I morti, alla fine, vengono sempre a cercarci, ci parlano per tracce e teurgie. Ma forse soltanto i poeti sanno davvero ascoltarli, nel soffio delle risonanze, sempre tesi alla sinestesia, il volto nel fango. Denise Desautels, poetessa quebecchese, ha fatto della sua poesia un dialogo insaziabile coi morti. Nasce il 4 aprile 1945, in un quartiere operaio di Montréal, Québec, dove la furia degli inverni rammenta l’inanità del nostro affaccendarci, mentre il divampare degli autunni nelle foreste boreali insanguina gli sguardi, insedia la pace al di là delle cataste di grattacieli. Denise Desautels è scrittrice dalla penna polimorfa, secondo poeta canadese, dopo Gaston Miron, ad approdare, nel 2022, nella collana Poésie di Gallimard, con l’opera L’angle noir de la joie, seguita dalla raccolta D’où surgit parfois un bras d’horizon. La sua produzione consta all’incirca di quaranta opere, fra raccolte poetiche, racconti, livres d’artistes, radiodrammi, che le sono valse una serie di premi internazionali e il conferimento di prestigiosi ruoli in ambito accademico e culturale (fra gli altri, è membro, da anni, dell’Accademia delle Lettere del Québec).
Ma le mostrine sono mormorii, non mi interessano; mi interessano, invece, i versi di Denise, nei quali mi imbatto un sabato pomeriggio, in una libreria di Ginevra, mentre gioco a fare la rabdomante nell’universo slavato della poesia francese contemporanea. Sfoglio ed ecco i soliti rigurgiti intimistici, o, peggio, certi balordi esperimenti tipografici che (malamente) emulano il colpo di dadi di Mallarmé, o, peggio ancora, i soliti sermoni a sfondo civile e altre inezie di questo genere. Insomma: poesia non pervenuta. Fino al momento in cui incappo nella copertina de L’angle noir de la joie – un titolo che è già un approdo – e nel volto aguzzo e scabro di Denise, che mi evoca certe beckettiane asperità; comincio a sfogliare e finalmente trovo l’ossessione sulla pagina. Cerco subito una breve bio per capire in quali abissi ha bazzicato la poetessa.
Denise vive la sua adolescenza prima durante il periodo della Grande Noirceur (il Grande Buio), poi all’ombra della Revolution tranquille (la Rivoluzione tranquilla), storiche svolte che hanno condotto il Québec verso la conquista di una indipendenza dalla Confederazione canadese, se non politica, almeno identitaria. Inizia a scrivere in francese negli anni in cui germoglia il femminismo, tanto che, con semplicistico piglio, viene subito inserita nella corrente della cosidetta écriture de l’intime, etichetta affibbiata alla scrittura femminista che, rompendo con un passato di silenzio e diritti negati, lascia irrompere la parola in postura rigorosamente autobiografica. Eppure, quella di Denise Desautel non è una scrittura femminista, è semmai una scrittura femminile, che si fonda su un’amalgama fra la propria memoria e la memoria collettiva del dolore, il dolore primigenio, eterno, dell’uomo e del mondo; è una scrittura che non cede al sentimentalismo, non milita, non rincorre né scaccia alcuna ideologia, semplicemente sgorga dal raro (e dunque prodigioso) incontro fra l’emozione e il pensiero che la sottende. Una scrittura, mi pare subito, il cui lirismo, certamente presente, si stempera in uno stile ibrido, nell’avvicendarsi di versi e prosa poetica, nell’affacciarsi di citazioni tratte da poeti e scrittori celebri; una scrittura, infine, in cui si avverte sovente l’eco di voci estranee e remote che dialogano con l’io lirico: le voci dei morti.
Ecco, dunque, l’ossessione. La poesia di Denise Desautels sembra trapassare ombre che da sempre la avvolgono in una funesta spirale. Scopriamo, in effetti, che la sua vita è costellata di lutti in successione serrata, a partire dalla morte del padre quando lei ha cinque anni. Una perdita il cui dolore viene perpetuato da una madre fagocitante, autoritaria, capricciosa e crudele, che impedisce alla figlia di sgominare la pena e di affermare così la propria identità. Insomma, un microcosmo – la famiglia di Denise – trapunto di infelicità e di coercizione. Seguono altre perdite, tremende, laceranti (su tutte quella dell’amica Lou, sorella di sangue), e la scrittura di Denise si slabbra, perde l’ancoraggio alla sintassi, si minimizza per bordeggiare l’assenza, cerca la voce dei morti.
Secondo Jacques Derrida, la parola del defunto evocata in un testo – mediante la citazione di conversazioni o lettere scritte – agisce interiorizzando lo scomparso quale “punto di alterità infinita”[1] all’interno del testo stesso. Desautels, nel solco di Derrida, ma anche di Roland Barthes e del suo Journal de deuil,si convince che rammemorare e scrivere il lutto, anche attraverso il ricorso all’intertesto, sia un modo di diventare se stessi per il tramite dei morti; non stupisce, dunque, che nei suoi libri si finisca per fluttuare in un dialogo in filigrana con gli assenti, in una placenta di immagini mormoranti che giungono da lontano. La promeneuse et l’oiseau (1980), Ce fauve, le Bonheur (2005) e Le coeur et autres mélancolies (2007)sono opere dedicate alla scomparsa del padre, Tombeau de Lou (2000) è un canto in memoria dell’amica d’infanzia, Pendant la mort (2002) è l’opera di commiato dalla madre, lo scontro finale, il dialogo postumo. La morte è il fondamento della scrittura di Denise Desautels, la tragedia di un corpo inerte di fronte al linguaggio, il solo strumento in grado di liberare il ricordo, di spezzare la prigionia del microcosmo e della propria ossessione. Ma il macrocosmo da affrontare, là fuori, è un mondo di furia, di ostilità, di ipocrite contraddizioni, sulle quali la poetessa medita anche attraverso l’incontro con altre forme d’arte (ama, in particolare, le arti visive e ha lavorato con scenografi, cineasti, pittori, fotografi, coreografi, danzatori); un incontro, anzi una complicità, che la induce, per nemesi uroborica, a riappropriarsi del proprio universo privato, trovandovi nuovi elementi interpellanti. Quasi tutte le opere di Denise ospitano immagini di fotografi e artisti dell’arte visiva, fabbricano legami fra la parola e gli oggetti rappresentati, evocano corrispondenze che scuotono l’immaginario della poetessa permettendole di affrontare i temi a lei cari in maniera sempre rinnovata e diversa. Disparaître (2021), ad esempio, è l’ultima raccolta di poesie di Denise Desautels nata dall’incontro con il lavoro di Sylvie Cotton, artista quebecchese interdisciplinare, le cui opere sono esposte negli Stati Uniti e in Europa. L’arte, tutta, per Denise Desautels, è “utopia di eternità senza speranza”[2], è una provocazione, risveglia la memoria, detronizza la meschinità, fomenta la brama dell’indicibile, dà scacco matto alla solitudine, è atto di resistenza e incanto contro la disperazione.
Secondo Louise Dupré, che firma la prefazione delle raccolte L’angle noir de la joie e D’où surgit parfois un bras d’horizon, edite in un unico volume da Gallimard (nel 2022):
“Denise Desautels costruisce i suoi libri come camere d’eco, nel senso in cui le intendono gli specialisti della comunicazione, per evocare un procedimento teso a incrostare un messaggio nella testa dell’ascoltatore attraverso la ripetizione, identica o con variazioni”.
Le poesie racchiuse nelle menzionate raccolte, una manciata delle quali è qui tradotta (Desautels, presente in diversi paesi, è inedita in Italia), sono fatte di sincopi, di frasi senza punti né maiuscole, talvolta senza verbo; un periodare che è un fermoimmagine, che scatena un flusso capace di imprimersi nella memoria. La frammentazione della sintassi, va da sé, riproduce quella dell’io lirico – un io prismatico, disperso fra svariate e contraddittorie identità – e tende al suono arcano, alla glossolalia; frasi disarticolate si scontrano con spazi di silenzio, come fosse un punto che non conclude, ma attende. È una poesia, quella di Denise Desautels, che si confronta con un mondo – quello di oggi – spezzato, e lo fa, appunto, attraverso una narrazione a singulto. L’affettività dei temi ricorrenti (morte, filiazione, condizione umana) si forgia per mezzo di un ritmo percussivo. Siamo al cospetto di una scrittura visionaria e corporea, in cui persino gli elementi naturali hanno membra e cuore; è una poesia che non ascende, ma trabocca, dando vita a microcosmi privati i cui confini si mischiano con quelli del mondo fuori. Aspergere il dolore di parole, per trarne una malinconia inebriante, raccontare la polarità irrisolvibile, ambire alla redenzione che illude e delude, eppure persistere in quella ricerca e fallire. Questo fa Denise Desautels.
Per Blanchot “Chi scava il verso incontra l’assenza degli dèi”[3]. Se ne deduce che la poesia non salva, concede semmai l’illusione di farlo. E tanto basta. (Maura Baldini)
***
AHAN[4]
azzurro gennaio
duro come un grido
la gola allagata
da intrighi da cui non si guarisce
di giorno in giorno, questo vecchio ripassa,
posseduto, si direbbe
la guerra va, viene, fa buchi nelle notti
gli animali, i bambini, il loro pallido costato
l’emozione sovverte le ore
nella ressa, qualche corvo
l’angolo del collo di un’ala
appuntato alla foga
si sente lo spavento
il verso di un organo ammaccato
di un cuore bianco
le cose umane che lasciamo
in situ
troppa pena intorno e troppo cielo sopra
gli incubi lasciati a loro stessi
guardiamo la duttilità della menzogna
ti guardiamo precipitarvi dentro
astro allucinato, ansimante
che sogna la devastazione
che sogna
senza sapere verso quale bocca voltarsi.
*
BING BANG
Fuori un secco clac
un’impalcatura o tutta la terra
vedi, vedi
è fiammeggiante, colmo di coltelli
è il non senso in pieno cielo, risuona
il feroce terrore
e concentra, miseramente in sé,
buio e luce
talvolta hai del metallo nella voce
come una roboante profezia di consonanti
incrociamo il ferro, si dice
demolizione, incendio, stella
giungiamo fino alla granata e al gancio
addizionando cerchi
i loro punti cardinali
l’impatto del loro tremore
fino a quando tutto crolla –
cantieri, torri, lacrime e libri
esasperano l’atmosfera
e quando tu credi che niente possa essere salvato
qualcosa, cosa
appena due sillabe
la loro austerità più pura:
alba
là dove emigra
l’ultimo fantasma della carezza.
*
Desolazione, senza motivo
oltre questo accanimento di un gennaio di brace
niente più cedimenti fuggiaschi
niente richieste di soccorso né scosse
e nemmeno sospiri
niente più grandiose rovine
solo naufragio
dicesi fame
fra le costole
e solo una sgargiante foga di ricoprire tutto di ghiaccio
fitte al cuore comprese
il caos tormenta, alto,
la vostra imperdonabile geografia
isola, antille, haiti
con diverse A nerissime
una oscurità a bruciapelo
e simultaneamente l’ordine, il sole
racchiuderlo
fino agli occhi
allontanarsi dalla pioggia
accucciarsi in disparte
*
fa molto rumore
questo vento sepolcrale che ci punge la testa
sopravvissuta nello sbigottimento
una volta per tutte
fanno molto rumore
i nostri palmi che precipitano
così striminiziti
il loro tormento battente proiettato
contro un sottile muro di parole
ci avventuriamo comunque nell’improbabile
fra l’angolo e l’arco delle costole, in fondo
alla gabbia
deponiamo la purezza
un giorno
– semplice ipotesi, certamente
sperimentare la bontà del fuoco che salva
*
la fronte, molto bassa, senza pensiero
dimentica ciò che innanzi passa
mentre crolla un traliccio di costole
e l’autunno prende il suo posto.
ci si immagina a sigillare tutto, a intonacare
orecchie, occhi, narici, neuroni
con la setosa stravaganza di Jorge Molder
ritirarsi all’interno
evitare il nulla delle frasi
ma così
di sicuro – la vita manca
l’imminente fugge fragoroso
e il mio cranio, tasca di urla
e urti,
condannato ai barbagli delle sue ossa
tutto è perduto, tutto ciò che amavo
*
una testa, troppa testa
astro poroso fra le tempie
– l’aria vi si rarefà.
cronologia, scala di date
una a una, come artigli
verso l’alto si scala,
allontanandosi ci si vede
– rifugiata altrove, ma dove
fino all’indifferenza dei sogni
la forza dei polsi, la lingua e l’unghia
nulla più da scovare sotto la patina
nulla più veglia di là
non Cassandra, e nemmeno il mondo
in pezzi
al contrario della caduta delle lacrime
sono proprio io, spaesata,
quella che precipita
*
Trattenere con gli artigli o smembrare
i continenti dei ruoli
la bambina, l’inconsolabile, la sopravvissuta
e l’altra, l’irriducibile antenata
quale voce dice giusto
quale promette la compassione
per l’indomani, un incanto
la vita volume II
là dove inizierebbe il miele dei grandi annegati
autoritratto, lungo corridoio, ciò che ne rimane
un cargo di prede e crepuscoli
quale speranza nella bocca
con tutti questi morti
io scrivo, esisto solo accidentalmente.
vedete, non c’è scelta ormai
ma un’estensione di cuore
*
Dove apparire.
Dove sognare.
Una bocca urla
piaga nel turchese dell’acqua.
E il braccio muto
s’avvolge, veglia volontaria
cardine d’alga.
Inverosimile rosa
sul fondo del gorgo.
*
Oggi / divento il riso freddo del mondo
MOON CHUNG-HEE
Notte V
Ha sempre avuto paura delle scene d’agonia.
Che lo inghiottano. Fa freddo. Fin dietro le quinte
della lingua di lei che lo culla. E intorno nulla
è così vasto per l’indefinito senza frontiera
che cresce come nebbia nella stanza.
La scena. Un letto di viole scure dove vengono
a rannicchiarsi le intime prede. E lei le veglia.
Desidererebbe dire bellezza – che bellezza.
Come se avesse perso di vista tutti i suoi avamposti.
Dove è finito il corpicino d’oceano si domanda la madre.
*
Morte è una sola sillaba.
ISABELLE BALADINE HOWALD
Notte VI
È più forte di lei – sogniamo che tutto bruci.
Il gusto della forra impiantato nella sua notte.
La nuca alta e gialla ben al di sopra
del rogo. E il cielo cade da ogni lato.
Ancora l’eco della lama e del male. E morte
prolifera nei suoi vocalizzi malinconici.
Il figlio direbbe lasciami dimenticare lasciami essere
senza voce. Addormentato in seno ad alghe filanti
e a grandi uccelli umbratili.
Lontano dalla sillaba volubile.
*
La storia s’imballa. Qualcosa della croce e del lamento stretto nei nostri pugni. In un assoluto massiccio silenzio. Negli scontri del bosco. Quasi più non ci percepiamo. In molti su un fondale d’inferno, tutto delira. Dove vanno a finire le scaglie sparpigliate dei nostri affreschi. Singhiozzi, ossa, urti, urla, paure a dirotto. Lembi di cornacchie, ventose appiccicate alle nostre anche. Dove cercare il rovescio del mondo. Dove piangere i corridoi di voci, venti, vite rubate. Cosa accadrà dopo – lo smarrimento delle nostre rauche nuche che accarezzano terra. Le avremmo desiderate così tanto, sontuose.
Sotto la linea dell’orizzonte, la fatica. Cade. Un anonimo sollievo, si direbbe. Subito dopo il lamento. Qualcosa, tuttavia, continua ad abbaiare nei nostri palmi.
*
Noi verso la fossa riparatrice per dire eccoci. Riappariamo. Subdoli fiotti di stormi insudiciano ancora il cielo. E ancora ricopre la tavola una spaventosa innocenza. Come approdare al miracolo. Occupare il deserto. Attraverso quale senso, quale vertigine. Iris di brace e galassie d’amore riconciliate. Come deviare il filo d’obice del mondo dalle nostre mani. Il suo elmo rivale. I suoi conciliaboli. Il suo dolore. Pazienza che mi manca. Devo supplicare furiosamente la mia rabbia. Il suo progetto di bellezza capovolto a ogni fermito. Mi tradisco
– oggi davanti all’esattezza del sogno.
Noi tu i tuoi compagni nello stesso cuore minacciato coi nostri corpi i nostri morti i nostri distinti disordini. Noi in una spirale planeteria per concepire un nido di speranza. Il peso reale del nostro minacciato cuore accordato alla sublime risonanza dei libri.
*
È un corpo di notte a grande velocità. Teste, sono teste – a chi appartengono – allineate lungo un muro d’ombra. Gabbie e galoppi. Impressioni di fantasmi scorrono. A ogni finestra, umani merletti. Come se stessero urlando. Accelerano i morsi e la pietà. Il tuo cuore, il mio cuore e tutto il resto. I pregiudizi della storia. Le sue vanità. Soffrire e tradire. E tutto tacere. Fino alla fame di rimorso. Fino a quando i nostri gesti sono solo gesti. Senza fruste né terrore nelle burrasche. Senza nemmeno burrasche.
Mani che ci spingerebbero deserte – insostenibile misericordia.
Denise Desautels
*La cura del servizio e la traduzione dei testi sono di Maura Baldini
[1] Jacques Derrida, Chaque fois unique, la fin du monde, Éditions Galilée.
[2] Denise Desautels, Leçons de Venise, Le Noroit.
[3] Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, traduzione di Fulvia Ardenghi, Il Saggiatore.
[4] Onomatopea riproducente il gemito che accompagna un grande sforzo.