Prima di conoscerlo, immaginavo Marco Innamorati dietro la sua cattedra di professore di Psicologia dinamica all’Università di Roma ‘Tor Vergata’. Lo immagino severissimo e imbronciato mentre decine di studenti gli sfilavano davanti sempre più sudati e balbettanti. Non avrei mai pensato di intervistarlo perché avrebbe risvegliato in me l’incubo degli anni di liceo. Questo finché non è successo l’imprevisto. Bighellonando in una grande libreria, sono stato attratto da un titolo, Amici anche no. Capire la friendzone. Uscirne e non ricascarci più. Un manuale di auto-aiuto per cuori spezzati? Pensavo l’avesse scritto Max Pezzali, l’autore della Regola dell’amico, quel teorema sentimentale che recita così: “Se sei amico di una donna, non ci combinerai mai niente, mai”. E invece, leggo il nome degli autori: Luca Manzi, sceneggiatore delle serie Don Matteo e Boris, e… Marco Innamorati!
Diavolo di un professore, questa volta me l’ha fatta! È riuscito a stupirmi. Ma è proprio lui, lo stesso Innamorati che in questo 2020 fortemente segnato dal lockdown ha pubblicato Storia critica della psicoterapia (Raffaello Cortina) e Al di là della psicoanalisi (Mondadori)? Sì, è lui, e la cosa straordinaria è che tutti i miei preconcetti sono andati in fumo. Marco Innamorati è un uomo divertente, un gran favellatore, coltissimo. E Amici anche no è uno scanzonato trattato di psicologia dei rapporti amorosi che dovrebbe essere letto da tutti gli uomini e le donne desiderosi di innamorarsi, da chi è stato lasciato, da chi crede di avere trovato l’anima gemella, dai traditi e dai solitari che hanno il cuore in fermento e non si danno pace. Perché a tutti potrebbe capitare, prima o poi, di finire nel recinto della friendzone.
Ho contattato Marco Innamorati per parlare del suo libro, ma poi si sa come vanno queste cose: quando uno scrittore incontra uno psicologo, il discorso prende strade che portano lontano, si smarrisce, si ritrova, svicola, scalpita e salta di palo in frasca. Alla fine abbiamo parlato di letteratura, psicoanalisi, mondo editoriale e patologie del web.
È ancora possibile oggi, consegnarsi interamente alla letteratura? Stare fuori dai social e dalle beghe letterarie, rifugiarsi nella propria torre d’avorio e scrivere in solitudine? Penso a Stefano D’Arrigo, che visse da autentico asceta la stesura del suo monumentale Horcynus Orca, fino a procurarsi un esaurimento fisico e mentale.
Ho avuto il privilegio di conoscere e frequentare Stefano D’Arrigo per molto tempo, fin da giovanissimo, perché mio padre era un suo intimo amico. Lui rappresenta un caso tipico della necessità di scrivere. Se non avesse avuto la possibilità di scrivere e portare a termine l’Horcynus, la sua salute sarebbe sicuramente peggiorata prima in altro modo. Tra l’altro D’Arrigo regalò a mio padre una copia di Nevrosi e genialità di Johannes Cremerius, che è il primo libro psicoanalitico che io abbia tenuto in mano. Titolo significativo, vero, venendo da D’Arrigo? Certo che perché si possa avere un altro D’Arrigo bisognerebbe avere un altro Arnoldo Mondadori, cioè un editore in grado di capire la grandezza di un artista e con mezzi e atteggiamento disinteressato tale da finanziarlo durante la stesura di un libro del genere. Qualcosa di simile avviene (poco in Italia, per la verità) con le residenze per artisti, che consentono a un autore di isolarsi per un certo periodo dal resto del mondo, salvo, se lo desidera, quei pochi colleghi con cui condivide il premio. Certo si tratta di periodi di sei mesi/un anno, non i trentacinque anni di D’Arrigo. Ma anche in questo caso, ritengo che ogni autore viva delle necessità diverse. D’Arrigo, una vita monacale di lustri per scrivere il proprio capolavoro poteva sentirla come necessità. Altri potrebbero, con altrettanta sincerità e autenticità, vivere immersi in quella che Luciano Floridi ha chiamato infosfera: scrivere in quanto online. Altri ancora, di certo, devono vivere uno specifico ambiente per poterlo narrare nei loro libri e possono intrattenere con quell’ambiente un rapporto paradossale. Ho conosciuto uno scrittore di Johannesburg, Ivan Vladislavic, che non riuscirebbe ad abbandonare la propria patria come ha fatto Coetzee, perché tutte le sue storie sono ambientate nella sua città. Per rimanere fedele a questo proposito ha dovuto abituarsi all’idea che in casa sua possano entrare di continuo ladri, magari per rubare un cuscino o una lampadina, perché il livello di criminalità di Johannesburg è decisamente elevato. Però la sua vita mi sembrava felice e soddisfacente.
La coscienza di Zeno è considerato il primo romanzo psicoanalitico nella storia della letteratura mondiale. Nella realtà, Svevo si sottopose ad analisi con Edoardo Weiss, un allievo di Freud, e il romanzo, che sembra una lunga confessione delle sedute, ha il merito di fare luce su come le teorie di Freud venivano applicate in Italia. Ma poi, nell’ultimo capitolo, scritto sotto forma di diario, Zeno abbandona la psicoanalisi, definendola “una sciocca illusione, un trucco buono per commuovere qualche vecchia donna isterica” e, piuttosto banalmente, afferma di essersi convinto che “la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch’era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere”. A me sembra un goffo inciampo nel pensiero positivo ante litteram.
Sì, è vero, La coscienza di Zeno è considerato il primo romanzo psicoanalitico della storia in senso assoluto. D’altronde è anche una rivendicazione della priorità della letteratura sulla psicoanalisi: Zeno afferma che il suo psicoanalista ha applicato su di lui ‘la diagnosi di Sofocle’, alludendo al complesso edipico, ovviamente. A proposito di priorità, l’Italia spesso rappresenta un laboratorio in cui si sviluppano idee che vengono riprese altrove mentre qui si rimane indietro, nel bene e nel male (perfino il fascismo lo abbiamo inventato noi e altrove è stato applicato in modo più, come dire, ‘efficiente’). Quante avanguardie artistiche sono nate in Italia nel corso dei secoli, dal Rinascimento al Futurismo? Eppure non si può dire che la nostra cultura recente costituisca un faro per il resto del mondo. La storia del rapporto tra psicoanalisi e letteratura è in un certo modo un riflesso di questa tendenza: Svevo è all’avanguardia per i suoi tempi ma oggi la letteratura italiana non ha un contatto felice con le teorie psicoterapeutiche: c’è ancora chi utilizza Freud come strumento di comprensione dell’essere umano, mentre la proverbiale acqua sotto i ponti è passata. Mi viene da aggiungere, peraltro, che comunque è sempre meglio considerare Freud lo stato dell’arte piuttosto che Lacan, un autore che nel mondo scientifico è stato preso sul serio, oltre che da noi, soltanto in Francia (ovviamente), in Argentina e in Brasile. Tornando a Svevo, non sono convinto che l’opinione di Zeno Cosini rifletta quelle dell’autore del romanzo, in materia di psicoanalisi. Una persona che abbandona l’analisi in seguito a una resistenza difficilmente può parlare bene delle teorie psicoanalitiche.
La scena letteraria italiana è occupata da eserciti in guerra. Scrittori di destra contro scrittori di sinistra, Roma contro Milano, emergenti contro affermati, e più la torta è piccola, più s’incontrano lupi affamati che han natura sì malvagia e ria, per dirla col Poeta. Di recente il leader di un movimento che anima la piccola editoria ha scritto una recensione del libro vincitore dello Strega, Il Colibrì di Sandro Veronesi, e con un’ideale matita rossa e blu intinta nel veleno, ne descriveva i presunti errori. Un esercizio critico che a mio modo di vedere aveva il compito di alzare uno steccato e chiamare alla battaglia: o il nostro esercito o il loro.
Sono rimasto molto colpito dalla recensione del Colibrì scritta da Giulio Milani, perché l’idea che una scrittura non conforme alle proprie idee stilistiche contenga degli errori è evidentemente pretestuosa. Poi credi di averne capito il senso: quella recensione – come altri scritti simili, nell’ambiente letterario – non è rivolta al pubblico in generale quanto ai follower diretti, per creare un fenomeno di polarizzazione. Agli psicologi è noto da molto tempo che una discussione accesa non consente un confronto di idee quanto il distanziamento tra i sostenitori delle idee opposte. I casi di conversione alle idee altrui quasi non esistono, per quanto razionali possano essere le argomentazioni contrarie, mentre si rafforza sempre la convinzione nella bontà delle proprie. D’altronde il disprezzo del presunto avversario non è riservato ai letterati. Un noto analista (che qui preferisco non nominare) definì pubblicamente il leader di un partito come “un comico bipolare” – con l’aggravante dell’uso di una diagnosi applicata come stigma.
Anche il fenomeno degli hater ha un suo interesse. Viene dato credito a identità fittizie che protette dall’anonimato e senza nulla avere dimostrato sputano veleno sui libri altrui. Un triste spettacolo di insulti, invidie, esecuzioni mirate che sarebbe facile liquidare come sfoghi di frustrazione. Eppure, in una sorta di girone della merda di pasoliniana memoria, c’è chi ama farsi sodomizzare il cervello con gratitudine da queste persone e le incoraggia.
Anche l’odio è spesso frutto di polarizzazione. Più mi convinco della bontà della mia idea e più l’avversario deve essere dipinto a tinte fosche o caratterizzato per motivi che nulla hanno a che vedere con i suoi meriti e demeriti. Questo si vede molto spesso quando per attaccare una donna si usano insulti sessisti: vale da destra e da sinistra, peraltro. Maria Elena Boschi e Giorgia Meloni ambedue vengono spesso apostrofate con commenti che hanno a che vedere con la loro sessualità e non con la loro posizione politica. Però in letteratura ci sono anche hater puri, che sono solo ‘contro’ qualcuno senza essere a favore di qualcun altro. Si tratta di semplice frustrazione? Può essere una spiegazione semplice o magari semplicistica. Certo, senza una conoscenza diretta della persona è difficile arrivare a delle conclusioni psicologiche attendibili. In ogni caso, quando l’odio e l’insulto vengono da dietro una maschera è difficile pensare che chi vi si nasconda dietro non abbia bisogno di un serio aiuto psicologico. I follower di questi personaggi, invece, sono spiegati bene dall’idea di Bion per cui, in certi gruppi o comunità (evidentemente, diciamo oggi, anche virtuali) si tende a identificare come leader la persona con il livello di funzionamento mentale più primitivo.
Chi può definirsi uno scrittore? Proviamo a mettere la parola fine a questa polemica che ormai ha le ragnatele. Una volta per tutte: è scrittore chi paga le bollette con i propri libri, oppure, parafrasando Forrest Gump, scrittore è chi scrittore fa?
Ricordando la battuta originale del film, lo scrittore non fa una bella figura… Ho seguito una recente polemica sul fatto che lo scrittore è solo colui che si mantiene in vita con i proventi dei propri libri. Il che taglierebbe fuori gente come Kafka e Melville. Paradossalmente, le stesse persone che propongono una simile definizione di scrittore, talora finiscono per escluderne proprio gli autori dei best seller, spesso confinati nella letteratura cosiddetta di genere. Eppure Ray Bradbury, un autore di fantascienza, è stato uno dei grandi scrittori del Novecento come Georges Simenon, che sfornava gialli e noir a ritmo talvolta settimanale ma ha firmato almeno una ventina di capolavori assoluti. Probabilmente è proprio la psicologia a offrire la definizione più sensata. Lo scrittore veramente tale è qualcuno che sente la necessità di scrivere. E in genere i suoi lettori questa spinta la riconoscono anche se non sempre subito. Le riscoperte postume sono piuttosto frequenti. Il caso di Guido Morselli, in Italia, è emblematico: capolavori come Dissipatio H.G. erano stati rifiutati da tutti gli editori. Possiamo tranquillamente affermare che non è una colpa, di fronte alla storia della letteratura, né vendere poche copie, né vendere tante copie ai contemporanei. Che uno scrittore abbia successo o meno può essere più o meno frustrante per lui, ma non cambia di una virgola il fatto che continuerà a scrivere, indipendentemente dall’opinione altrui.
“Se non avessi fatto il regista”, dice il regista Marco Bellocchio, “sarei finito in manicomio”. Questo mi fa credere a una sorta di valenza terapeutica dell’arte, necessaria all’artista molto più che al pubblico. E allora, cosa importa se un film avrà successo o un libro venderà? L’importante è avere portato a compimento l’opera.
Volendo si può essere ancora più estremisti: l’importante è averla portata avanti. In fondo L’uomo senza qualità di Musil, che è uno dei libri-simbolo del secolo scorso, è un’opera incompiuta. Allargherei invece il numero di chi riceva benefici di natura terapeutica, se così si può dire, dall’arte. Già Aristotele, nella Poetica, parlava della catarsi, cioè del senso di purificazione che si prova dopo aver assistito alla rappresentazione di una tragedia. La catarsi si attua quando è possibile identificarsi con un personaggio. Jacob Levi Moreno ha applicato questa idea alla psicoterapia, attraverso l’invenzione dello psicodramma. Nello psicodramma la catarsi si attua mettendo in scena la propria vita in forma teatrale, con l’aiuto di altri pazienti dello stesso gruppo, che a loro volta diventano a turno protagonisti delle proprie storie.
Francesco Consiglio
* Marco Innamorati, romano, si è laureato in filosofia e psicologia, addottorato in storia della scienza e specializzato in psicoterapia. Insegna Psicologia dinamica e Storia e filosofia dei concetti scientifici presso l’Università di Roma ‘Tor Vergata’, dove coordina il Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione. È anche docente in scuole di specializzazione private. Ha pubblicato diversi contributi scientifici su pubblicazioni in lingua italiana, inglese, tedesca e portoghese; e dieci libri, tra i quali Riprendere Jung (con Mario Trevi, Bollati Boringhieri), Storia critica della psicoterapia (con Renato Foschi, Raffaello Cortina), Al di là della psicoanalisi (Mondadori Education). Nel 2020 è uscito lo scherzoso Amici anche no, sul tema della ‘friendzone’, scritto con Luca Manzi. È sposato con la compositrice Lucia Ronchetti e ha due figli: Carlo e Sara.