A Trouville mi ha assalito la follia di Lola Valérie Stein. A Trouville mi è apparso il nome di Yann Andréa Steiner con una evidenza indimenticabile, che fa trasalire. Un anno fa.
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La solitudine della scrittura è una solitudine senza la quale la scrittura non accade, oppure si snatura, esangue, alla ricerca di qualcosa da eseguire, ancora. Perde sangue, finché l’autore non diventa irriconoscibile. Soprattutto, non dettare ad alcuna segretaria, benché abile, e non far leggere i fogli preliminari ad alcun editore.
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Sempre, una separazione dalle altre persone. È una solitudine. È la solitudine dell’autore, cioè dello scritto. Per il debutto, bisogna domandare il silenzio. Ad ogni passo che facciamo nella casa, a tutte le ore del giorno, sotto ogni luce. L’autentica solitudine del corpo diventa l’inviolabile solitudine della parola scritta. Non parlare a nessuno. Nel periodo della mia prima solitudine ho capito che dovevo scrivere. Il solo giudizio di Raymond Queneau, una frase: “Non fare altro che scrivere”.
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Scrivere è la sola cosa che mi piace nella vita, che la incanta. L’ho fatto. La scrittura non mi ha mai abbandonata.
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La mia stanza non è un letto, né qui, né a Parigi o a Trouville. Di certo, è una finestra, un tavolo, abitudini in inchiostro nero, sigilli neri introvabili, una certa sedia. E abitudini che scopro ovunque vada, ovunque sia, anche in luoghi dove non scrivo, come le camere da letto degli hotel: ho sempre del whisky in valigia per quando mi assale l’insonnia o una disperazione improvvisa. Avevo degli amanti. Raramente resto senza amanti. Alcuni sono adatti alla solitudine. Il fascino può permettere la scrittura di un libro. Raramente ho dato a questi amanti i miei libri da leggere. Le donne non dovrebbero leggere i loro libri agli amanti.
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Questa casa è il luogo della solitudine, eppure si affaccia su una strada, su un lago, sul gruppo di scuole del paese. Quando il lago è ghiacciato, i bambini vengono a pattinare e mi impediscono il lavoro. Li guardo. Tutte le donne che hanno avuto dei figli sorvegliano quei bambini disobbedienti, folli, come tutti i bambini. Ma che paura, a volte, che accada il peggio. E che amore.
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Non si trova la solitudine: si fa. La solitudine si fa da soli. L’ho fatta. Ho deciso che è qui che devo stare da sola a scrivere libri. Così è accaduto. Sono stata sola in questa casa. Reclusa, ho avuto paura. Poi l’ho amata. Questa casa è diventata la scrittura. I miei libri escono da questa casa. E da questa luce, dal parco. Dalla luce deformata dal lago. Mi ci sono voluti vent’anni per scrivere ciò che ho appena scritto.
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Questa casa ha una longitudine. Possiamo andare e venire. C’è il parco. Gli alberi millenari e gli alberi giovani. Ci sono i larici, i meli, un noce, un susino, un ciliegio. L’albicocco è morto. Di fronte alla mia stanza c’è la rosa splendida de L’Homme Atlantique. Un salice. Ci sono anche i ciliegi del Giappone, l’iris. E sotto una finestra del soggiorno, una camelia, piantata per me da Dionys Mascolo.
Marguerite Duras