21 Settembre 2023

“Desidero spazi che l’uomo non ha mai toccato”. Storia di John Clare, il poeta che diventò matto

Nato a Helpston, Cambridgeshire, nell’estate del 1793 – sulle sue poesie gravano immagini estive, splendori all’orlo della marcescenza – John Clare, riconosciuto “il poeta romantico quintessenziale” (così William Howard sul Dictionary of Literary Biography), è, in realtà, tra i grandi poeti inglesi del Novecento. Che vuol dire? Che vale per John Clare quanto accadde a Friedrich Hölderlin, Emily Dickinson, Gerard Manley Hopkins, Arthur Rimbaud, Giacomo Leopardi. Poeti che, in vita, furono sfiorati di gomito dalla fama se non del tutto ignorati e che, di rimbalzo, riletti, reinterpretati, scotennati, informano di sé il secolo seguente a quello che li ha visti respirare. Spettri verbali, poeti-virus, morti più vivi dei viventi. Icone & incubi.

(Forse, perché un’opera sia davvero tale, ci deve sempre essere uno scarto, implacabile, tra il poeta e la propria epoca: non che egli si rivolga ai posteri – di norma, un’impostura –, piuttosto, è la sua lingua a produrre una posterità, a sorgere postuma, parola per l’ultimo giorno del mondo, per labbra mai sincrone).

Nel caso specifico. John Clare visse un’esistenza marginale. La madre, figlia di pastori, era analfabeta; il papà, un estroso, lavorava come contadino, arrotondava facendo il guitto durante le feste popolari ma soprattutto dando botte: era un lottatore di baldanzoso talento. Fin da bimbo, John lavora nei campi – d’altronde, di quattro figli è il più grande, il solo che sopravvive all’infanzia –, studia quel poco – tre mesi all’anno – dimostrando, però, il guizzo per la lettura. I suoi eroi sono Robin Hood e Robinson Crusoe; da un venditore ambulante, ragazzino, acquista il Paradiso perduto di Milton. Fu una folgorazione. Adatto agli amori platonici, all’isteria onirica, John si sposa con ‘Patty’, di famiglia frugale: lei gli darà otto figli, lui non smetterà di desiderare le altre. Diciottenne, si arruola in una falange di antibonapartisti: non metterà mai piede sul terreno di scontro.

Il genio per la poesia, sorgivo, senza battesimo – John Clare simboleggia il claim: poeti si nasce non si diventa –, è coltivato a lume di candela, spesso di notte, dopo il lavoro nei campi. I Poems Descriptive of Rural Life and Scenery, usciti nel 1820, garantiscono a John Clare l’attenzione della critica – e i successivi fraintesi. Egli passerà per sempre come poeta ‘rurale’, ‘contadino’, capace di ‘scene’ pittoriche di rabbiosa levità; una specie di John Constable in versi. Anche Mario Praz, infine, retrodata John Clare a discepolo di Robert Burns, dalle poesie liete “per quel loro indugiarsi su particolari campestri, su nomi di fiori, sulla vita degli insetti, sul vecchio e inesausto tema delle ‘opere e i giorni’, e tutto ciò ‘visto’ e vissuto, non immaginato soltanto da un abitatore della città”. In realtà – lo si vedrà dopo – in John Clare preme, dietro il panorama, l’abisso umano, l’anima poliedrica; sotto le nebbie della campagna inglese si agita la belva.

A Londra, Clare incontrò Charles Lamb e John Keats, Thomas de Quincey e Joshua Reynolds, tutto un mondo che lo estraniava dalla vita affettuosa e analfabeta del natio borgo. Alternò, da allora, la zappa e la penna, il contado e la città, la solitudine e i fasti. Naturalmente – egli fu sempre il disadatto, il disadorno – i libri seguenti (The Shepherd’s Calendar, 1827; The Rural Muse, 1835, ad esempio) si riveleranno un insuccesso e il poeta contadino precipitò nella più cupa depressione.

Cause contingenti – l’instabilità economica, le continue fragilità – e un’atavica percezione dei segni oscuri della vita, stroncano John Clare che nel 1837 viene internato nel manicomio di High Beach, nell’Essex. Lì, riscrive sonetti di Lord Byron e di Shakespeare, di cui dice di essere la reincarnazione; detta poesie dalla perfezione impeccabile. La mania conferisce al suo viso il pallore degli estatici, dei visionari; il ritratto di William Hilton – con quegli occhi lunatici, rabbiosamente verso i cieli, le insondabili sfere – canonizza la leggenda del “poeta pazzo”. Scappato dal manicomio nel 1841, il poeta ritornò a casa camminando per quasi 130 chilometri. Andò a far visita a Mary, il suo primo amore, di quando era ragazzo: era convinto di averla sposata. Nel Natale dello stesso anno, ingestibile, John Clare viene prelevato a forza da casa sua e condotto al Northampton General Lunatic Asylum. Continuerà a scrivere, alternando momenti di estasi a crudi azzeramenti nella depressione. Il poeta contadino che diventò pazzo muore nel maggio del 1864. Restò in manicomio per quasi venticinque anni; lo dicono un paziente tutto sommato tranquillo. Uno dei suoi mecenati gli pagò la degenza, ma per il grado più basso nella gerarchia dei malati. Nessun letterato londinese fece visita a John Clare. Secondo gli studiosi, è in manicomio che John Clare, abbandonati i temi strettamente ‘naturalistici’, forgia “una lingua propria, modernissima, dall’intensità inconfondibile, simile a quella degli ultimi quadri di Van Gogh” (così Geoffrey Summerfield che per Penguin ha curato i Selected Poems di John Clare).

I poems di John Clare furono riscoperti all’inizio del nuovo secolo: Arthur Symons curò una importante raccolta dei suoi versi nel 1908; ne seguirono altre. La vicenda del poeta ‘matto’ affascinò poeti e scrittori che nel Novecento si impegnavano a costruire un linguaggio che raffigurasse la mania, il disincanto, la sfasatura dell’epoca. In particolare, Dylan Thomas ammirava i sonetti di John Clare, John Ashbery ne interpretò il vagabondare nel linguaggio, Ted Hughes ne riconobbe la “decisiva influenza” nella propria opera (in qualità di Poet Laureate, nel giugno del 1989, fece in modo che una lapide, nel Poet’s Corner di Westminster, onorasse Clare, il poeta ignorato dai poeti; marmoreo, pallido risarcimento). Fu soprattutto Seamus Heaney, tuttavia, a esaltare il genio obliquo di John Clare, dedicandogli una delle sue lezioni oxfordiane, poi raccolte in La riparazione della poesia:

“La sua carriera può essere raccontata come segue. C’era una volta un poeta, John Clare, che fu sedotto fino al confine del suo orizzonte verbale e tonale, si guardò intorno appassionatamente, provò alcuni nuovi termini e accenti, poi, ostinatamente e intelligentemente, si tirò indietro e si impuntò sui suoi scarponi locali… Leggerlo per i sapori esotici di un lessico arcaico e le vedute pittoresche di un passato bucolico è mancare la fiducia che egli comunica nelle possibilità di un futuro rispetto di sé per tutte le lingue, una imprevedibilità immensa, creativa, dove l’esistenza umana diviene presente e vita più abbondantemente perché ormai espressa nelle proprie parole, autogratificanti e affrancate”.

Nel nostro paese, John Clare ha trovato un sagace ammiratore in Federico Italiano, che lo rifà in una poesia raccolta in Habitat (Elliot, 2020). In particolare, Italiano riscrive una delle poesie più note di Clare, I Am!:

“Siamo gli esclusivi consumatori
dei nostri patimenti,

insoddisfatti, se il fornitore
non ci annienta come da protocollo.

Siamo immemori abrasioni che godono
quando del nuovo sangue le rinfresca.

Siamo Perseidi: una frode celeste”.

Nell’unica immagine di John Clare che possediamo, è il 1862, il poeta pare rannicchiato in sé, domestico; un uomo buono, agghindato in doppiopetto. Lo sguardo rivela una mansuetudine da manicomio, la firma, in calce, è incerta. A Londra si vantava di essere un pugile; aveva le mani callose, le scarpe sporche di terra. I damerini impietrivano. L’uomo devoto, ridotto a rapido agnello, malcelava il lupo.

**

A John Clare

Ebbene, mio buon John, adesso come stai a casa?
La primavera è arrivata e gli uccelli costruiscono i nidi;
È tornato il vecchio pettirosso al porcile,
Con piume verdi e petto scarlatto;
E il vecchio gallo, bargigli e cresta rossa,
Si pavoneggia con le galline, e pare preferirne alcune,
E poi canta, e cerca piccole briciole,
Spazzate via da gente umile un’ora fa;
I maiali dormono nel porcile; arriva l’uomo dei libri –
Il ragazzo lascia perdere il nido vicino casa,
E mette via piste e biglie, là dove sbocciano le margherite,
Per guardare il nuovo numero appena consegnato,
Con molte immagini e bellissime storie,
E la fama di Jack l’assassino gigante.

Traduzione di Paola Tonussi

*

Io sono!

Io sono – ma a nessuno importa chi sono
né vuole conoscermi; gli amici mi abbandonano
come memoria perduta: sono
il cannibale delle mie sventure –
vengono, vanno, ignare ospiti,
ombre nel convulso, represso spasmo dell’amore
eppure io sono, io vivo – come vapori gettati

sul nulla del disprezzo e del fragore,
nel vivente mare di sogni abbacinanti
dove è assente il senso della vita e della gioia,
ma esiste soltanto il vasto naufragio delle mie virtù;
anche i più cari, quelli che più ho amato
mi sono estranei – più estranei degli altri.

Desidero spazi che l’uomo non ha mai toccato
un luogo dove la donna non ride né piange
e restare là, con il Creatore, mio Dio,
e dormire come dormivo felice da bambino,
indisturbato, senza dare disturbo, indimostrabile:
l’erba sotto di me – la volta del cielo, sopra.

*

Che cos’è la vita?

Dunque, cos’è la Vita? – Clessidra che crolla
nebbia che si ritira braccata dal sole mattutino,
lebbroso, frenetico, reiterato sogno;
quanto dura? – l’istante di un minuto, l’improvviso del pensarla;
e la Felicità? – bolla su un ruscello:
appena la afferri si rivela uno zero.

Che cos’è la vana Speranza? – affrettarsi all’alba,
rancore che spoglia il prato cristallino dei propri incanti
e deruba ogni fiore della sua gemma – e muore;
tela di ragno che cela lo scettro della delusione
e punge con più prontezza grazie al suo travestimento.

E voi, miei Affanni? – nessuno può capire
(soltanto al potere della sapienza è concesso)
quale sia la vostra necessità:
scorrete incessanti, generosi e liberi, libertini,
ma qualche ragione deve certamente esserci:
delusioni, dolori, inganni
affliggono i devoti miserabili –
forse le piaghe universali di quaggiù
celano misteri sotto il sigillo implacabile del Fato.

E cos’è la Morte? Ha ancora senso la sua insensata causa?
Nome oscuro, cifrato, dall’orrido suono –
persistente, infinito sonno che attrae lo sfiancato.
E la Pace? In quale terra è fertile la sua gioia?
In nessun luogo tranne il paradiso – o la tomba.

Dunque, che cos’è la Vita? – denudata dai suoi travisamenti
non è cosa desiderabile; ogni figura
che i nostri disgraziati occhi incontrano
è la prova sufficiente della sua vanità.
Giogo a cui tutti dobbiamo sottostare;
insegnare agli ingrati mortali come raggiungere
quella vana felicità che l’uomo si rifiuta di conoscere
finché non la reclamerà lassù, nei cieli.

*

Ho nascosto il mio amore

Ho nascosto il mio amore ragazzo
perché non sopporto il ronzio di una mosca;
ho nascosto il mio amore, mio malgrado,
perché non sopporto di fissare la luce:
non oso guardarla in viso perché
ogni luogo ha il marchio della sua memoria;
dove ho visto un fiore selvaggio
lì ho baciato e abbandonato il mio amore.

L’ho incontrata nelle verdi valli
dove la rugiada imperla le campanule;
la brezza baciò i suoi limpidi azzurri occhi
l’ape ci sfiorò cantando
una lancia di luce si è fatta largo
forgiando sul suo collo una catena d’oro;
segreta come il canto di una vespa boschiva
restò così per tutta l’estate.

Ho nascosto il mio amore nei campi e in città
finché una sera il vento non mi ha buttato a terra;
le api intonavano ballate e il basso
della mosca si mutò nel ruggito di un leone;
anche il silenzio ha trovato una sua lingua
con cui mi ha perseguitato tutta l’estate;
non puoi provare il principio di un enigma:
non era che un amore segreto.

John Clare

Gruppo MAGOG