Al suo esordio, che come succede di questi tempi ha avuto luogo su Facebook, Beatrice Orsini era unicamente un volto oscurato, censurato dalla stessa, un’identità ostinatamente negata. Le sue poesie però piacevano e hanno pian piano suscitato sempre maggiore interesse. In tanti abbiamo gioito quando l’autrice ha annunciato la sua prima pubblicazione ufficiale, avvenuta con ControLuna Edizioni e intitolata Anche l’acqua ha sete. La prima volta che parlai di lei, l’editore era ancora ben lungi dal farle la sua proposta, ma io ero comunque persuaso di aver individuato nei suoi versi un quid, quel qualcosa che illumina immediatamente di una luce diversa ciò che realmente vale.
Inaspettatamente la poetessa ha preso a cimentarsi, parallelamente e con altrettanta assiduità, nell’attività fotografica. A breve una selezione di sue immagini confluirà in un volume, Autonudi, Babbomorto Editore. Un’altra la si potrà vedere in mostra sabato 9 marzo 2019 (fino al 9 maggio), a Domodossola, durante l’evento Metamorfosi: sguardi di donna, organizzato dall’associazione Studio Quadra Gallery.
Siamo andati a sentire una delle nostre verseggiatrici preferite per apprendere cosa si celi dietro questa sua passione per l’immagine e, soprattutto, per l’autoscatto.
Perché una mostra, invece di limitarti a Facebook dove hai iniziato a condividere le tue immagini?
Perché arrivare a stampare le foto e non vederle unicamente su uno schermo è un riscontro più oggettivo. Obbliga a confrontarsi a un livello più profondo con la propria attività artistica e dà un senso di concretezza maggiore rispetto alla dimensione social. Vi è stata inoltre la fortunata contingenza di aver conosciuto una persona, Sebastiano Parasiliti, pittore che vive a Domodossola, il quale ha creduto nel mio percorso fotografico. Lui mi ha messo in contatto con l’associazione che ha poi fornito la disponibilità per lo spazio espositivo. Sebastiano sarà peraltro presente il giorno dell’inaugurazione, per presentarmi.
Tra prime mele, maschere antigas, lenzuoli fantasma, scarpe dimenticate, e locali fatiscenti, qual è esattamente il filo conduttore di questa mostra?
Il filo conduttore è la donna nel suo mostrarsi e ritrarsi, non solo all’occhio dello spettatore, ma anche al suo stesso sguardo. C’è una dimensione dell’essere femminile che, nel mostrarsi e nell’indagarsi, non si raggiunge mai. È un femminile che sfugge, che interloquisce con una serie di oggetti che cercano di diventare personaggi sulla scena, mentre il corpo per contrapposizione si spersonalizza e si cosifica diventando un oggetto tra gli altri, venendo meno al ruolo di protagonista della scena. Inoltre gli oggetti, per quanto comuni o collocati in ambientazioni domestiche, perdono il loro connotato di familiarità e mostrano un lato estraneo, al limite del perturbante; a sua volta il corpo mascherato o legato, il volto celato anche quando frontale, relegano le scene rappresentate in una dimensione fortemente surreale.
Andiamo al titolo dell’evento: Metamorfosi: sguardi di donna. Da quello che tu hai detto e dalla presentazione critica dell’evento, si capisce che non si tratta semplicemente di strizzare l’occhio alla questione femminile, oggi tanto in voga. Ma perché le “metamorfosi”, in che senso?
È la donna stessa che si trasforma nel suo cercarsi, va incontro a delle mutazioni, a delle trasformazioni. Non è mai quella di prima. Anche nel muoversi stando davanti e dietro la macchina, vi è sempre un passaggio, un attraversamento, quindi una trasformazione.
Tu dici “muoversi stando davanti e dietro la macchina”. Infatti, trattasi di autoscatti. Perché questa scelta?
Arrivo alla fotografia con la stessa finalità con cui sono approdata alla scrittura. Scrivere e fotografare costituiscono sempre un modo di dialogare con quella alterità che c’è in me e che, per quanto autoreferenziale, deve necessariamente passare per l’Altro. È un modo di fare i conti con la mia questione femminile – non femminista, ci tengo a precisarlo. La donna, come dice Lacan, è non tutta: c’è sempre qualcosa nel godimento femminile che sfugge anche alla stessa. La questione femminile è irrisolta, incompiuta.
Qual è il legame tra la tua poesia e la fotografia, cosa le accomuna? Sono, per caso, entrambe un percorso di ricerca su te stessa?
Direi di sì. Sono due mezzi espressivi diversi che, però, mettono a tema le stesse questioni. Attraverso la parola entrano in gioco meccanismi che implicano l’ingaggio in maniera più lenta e più continuativa del lettore. La fotografia è maggiormente d’impatto, se vogliamo più immediata, ma non immediatamente decifrabile. C’è sempre qualcosa di insondabile nelle mie immagini e poesie. Lo scatto si mostra subito, ma ha bisogno di un percorso esegetico di interpretazione. In generale, direi comunque che si è trattato di un confluire naturale tra verso e immagine. A volte una di queste ha ispirato dei versi e da alcune poesie già scritte ha preso vita poi la rappresentazione fotografica.
Perché il bianco e nero?
Direi che, oltre a essermi sempre piaciuto, rispecchia questa mia anima parzialmente dark che si riscontra sia nella scrittura che nella fotografia. Inoltre, a differenza del colore, riduce il linguaggio ai minimi termini, lo rende essenziale e minimalista.
Cosa rappresenta per te la fotografia?
È vero che il mezzo è la macchina fotografica, ma io intendo le foto come un atto performativo, un mettermi in scena, ed essere al contempo attore e regista. C’è quindi un’attinenza con la body art e con tutto quello che ha a che fare con la performance legata a questa: il corpo si mette in scena, ma in maniera spersonificata.
Cosa intendi per Body Art?
È quel movimento in cui l’artista utilizza il suo stesso corpo come mezzo espressivo e comunicativo, portandolo anche in situazioni limite e fuori da una dimensione rassicurante e pacificante. Nella fotografia vi è una messa in scena, una finzione rispetto alla body art intesa in senso stretto, ma c’è comunque un utilizzo del corpo che si fa oggetto e si offre allo sguardo dello spettatore.
Quali sono i tuoi modelli a livello fotografico?
Sarà sicuramente un nome inflazionato, ma a me piace Francesca Woodman. Per altri versi amo molto anche Nobuyoshi Araki, un fotografo giapponese sul filone dello shibari (disciplina giapponese che consiste nel legare una persona in un contesto erotico, ma non solo), che mette in scena un corpo violato o sottomesso. Sono due modi diversi di rappresentare il corpo, più crepuscolare e più intimamente sofferto quello della Woodman, più erotizzato ed esteriorizzato quello di Araki, due approcci diversi ma che sento affini a me.
Perché ti interessa il corpo violato?
Il corpo non è mai integro, intatto, ma da sempre tagliato, violato, per essere civilizzato. Da qui il mio interesse per la body art che non solo sottopone il corpo a situazioni limite ma, nel suo processo iniziatico, crea il suo personale taglio, il suo rito di attraversamento. Non è sadomasochismo, tantomeno una forma di voyeurismo. Nobuyoshi Araki mette in scena donne che sembrano provare piacere nell’essere in una situazione di sottomissione. Mentre nella Woodman c’è un altro tipo di tormento. Entrambi confluiscono nel mio modo di vedere, che nella body art trova la sua sintesi nelle performance di Gina Pane.
Matteo Fais