11 Agosto 2019

La poesia contemporanea? Recitare lo stesso copione, buono per le riviste femminili patinate e per le battaglie socialmente impegnate in vetrina

Recitare il copione. La commedia dell’ascolto

Gente che continua a giocare con la messa in scena delle parole, con le loro varie rappresentazioni, grazie a copioni ben stabiliti: quello dell’impegno e del disimpegno; quello della “performance” e quello della “semplicità” o comunicatività, quello della ricerca “mistica” o del divertimento da guitto ironico che nulla conosce e soprattutto sperimenta del comico. Vanno e vengono sui palchi, si danno un ruolo, si ascoltano dire cose già sentite, già pre-scritte come da copione, invaghiti stupidamente della comunicazione e dell’umanismo diventati luogo comune, anch’essi già tutti scritti nel copione. Si credono questo o quel tipo di poeta: sono personaggi, macchiette chiuse ad ogni esistenza proprio laddove si credono più aperti e disponibili, democratici nei confronti del pubblico – un pubblico di altrettanti caratteristi, inscritti nello stesso copione, il medesimo sopra e sotto al palco… recitano salendo sulla sedia la loro noiosissima Vispa Teresa. Sono intrattenimenti per intrattenitori.

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Queste mammolette della “poesia comunicativa” e della “comprensibilità – naturalmente solo a livello di immagini e significati, come se la comunicazione fosse davvero ridotta a questo – e della “parola che deve arrivare a tutti”, questi facitori di cartoline illustrate dei “sentimenti”, che talvolta arrivano persino sui banchi di scuola con seminari e altre tremende iniziative, sono in realtà, più o meno consapevolmente, fascisti del significato, del punto di vista, del linguaggio in quanto generalizzazione banalizzante e unificante, che sanno distruggere l’incomprensibilità significante della vita con le loro rappresentazioni, con i loro piccoli quadri o scatti da selfie dell’esistenza. Scriveva a tale proposito Geoffrey Hill: one of the things the tyrant most cunningly engineers is the gross over-simplification of language, because propaganda requires that the minds of the collective respond primitively to slogans of incitement. […] I think art has a right — not an obligation — to be difficult if it wishes. And, since people generally go on from this to talk about elitism versus democracy, I would add that genuinely difficult art is truly democratic.

Ne ho sentito una, Isabella Leardini, dire che un suo testo era talmente conosciuto che lo ritrovava nei diari dei ragazzi e delle ragazze delle superiori: ma questo, mi pare, non ha niente a che fare con la memorabilità della poesia ma, piuttosto, con la facilità del memorizzare banalità che non richiedono altro che la conferma di ciò che già si conosce, proprio come accade con le canzonette e i tormentoni estivi. Per non parlare poi degli atleti della “performance” poetica come, ad esempio, Julian Zhara o Tiziana Cera Rosco, che non riescono a comprendere la differenza tra l’improvvisazione e l’essere improvvisati nel loro ruolo, urlando o fingendo la recitazione, il cambio di voci, mischiando senza alcun costrutto arti diverse perché incapaci di padroneggiarne almeno una, cioè di esserne completamente al servizio. E che dire dei “padri” che avvallano in collane e prefazioni questa mediocrità scriteriata e cialtrona, finto-intellettuale? Come può, ad esempio, Milo De Angelis sostenere, davanti alla grandezza di un suo verso, i complimenti fatti a giovani e meno giovani poeti incosistenti, privi di tensione e totalmente avulsi dalla poesia? Come si può esaltare e promuovere indistintamente, anche in collane prestigiose, o i soliti vecchi bacucchi, vedi il caso di Sergio Zavoli, e altri improbabili, presenti evidentemente per altri motivi, come Vincenzo Cerami, Elio Pecora, Giovanna Rosadini, Tommaso Giartosio, Chandra Livia Candiani, Erri de Luca? Una marmellata dolciastra, fatta in modo industriale, con il marchio di successo in cui però non succede assolutamente nulla. E, se un testo poetico non cambia almeno di poco la visione e la direzione esistenziale del lettore, a che pro leggerlo?

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Decolonizzare l’orecchio

Decolonizzare l’orecchio e l’ascolto, nella nostra attuale temperie culturale non significa tanto liberarsi da schemi sonori e ritmici dati poiché, purtroppo, i poeti attuali sono quasi tutti privi di questi stessi tracciati e sembrano “pensare” più per immagini, quasi sempre stereotipate nella mediocrità o nell’eccesso: occorrerebbe accecarli, ecco. Scrivono con gli occhi essenzialmente, cioè sono incapaci di ascolto profondo del ritmo e, quindi, del farsi non appropriativo del senso. Quasi mai c’è traccia di ritmo e di suono: tutto è concentrato sulla rappresentazione, sulla maledetta convinzione del volere esprimersi, senza lasciarsi giocare dalla percussività del linguaggio e della musicistica che dovrebbe incontrare il loro orecchio. Un orecchio evidentemente troppo intasato dal cerume sociale, sentimentale – nemmeno capace di cogliere e vivere in se stesso la cacofonia del reale, di quella Cosa che, lacanianamente, non smette di non inscriversi e che proprio in questa sua azione, percuote il corpo dell’ascoltatore. Niente, questo non sembra nemmeno essere percepito: tutto è una immensa rimozione, un fantasma estetico o, meglio, estetizzante a buon mercato, buono per le riviste femminili patinate e per le battaglie socialmente impegnate in vetrina. Eticamente osceno.

Andrea Ponso

*Andrea Ponso ha pubblicato con Mondadori il libro di poesie “I ferri del mestiere” (2011); per il Saggiatore ha commentato e tradotto il “Cantico dei Cantici” (2018), per le edizioni San Paolo ha pubblicato da poco “Qohelet o del significante. Proposta di interpretazione mistagogica”.

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