Enigma e labirinto. Sul Villa di Tagliaferri
Letterature
Tommaso Scarponi
Nel 1936, per la Oxford University Press, William Butler Yeats, il poeta più autorevole del tempo, mago e profeta, senatore dell’Irish Free State, Nobel per la letteratura nel 1923, pubblica l’Oxford Book of Modern Verse, sommo compendio della poesia anglosassone scritta tra il 1892 e il 1935. Di fatto, è lo studio ‘critico’ più importante compiuto da Yeats; dunque: lunare, estroso, fatale, non alieno al capriccio. Il raccolto è stupefacente: nella vasta antologia, destinata a fare storia, sono stipati Thomas Hardy e W.H. Auden, Rudyard Kipling e D.H. Lawrence, Thomas S. Eliot, Oscar Wilde, Tagore e Gilbert Keith Chesterton, James Joyce e Ezra Pound (di cui Yeats temeva il giudizio, spinato). Ci sono autori straordinari e straordinariamente dimenticati dal nostro paddock editoriale, claustrofobico (Roy Campbell e Cecil Day-Lewis, Hugh MacDiarmid, Siegfried Sassoon e Walter de la Mare, ad esempio); soprattutto, primeggiano i gusti del poeta irlandese, inattuali, inadatti alla statistica lirica, sprezzanti. Tra questi, spiccano le donne – Margot Ruddock, baccante fino all’internamento, ad esempio – e una propensione per il pensiero indiano (sono antologizzati Manmohan Ghose, il fratello di Sri Aurobindo, e Shri Purohit Swami, con cui Yeats aveva tradotto un fascio di Upanishad).
La scelta più clamorosa, foriera di critiche, smodatamente snob è quella di Dorothy Violet Wellesley (1889-1956). Anche Yeats ne è consapevole:
“Mi sono reso conto di aver dato più spazio a te che a chiunque altro, e questo non andava bene… credo che tu venga subito prima di T.S. Eliot”.
Mai tradotta in Italia, pressoché scomparsa anche in UK, Dorothy aveva pubblicato per la Hogarth Press una plaquette, Matrix, e una selezione antologica di modern poetry. Aveva nerbo, una qualità al contempo selvatica e aurorale, nobile, nel verso: amava l’eleganza della crudeltà, una specie di audacia tra i bicchieri, gli studi di antropologia e le pitture parietali; aveva scritto di riconoscere nei pony del Suffolck “i tarpan mongoli delle steppe… i cavalli da guerra, pitturati, dei Tartari” (così in Horses). Nei suoi sogni, furoreggiavano massacri e case desolate. Yeats aveva voluto conoscerla dopo aver letto alcune sue poesie, che lei, con ostinata rettitudine al disinganno, non voleva pubblicare. Dorothy lo invitò a Penns in the Rocks, la villa nel Sussex: lui restò incantato da quella donna aristocratica – era sposata con Lord Gerard Wellesley, duca di Wellington – e sfacciata, lesbica, che nel ’22 aveva lasciato la famiglia per stare con Vita Sackville-West.
“La natura lirica di Dorothy Wellesley è un grembo e un sepolcro, l’oscurità, la sua superficie è il sonno, un sonno in cui camminiamo e tracciamo solchi, e lì giacciono le creature felici, i saggi, le cose inconcepibili”
scrive Yeats giustificando, per così dire, le poesie della Wellesley. Per la Hogarth Press dei coniugi Woolf, in cui aveva investito una discreta somma, Dorothy curava la collana dei “Living Poets”: dal 1928 al ’37 diede spazio a William Plomer e a Frances Cornford, a Cecil Day-Lewis, a R.C. Trevelyan e all’amata Vita. Virginia Woolf, in verità, temeva Dorothy, la sua ricchezza, la sua franchezza, il carisma brunito dalle tenebre interiori, il profilo da sfinge. Al cliché delle inglesi ‘progressiste’ dell’epoca – benestanti, vezzose, svezzate dal lusso lirico, mecenati, di sinistra, pioniere radical – la Wellesley coniugava un’autentica anima ferina, caustica: nulla le importava, di nulla aveva paura.
Yeats amava per davvero le poesie di Dorothy, che lei tratteneva entro un alchemico pudore: “è la poesia più nobile che abbia incontrato in questi ultimi anni”, scrisse in una Selections di poesie della Wellesley da lui curata, per Macmillan, nel 1936. Al di là delle frasi di circostanza – “penso che le migliori opere in inglese… siano le tue, le migliori come poesia e per la musica” –, in privato, Yeats fa un’annotazione rivelatrice, dai tratti ambigui: “Ciò che rende così notevole il tuo lavoro è l’elemento maschile unito a tanto fascino femminile – i tuoi versi hanno lo slancio magnifico del tuo corpo di ragazzo” (le Letters On Poetry From W.B. Yeats to Dorothy Wellesley sono state riprodotte nel 2021 da New Publisher e tradotte come Lettres sur la poésie in Francia, da La Coopérative nel 2018).
“Donna di innata bellezza e classe, poetessa per vocazione contro il destino a ciò avverso, incarnava la quintessenza di un mondo aristocratico che in lei vedeva una rappresentante e al contempo una ribelle”:
così la dice Deborah Ferrelli in uno studio raffinato, Poesia è vita: Dorothy Wellesley e William Butler Yeats (“Sinestesieonline”, numero 10, dicembre 2014). In Dorothy pare inciso lo scempio, un destino catalizzato dal crollo, la malinconia del sacrificio alla luna, quando i poeti incidevano su pietra, sollevavano i castelli, procedevano a morsi.
“Tesa, quasi lacerata, tra anticonformismo e tradizionalismo, poetessa sospesa nella dimensione di un dilettantismo che evoca i grandi ma sa essere a tratti maggiore di loro, la Wellesley occupa il luogo della non libertà in cui l’indubbia creatività, frutto e cura di un’anima esacerbata, si incontra e scontra con limiti insormontabili. Le belle frequentazioni, i lunghi viaggi, l’animo indomito, non hanno potuto occultare i problemi psicologici, i travagli interiori e le dipendenze che la abitavano e che, più eclatanti dell’opera letteraria stessa, hanno relegato quest’ultima in una zona d’ombra dalla quale solo l’amicizia con Yeats sembra averla momentaneamente tratta. I versi e le rare prose, noti ai circoli letterari dell’epoca, indi dispersi presso biblioteche e antiquari, rivelano tuttavia una caratura che può giustificare l’incondizionata lode a lei tributata dal maestro ed amico”.
A Dorothy Wellesley Yeats dedicò una delle sue ultime poesie, tra le più arcane. “Stendi la mano verso la mezzanotte senza luna/ Degli alberi, come potessi raggiungerli…”. Yeats accenna al “voluttuoso silenzio della notte”, alle “Furie Orgogliose, ciascuna con la sua torcia levata”, tentando di accerchiare Dorothy (la traduzione di Ariodante Marianni è raccolta in: William B. Yeats, Le ultime poesie, Bur, 2004). Dorothy fu felice dell’onore tributategli: la poesia le piacque poco. Restò al fianco di Yeats nei suoi ultimi giorni terreni: “non l’ho mai visto così in salute, era pieno di intelletto, fascino, vitalità”, scrisse a un’amica, dopo una delle tante visite. Yeats morì una settimana dopo, illuminato, alla fine di gennaio, era il 1939, “senza dolore e in pace”. Con lui, morì un po’ anche Dorothy.
Nel 1955, come Early Light, uscì un’edizione dei Collected poems of Dorohy Wellesley, mai più ristampata; lei spirò nell’estate dell’anno successivo, sola, come si conviene. “Enigmatica e sconveniente, la Wellesley rimane tuttora un mistero. La solitudine che l’ammantò e di cui divenne viva testimonianza, vela di mestizia l’intera sua immagine” (Ferrelli). Vita Sackville-West fu l’unica a ricordare “gli occhi blu e lo spirito selvaggio” di Dorothy, ora divenuti cenere. Assistere a una vita incompiuta, senza cautele, di sogni dismessi – lo spiraglio da una porta semiaperta, che dà su una stanza da letto, vi giace un ghepardo, in allarme – le conferisce una bellezza nera, inappropriata, al di là dell’esegesi e del torbido in cui si risciacquano gli studiosi.
***
La casa desolata
Conosco la casa deserta, disertata dalla luce, nel folto degli alberi,
così appare tra frantumi di memoria
piatta come la scenografia primaverile su un palcoscenico,
progredì il coraggio, tornai a casa;
fu limpido il cammino, ne sapevo le intimità;
ho sfidato le felci, sfondato il legno, fino alla torre con la banderuola:
visitai il luogo che credevo di non vedere mai più.
Districando i sentieri remoti tra albero e albero
subacqueo sottobosco fino a quella follia che crolla
dove abbiamo giocato insieme, io e mio fratello, e l’altro
che morì per sua stessa mano, un altro fratello per me.
Ma la follia è sciamata; mi inchino per terra
su ciò che resta: slabbrata lastra di pietra, una lapide.
E gli spettri si levano: bambini che trottano intorno
a me, di nuovo bambina – la sola che non è morta.
Una volta mi impauriva la casa desolata, i ruderi,
gli alberi e le radure nel bosco,
timore del giardino abbandonato,
perché nessuno era più vivo, e un altro fantasma,
di chi mi ha dato la vita – spettro tra tutti il più temuto –
vagabondava, silente, per sempre solo, lungo il lago,
uomo che nessuna donna ha mai compreso.
Tornai un’altra volta nella casa, tra i pertugi del giardino,
con colui che amo; dicevo: “Vieni, sfidiamo la casa
di cui un tempo avevo così paura”.
Siamo passati per una finestra, fermi
sul vecchio pianerottolo vuoto, come lo ricordavo,
che un bimbo varcava per andare a letto –
mi sono incuneata in un angolo, sola, a fissare le stelle,
che mi impaniavano di stupore, terrore d’infinito.
Lungo le scale sfondate inseguimmo i morti.
Nella stanza dei bambini, cupa, gridai: “Lì c’era il letto
dove mi picchiava, mi legava
quando piangevo, di notte, presa dall’orrore…”
…e mi abbracciò a lungo
nel mio abisso, colui che amo,
sussurrava: “Qui è la salvezza,
la risposta, il perdono”.
Da allora gioco con gli spettri della casa
e in giardino, nei sogni, quando
il sonno dilaga.
*
Avebury
I loro teschi erano più belli dei nostri,
denti più fini, forza e leggiadria nel combattere,
le cavità di quegli occhi videro tali cieli
e alberi e fioriture
che ancora ne ha meraviglia la nostra infanzia.
Cavità di occhi enormi che sapevano tutto
ciò che l’uomo può sapere.
Chi ha inciso le rune
è più vecchio della pietra
i vili hanno sbriciolato la saggezza.
La stessa fine falcia ogni cosa:
i savi di Avebury
che hanno inciso rune
con stili di selce
sono inutili
per questa umanità
perché il vile ha sbriciolato la saggezza.
Non credo
pensando ai bisbiglii di Socrate e alla sua sapienza
alle scuole di Alessandra
che i saggi sappiano sopravvivere.
Nebuloso crepuscolo stringe queste pietre immani:
i vili hanno sbriciolato la saggezza.
Queste pietre implacabili
riguardano un tempo dimenticato
l’umanità marcia verso la stessa fine
l’Egitto sospira, Inghilterra agonizza.
Non credo nella sapienza degli antichi
non m’importa il sapere di Avebury
perché i saggi non hanno peso
su una terra disfatta dai vili.
È meglio che non nascano più
i saggi di Avebury:
chi ha inciso rune sulla pietra
assegnando un canto alla sera,
perché sia dolce il parto dell’alba
sapevano anche questo.
Eppure, inneggio alla costanza dell’intelletto!
L’uomo ha dato legge al fuoco
ha inventato la ruota
temeva la luna e ha inscritto
la sua follia in una runa,
ha dato un nome alla stella.
Credo nell’agonia e nel sudore dei sapienti,
nella crocefissione di Salomone.
*
Il mattino dopo
Barabba, Giuda Iscariota,
la notte dopo la sua morte
la notte che seguì il pianto
“Non sanno quello che fanno”
che cosa avete fatto?
Libero dalla prigione
sei andato in una taverna, Barabba,
hai bevuto tutta la notte,
hai spartito trenta denari
con Giuda Iscariota.
Barabba colpevole
osceno Barabba
beve ruba spergiura;
il giorno dopo è ancora in prigione
delazione di puttana.
Giuda Iscariota, sole rotto a metà,
sorge dalle segrete della sera.
Bellissimo albero di Giuda:
in Aprile esplode in fiori.
*
Da “Lenin”
Quindi, scesi i gradini verso Lenin.
Una frotta di fattori davanti
e dietro di me, vidi
una stanza stremata di scarlatto, e
un uomo di cera dentro un piccolo scrigno in vetro.
Due sentinelle ai piedi, una alla testa,
piccole mani sul petto:
pia zitella che dorme; e dissi
“Parecchi meriti hanno raccolto queste mani delicate”.
Lampi dalla lampada, rossi,
aureola sopra i capelli;
vestiva l’uniforme.
Avida di dettagli vidi,
nei due minuti che mi hanno concesso,
che l’uomo non era di cera, né sacro, come dicevano,
ma un mero cadavere: un’unghia del pollice spiccava, livida,
quella cosa era Lenin.
Poi una donna al mio fianco pianse
voce strana, straniera, ruvida.
E io, che non temo la vita né la morte, tantomeno quelli che
sono morti, fui trafitta dalla paura,
perché quella era la prestanza di un dio;
quella era la voce dei popoli garruli
che vogliono nuove fedi, un orribile credo, accurato;
quella donna piangeva come piangevano molte donne
molto tempo fa al cospetto di Cristo, nel sepolcro.
Anche Cristo era pura cera
mentre lo incassavano nella tomba.
Dorothy Wellesley