Poeta anomalo, René Guy Cadou ha fatto della provincia il proprio Eden – meglio, l’Arcadia dei combattenti. La sua poesia – sempre sull’orlo di una fatale facilità, di un empireo entusiasmo – ci viene addosso come un prato fiorito, un turbinio di rondini, l’inattesa mareggiata del sole, d’inverno. una vitalità fantesca, fanatica, a tratti, energumena.
Nato nel febbraio del 1920 in un piccolo borgo della Loira Atlantica, Sainte-Reine-de-Bretagne, i lari di René Guy Cadou sono i campanili, i campi messi a coltivo, un semenzaio raro di volti amici, le voci, le piccole cose che hanno aura d’eterno, purché si sappia auscultarne il bisbiglio. Il fuoco, che ha viso di falco e di satiro. Poesia contraria ai fasti intellettuali, spensieratamente ostile alle sperimentazioni come agli orfismi ad hoc; poesia in perenne veglia, sotto cucciolata di stelle. Tra i santi di René Guy Cadou, a dare slancio alla sua ricerca, Max Jacob e Pierre Reverdy, soprattutto, affascinati da questo poeta ‘ingenuo’, da quel poeta-Gauguin, della stirpe degli Jean Giono e dei Francis Jammes. Puro come il pane, duro come un pugno.
Per quel po’ di vita che visse, René fu maestro di scuola, caracollando tra diversi istituti valligiani. Fu un innamorato. La storia d’amore con Hélène Laurent – si fidanzarono nel 1943, sposandosi tre anni dopo – deflagra in uno dei canzonieri più amati della lirica francese del Novecento: Hélène ou le Règne Végétal, uscito in origine nel 1951, ritornato oggi, nella veste editoriale del ‘classico’, per Gallimard. Nella sua breve esistenza – morì proprio nel ’51, sfiancato da male incurabile – René diventò il capofila della cosiddetta “Scuola di Rochefort”, che raccolse autori come Jean Bouhier, Michel Manoll, Jean Rousselot. Congrega dal 1941, questi poeti reagivano allo stentoreo conformismo imposto da Vichy, si ribellavano, in egual modo, alla letteratura ‘impegnata’ come al disimpegno dei cultori dell’arte per l’arte. “Indifferenti ai clamori della fama della metropoli, indifesi, infine; restii ai miraggi della poesia ‘sociale’ come al cinismo della poesia algida e asociale, questi partigiani di una scuola sempre sconfitta, furono, per lo più, esploratori di vie secondarie, legati da affinità elettive, assolutamente sinceri, attenti alle variazioni della luce e alle sue impurità, ai tormenti dell’anima e alla sua debolezza… Aspiravano al riconoscimento della dignità umana, che porta con sé valori etici da non indossare come dogmi. Disprezzavano l’invenzione fine a se stessa, la provocazione fatua: alle risse intellettuali preferivano il brio della discrezione” (così Adeline Baldacchino nella lunga introduzione al libro di René Guy Cadou stampato da Gallimard).
“Parco giochi”: così René chiamava quella “scuola” fondata insieme ai suoi amici. Quanto a lui, amava le avventure di Arsène Lupin e i romanzi selvaggi di Fenimore Cooper, cioè la letteratura come sogno e come sfida. I poeti parigini sfottevano quel maestro di provincia, “vestito con un maglione blu a collo alto, troppo grande, i pantaloni da carpentiere e gli zoccoli ai piedi”. Lui rispondeva di essere un figlio “delle fate e delle paludi”; poco prima di morire ripeté agli amici che “lo scarso tempo che mi è concesso lo prolungherà il vostro amore”.
Agli avvoltoi del rancore, ai pionieri del pessimismo, ai mestatori di apocalissi salottiere, proponeva l’amore per la vita vera, la continua stupefazione, il miracolo dietro ogni finestra, le passeggiate oltrefrontiera, una falena carnalità. Pubblicò sempre per edizioni minime – spesso per i fogli de “Les Amis de Rochefort” –, libri dai titoli privi di malizia: Retour de flamme (1940), Amis les Anges (1943), Grand élan (1943), Les Visages de solitude (1947). Finì per dileggiare l’elitismo dei surrealisti, “che hanno sostituito il verbo con il codice Morse. Qualcuno ancora crede alle loro alchimie, ma io non ho nulla da spartire con quei torturatori della parola che confondono l’amore con l’abiezione”. Parlava, a proposito della sua ricerca poetica, di “surromanticismo”, intendendo con questo neologismo “qualsiasi poesia che, senza poter fare a meno di alcune qualità emotive, lavora presso un fuoco singolarmente leggero, che crepita in proporzioni corrette, udibili, nel senso che è una voce propria, egualmente lontana dagli uragani romantici come dalle surrealisti vettovaglie che si spaccano…”.
Nel 1961, gli fu dedicato il primo dei mitici “Cahiers de L’Herne”, a dire di una maestria duratura, di un sogno che perdura. Probabilmente, era certo di essere un ‘classico’ come lo sono le pietre, le nuvole, gli alberi. In fondo, ambiva a questa poesia di frutti stagionali, la parola che deve essere presa a morsi perché dia di succo e di resina; la parola primate, di prati in fiore, ancora. Non tutti regalano fiori alle proprie amate, non tutti sono usi alla brocca, dove il profumo squilla come un raddoppiato mezzogiorno. A volte, il poeta veglia su ciò che sfiorisce, sull’orfano, su quell’ombra dal volto di donna.
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In apertura
Non ho scritto questo libro.
Mi è stato dettato, nei mesi, da una voce sovrana: non ho fatto che registrare, muto, il duraturo eco che bombardava con colpi rinnovati l’oscuro timpano del mondo.
La parola mi è stata accordata in sovrabbondanza, al fine di ritrasmettere qualcosa di quelle tonanti vibrazioni, qualcosa di quel misterioso blaterio che riusciamo a intercettare, talvolta, negli androni della disperazione.
Un poeta vive entro una prigione di strade, di genti, di palazzi, di clacson, di piatti rotti, di ventri aperti, di lacrime, di piogge, di risa, di treni ebbri. E ce li consegna.
Chiedo un permesso dalle pericolose ragioni della bellezza. Ho diritti solo su ciò che è fragile. Sono passato avanti a voi. I treni in partenza ci portano attraverso feroci illusioni, al cospetto della massa stellata che poco pesa sulle bilance dell’eternità. Ma che senso ha avventurarsi in questi ridicoli covi, in questi teatri da quattro soldi dove il dramma ci è noto da tempo?
Non nascondo che queste poesie mi giungono da un lontano luogo, molto più lontano da me che vi parlo in modo fugace, inaccessibile, come un fuoco d’erba, accerchiato da malefici.
Vi mostro un paese senza orizzonte possibile ma riconoscibile, forse, per quel cranio ornato di robbia e di porpora.
O Poesia, scarta tutti gli specchi! Parlo ai giovani, agli uomini di ogni età. Parlo di ciò che mi accade. Parlo di un mondo assolto dai moti d’ira. Forse intendete questa voce monotona, che non ha destrieri, sussurrata dal cancello a tre spranghe, forse sentirete questa voce che bussa, che vuole entrare, o giovani, che bussa come voi alla porta del destino, con un canto sospeso tra bolidi e proiettili.
*
Ti ho attesa come si attendono le navi
negli anni di siccità, quando il grano
non è più alto di una serratura d’erba
e origlia con timore le grandi voci del tempo
Ti ho attesa e tutti i binari tutte le vie
ricalcavano l’eco dei passi ardenti che andavano
verso di te: ma già mi eri sulle spalle, come
la pioggia gentile che mai si secca
Hai rimosso le palpebre, qualche
zampa di uccello dalle finestre ghiacciate;
di te ho visto questa solitudine: hai
messo sul collo le sue mani in foglia
Eppure, eri tu il chiarore della mia vita
questo torpore mattinale che sveglia
tutti i rapaci, tutte le navi e i paesi
e le stelle, le migliaia di stelle che alzano il cranio
Ah, come parlavi bene quando da tutte le finestre
la sera brillava come vino buono
quando le porte si aprivano per illuminare
la città e andavamo per le strade, abbracciati
Venivi da più lontano del tuo viso
e non sapevo più se i battiti
del mio cuore sarebbero durati ancora
perché tu sei più forte del mio ligneo sangue
*
I cavalli d’amore parlano di un incontro
tornano da deserti sentieri: una donna
sconosciuta li ferma e li bagna
con lo sguardo addolorato, pieno di foreste
Ricorda che la tua tristezza è la nostra
dicono, e per amare un tale dolore
non devi andare a capo scoperto tra i rami
perché è grave il peso della vita ed è tuo
Ma io cammino e so che le tue mani mi corrispondono
o donna nel chiaro pretesto dei boccioli
che non attendi il passo delle fibre, le viti
che si intrecciano insieme ai nostri nomi
Ruoti le dita come mele verdi
di sole in sole si fa grigio il tempo
e posi sugli occhi la stanchezza dei borghi
la coperta adatta a un sonno lungo, perfetto
Mostri i seni, vuoi vivere in piena neve
con la bestia dei ghiacci che sulla fronte
porta il doppio annuncio del giorno, la dolcezza
di non essere altro che una bestia dai gentili occhi
di cui tocchiamo il fondo – così mi appari
mio amore, come l’albero nella calura
come l’adorabile tentazione che dura
l’attimo di un istante e di un’eternità.
*
Sulle soglie
Spalla accostumata alla tenerezza
con il viso di ghiaccio che rolla il dolore
le mie braccia sono rudi, il tempo preme:
scarta dai miei occhi le ombre del sentiero
È un cielo che soffre quello che mostrano
le nubi, di strane fronde che affondano le navi:
addio fasciame di carne che annerisci i nostri anelli
quella che ti saluta è una mano che muore
Incatenato alla finestra aperta
ai margini del mondo blu che sborda
nella stanza. La sera non illumina
i deserti campi, rotta è la tegola dell’orizzonte
Penso alle savie sorgenti del biancospino
agli amici che un giorno planarono nel mio cuore:
quelli che attendevo sono morti nelle fabbriche
e il vento sversa suoni di sventura
Oh, sangue fragrante del mattino
l’uomo mai amato è il mio tormento:
scavo nella notte i sogni della mia età
che non rende mai le carcasse del frumento.