Benché nel 2018 l’editore Feltrinelli abbia pubblicato Le poesie di Jurij Živago in un volume a parte, a cura di Clara Strada Janovic, di quelle poesie preferisco la traduzione originaria, quella ‘mitica’, del ’57. La stravaganza dell’operazione editoriale – le poesie che Boris Pasternak ascrive al dottor Živago, venticinque, esistono come contrappunto al romanzo, sono il lato oscuro (o luminoso) del romanzo, e in questo è il loro carisma – non ha dotato quei testi di un surplus di fascino. Allo stesso modo, le poesie di Živago tradotte da Serena Prina in calce al Dottor Živago, come prassi vuole (Feltrinelli, 2007 e seguenti edizioni), non mi convincono.
Un esempio. Questa è l’ultima stanza della poesia Convegno nella prima versione:
“Perché, chi siamo e di dove,
noi due già morti al mondo,
quando son solo le chiacchiere
quel che resta di questi anni?”
Questa è la traduzione di Serena Prina:
“Ma da dove veniamo, ma chi siamo
Noi, quando di questi anni
Sono rimaste chiacchiere soltanto,
E al mondo più non siamo?”
Questa è la traduzione di Clara Strada Janovic:
“Ma chi siamo e di dove
se di tutti questi anni
sono rimaste le maldicenze,
e al mondo non ci siamo più?”
La traduzione originaria ha una levità, una scaltrezza lirica, una sveltezza – è veridica e rapinosa, come la luce che mette le gambe e la sua cucciolata dietro – assente nelle altre. Gli esempi sono innumerevoli.
Ora. Se Il dottor Živago del ’57, costantemente rivisto – e di cui era probabilmente necessaria una nuova traduzione – è stato tradotto da Pietro Zveteremich, “la traduzione delle poesie”, si legge nel colophon, “è di Mario Socrate”. Chi bazzica in libreria ricorda, probabilmente, che Mario Socrate ha tradotto Federico García Lorca, in una versione che pare riuscita visto che è costantemente ristampata da Garzanti. Chi ha lo sguardo un po’ più lungo, ricorderà le traduzioni di Lope de Vega e di Luis de Góngora, gli studi su Cervantes e Machado. Intervistato da Mario Quattrucci su “l’Unità”, nel novembre del 1990, Mario Socrate sintetizza così il suo operare nel linguaggio:
“Ho cercato in realtà la coerenza e l’unità tra scrittura e vita, linguaggio ed agire, e sempre più sento la parola, la parola poetica e la sua ricerca di verità, come estrema linea di difesa contro l’appiattimento e la barbarie. Anche e forse soprattutto per questo si scrivono versi”.
In sostanza. Mario Socrate, professore emerito a Roma Tre, è stato un importante ispanista. Non era un russista. Perché, allora, Feltrinelli affida a lui la traduzione delle poesie in appendice al Dottor Živago, il ‘caso’ editoriale del secolo? Perché Mario Socrate era, anzitutto, un poeta. Un poeta ‘impegnato’.
Quando Mario Socrate è incaricato di tradurre le poesie di Živago ha trentasette anni, un esordio lirico importante (Poesie illustrate esce nel 1949), la folgorazione per la Spagna, amore nato nel sangue della guerra civile ispanica, forgiato dai ricordi infantili: il padre, argentino, “quando ero malato mi leggeva Don Chisciotte”. Nato a Roma, comunista – “Per me, per noi, la cultura era l’impegno politico”, dice a Maria Jatosti – Mario Socrate (nome che mesce l’impeto latino al genio greco, azione che si fonde ai rigagnoli della sapienza) fa la Resistenza. Opera a Tiburtino III e a Pietralata, “organizzavamo forme di sabotaggio più che di lotta armata. Le azioni armate erano pericolose perché significava far spianare quei quartieri per rappresaglia”. La lotta è anche, sempre, linguistica: “Durante le notti della Resistenza, tradussi temerariamente, a occhi chiusi, senza vocabolario, El licenciado Vidriera”, una delle Novelle esemplari di Cervantes.
Il lavoro di Socrate, ad ogni modo, piacque. Nel 1958 risulta il suo nome – insieme a quelli dei russisti Bruno Carnevali, traduttore di Anna Achmatova e di Sergej Esenin, e di Juri/Giorgio Kraiski, già traduttore di Majakovskij, futuro traduttore di Solženicyn, di Bulgakov e dei diari di Nadežda Mandel’štam – nell’edizione dei “nuovi versi” di Pasternak, in appendice all’Autobiografia pubblicata da Feltrinelli. Probabilmente, la perizia lirica di Socrate era necessaria per ‘sistemare’ il lavoro dei russisti. Ad ogni modo, come esiste il Boris Pasternak “di Ripellino” così esiste il canzoniere di Živago “secondo Socrate”.
C’è anche un dettaglio politico che aiuta a capire la posizione di Socrate in Feltrinelli. Proprio nel 1957, Mario Socrate affianca Tommaso Chiaretti nella fondazione di “Città aperta”. La rivista, apertamente, crea una frattura nel PCI: raduna intellettuali contrari alle posizioni filosovietiche del partito, che hanno accolto, supine, la repressione della rivolta d’Ungheria. La rivista – a cui collaborarono, tra gli altri, Calvino, Pratolini, Pasolini – durò poco più di un anno; Chiaretti fu espulso dal partito.
Luciano Bianciardi – “un caro amico, era bravissimo, aveva capito tante cose, prima di tutti noi” – gli pubblica, nel 1957, per Feltrinelli, il secondo libro di versi, Roma e i nostri anni, nella ‘Serie Scrittori d’Oggi’; nel 1964 Pier Paolo Pasolini lo ‘scrittura’ per Il Vangelo secondo Matteo. Mario Socrate interpreta un ispirato Giovanni Battista, ruolo – l’uomo che apre la via e sa riconoscere il più grande, col destino di essere decapitato dai tempi – che in qualche modo incorpora per via del fato, famelico. Dopo una carriera, per così dire, da utopista, da studioso fedele a un tempo andato, a una solidarietà dei talenti e degli intenti, Mario Socrate, morto nel 2012, plurinovantenne, è sparito, i suoi libri inceneriti nell’oblio, mai più ristampati. Eppure, pubblicava con Feltrinelli – Favole paraboliche, 1961; Il mondo è alle porte, 1964 – e con Garzanti – Il punto di vista, 1985; Allegorie quotidiane, 1991 –; nel 1964 Mondadori gli edita un romanzo, Tutto il tempo che occorre. Nel 1986 è onorato con il Premio Viareggio: l’anno dopo lo avrebbe ottenuto Valerio Magrelli, l’anno prima era andato ad Antonio Porta. Certo, poesia desueta, la sua, realismo che sa, oggi, di mobilio dei nonni, troppo tenace per questi giorni di vento e di niente; tocca l’apice, Socrate, quando il verso sfoggia l’agudeza, il motto di genio, l’arguzia dei ‘suoi’ poeti, cavalieri del Barocco spagnolo, seduttori in corazza, retori sfrontati che alternavano gli occhiali alla spada.
Più che altro, frequentava Giorgio Caproni e Attilio Bertolucci, “e Calvino, Calvino veniva sempre a trovarmi”. Già molto tempo fa, diceva che nella nuova letteratura italiana “non c’è il lavoro sulla lingua”, che “oggi la situazione linguistica, la lingua, tutto, è in un confuso sommovimento… ci sono moltissimi notevoli poeti, è vero, ma il problema è che la ricerca attuale è puramente tecnica”. Mancava la via – forse, direi, la verità – diceva. Sull’oggi di oggi, lasciamo perdere: moltissimi dice ancora molto. Diceva di alternare la lettura di Lucrezio e dell’Odissea a quella dei giornali, che è un bel modo di aggiornarsi. Credeva che
“La poesia può essere di invettiva, di maledizione… ma non può mai essere per il male. La poesia deve raccogliere tutto quello che c’è di bene, anche in opposizione. La poesia non è, non può essere cattiva perché nei sentimenti che coglie, dalle basi alle altezze, essa collega, coinvolge il genere umano, non contraddice la visione umana dell’uomo”.
Non so bene cosa sia il bene, ma che la poesia non possa essere per il male è un conforto: labili coltelli, i versi, a fiocinare il corpo mostruoso della Storia; un panca nel pieno della bufera e il poeta, in piedi, in disequilibrio, che sussurra, poco baccano, per favore, è così bello tutto questo…
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Desistito
Il futuro se ne sta tutto solo.
Se ne sta, sembra, per i fatti suoi,
senza speranza di riaversi nei ricordi,
già suoi, ormai esausti e orfani,
eppure un tempo ancora in corsa,
e lui se ne sta ora in disparte,
fermo sul ciglio della strada, appiedato,
come un ciclista in testa che ha bucato.
*
La Pagina
Bella è la pagina bianca
così inattingibile e nuda,
pure qualcosa le manca
perché non resti muta.
E basterebbe una parola,
anche una, una sola,
ma distintiva, tale
da poterla chiamare come,
appunto, un nome
lanciato lì a sonda
in attesa pungente
che risponda.
*
Appunto
Il nulla non ha un prima,
è ciò che non muore,
non ha un creatore,
un dio, diciamo, neanche il dio del nulla,
appunto, un nonnulla.
*
Prologo
S’inarcano le rovine
a sostegno dei pensieri,
vivendo per non morire
senza più desideri.
Anche il ponte che tendono
dalle pietre alle gesta
è un ponte rotto, un rudere
che alza quello che resta.
Non le abita più il sacro,
e tornano gli anni mille
su quel teatro simulacro
delle umane postille.
Ora adombrano un prologo
le incompiute rovine,
recitano un inizio
con la voce della fine.
*
Il punto di vista
Noi vissuti in questo tempo
come fosse per altri tempi,
qui a vivere per esempi
che non restano ad esempio,
tentiamo almeno quel punto
da cui l’occhio oltre s’appunti
se anche niente è sopraggiunto
là, ove noi non siamo giunti.
*
Haiku
estate, inverno
autunno, primavera,
passa così l’eterno
Mario Socrate