07 Febbraio 2025

Siamo carcasse. L’ossessione della carne nel cinema di David Cronenberg

Affrontare il cinema di Cronenberg significa innanzitutto fare i conti con l’ossessione della carne, ovvero la più antica e controversa che esista assieme ad un altro elemento per così dire atavico: il sentimento di angosciosa paura che genera l’ignoto. Ma in che forma l’ossessione della carne si è manifestata anche nella modernità e nella postmodernità? Diremo, attraverso un’oscillazione tra due diverse posture cognitive, assiologiche e pulsionali: da un lato il volerla trascendere e dall’altro il volerla possedere, penetrare, assaggiare, quando non violare. 

Trascenderla significa innanzitutto negarla nella sua condizione di permeabilità, contaminazione, fragilità e deterioramento. Tanta fantascienza deve a questo punto di vista il proprio fulcro tematico: si pensi ai robot o a creature artificiali umanoidi. Ma Cronenberg segue col suo cinema un ulteriore filone che è quello della mutazione, come attraverso una forma di “consustanziazione” in cui essa si fa espressione fisica, materica dello spirito o della psiche. In molti avranno presenti le manipolazioni della carne operate “post mortem” da Joel Peter Witkin: Cronenberg sembra proporre lo stesso grado di manipolazione estetico-concettuale quando la carne è ancora viva e pulsante; da ricordare a proposito è la battuta di Jeremy Irons in Inseparabili (1988), che qui parafrasiamo: “Dovrebbero esserci concorsi e premi per il miglior cuore o la migliore milza … Perché non riservare all’interno di un corpo la stessa attenzione artistica che si ha per il suo esterno?” E forse Bacon vi era andato molto vicino, tanto che le sue sanguigne e cupe rappresentazioni sembrano una risposta a questa domanda; le sue parole, poi, non sono meno radicali: 

“Che altro siamo, se non potenziali carcasse? Quando entro in una macelleria, mi meraviglio sempre di non essere io appeso lì, al posto dell’animale”. 

L’ossessione per la deformità, per la manipolazione pittorica della carne e la sua scioccante, cruda esibizione divengono, nel pittore americano, la chiave di volta di un universo orfano di un Dio e in cui l’uomo sperimenta angoscia e dolore, corruzione e devianza. Così la carne resta lo specimen di una vulnerabilità assoluta e il grido muto di corpi che soffrono per mezzo di essa e vengono trasfigurati modellandola secondo un’estetica che si fa filigrana quasi astratta, a dispetto della sua dirompente fisicità, di alienazione e solitudine, e in cui l’organico suggerisce un grado estremo di nudata esposizione al dolore e la datità ineludibile dell’umana lontananza da Dio e da qualsiasi ideale di bellezza o principio redentore. Anzi, il grado “metabolico” dell’arte di Bacon nei confronti del dolente abbandono dell’uomo e della sua condizione materialmente irredimibile, è qualcosa di assoluto e sconcertante: digerire il mondo significava sperimentare dissipazione e caos nella vita come nell’arte, e le sue sagome da macello, le copule brutali, i ritratti che denunciano, attraverso la distorsione di ossa e carne, l’inversione della vita cui sono involucro,  non scendono a compromessi con orizzonti di senso ideali, anzi fanno manifesta la trasfigurazione brutale di ogni armonia e canone apollineo nella sembianza seriale di un vuoto di ordine e rassicurazione. 

Non si possono ignorare le affinità del regista con questo registro tematico, ma tornando ai gangli concettuali che egli pone: non solo il corpo è una cosa fragile, anche la psiche; non solo il corpo è soggetto a contaminazione e deterioramento, anche la psiche. E le perversioni, il lato oscuro simboleggiato dalle pulsioni inconsce apparentemente più in lotta col freudiano Principio del Piacere, nel cinema di Cronenberg sono la regola. Precipuamente in quanto tali da manifestarsi ed essere incarnate proprio da trasformazioni, spesso peggiorative ed esiziali, del corpo. In questo verso il film La mosca (1986) esplora a fondo la mutazione fisica e psichica e il tema della malattia e del deterioramento del processo mutazionale attraverso una trasformazione sottrattiva dell’elemento genetico umano puro e originario (il teletrasporto “richiede purezza”, e invece la macchina che lo veicola è costretta a ri-creare il corpo umano dando la propria versione di una copula genetica con una mosca presente nell’abitacolo: un’iniziativa unilaterale e dagli esiti tragicamente beffardi, che ridonda in modo deleterio le intenzioni originarie di chi l’ha creata ma che pare ad essa perfettamente logica) che si esprime come una sorta di dilatazione di quella de La metamorfosi di Kafka, ma elabora anche una riflessione interessante sui limiti della ricerca scientifica e sulla possibile eterogenesi, qui disastrosa, presso i suoi fini d’origine. Mentre la figura stessa dello scienziato protagonista risulta una versione aggiornata del Frankenstein di Mary Shelley, rivelando la sua carica prometeica che sfocia poi in un dramma melò sull’identità (corporale come mentale). 

Vi sono stati e vi sono registi visionari che hanno esplorato il genere body-horror da lati di visuale interessanti, ma in modo più furbo e ruffiano che intelligente, indulgendo a stereotipi e volontà di scandalizzare piuttosto vacua dal lato tematico. Ecco, Cronenberg non è tra questi, nonostante qualche eccesso. Bisognerebbe chiedersi come, però, e la risposta è: interpretando il lato deteriore del progresso, anche quello scientifico, e mettendo su un piano da incubo la pietra angolare della postmodernità, ovvero l’avanzamento tecnologico, e quel particolare tipo di scienza che reifica i soggetti umani, come avviene nell’ingegneria genetica così come ben problematizzata dal filosofo Jonas – il quale tra le altre cose ribadiva l’esigenza di un’etica della responsabilità a lungo termine, cioè tale da comprendere anche le generazioni future come soggetti “aventi diritto” al bene della vita e della prosperità e con cui non è bastevole la semplice etica della reciprocità di stampo kantiano. Questo concetto sembra sfiorare da vicino una singolare pellicola della filmografia del regista, ovvero La zona morta(1983), uno dei suoi film più politici – guardare per credere. Ma il problema che sembra porsi Cronenberg fin dagli esordi è questo: il corpo, i corpi, sono solo la dimora materiale dell’anima, o della psiche, o non sono piuttosto una mappa di essa, una cartografia organica in mutamento incessante, con un suo linguaggio e una sua possanza di significato? E soprattutto: fino a quanto ci si può spingere in avanguardistiche manipolazioni della struttura fisica senza sollevare temi etici e filosofici che vanno a concernere quella parte oscura della natura umana che da un lato rifiuta la carne e dall’altro ne è affamata? Sappiamo bene che le più efferate discriminazioni ed epurazioni delittuose sono avvenute e avvengono col coinvolgimento della carne: i suoi umori, la sua permeabilità, come accennato, il suo essere fertile ma soggetta a deterioramento. Tutti fattori che la pubblicistica nazista, per esempio, ha sfruttato per creare disgusto nei riguardi di ebrei, omosessuali, invalidi. L’ossessione della purezza e la superomistica dei corpi: assieme a queste riflessioni, si farebbe bene a considerare come la tecnologia inerisca i corpi e il fattore identità, più di ogni altra cosa, e come l’industria che la promuove e finanzia abbia molto a che vedere con la paura della morte, la fragilità di essi, e in ultimo il potere di definire e ridefinire gli spazi vitali e le fisionomie cognitive, il modo in cui ci si riconosce nel corpo e per il corpo. La nuova realtà ibrida è un ibridismo delle identità prima di tutto, dalla natura polimorfa, plurima, e il vero crimine è inoculare nelle coscienze (ammaestrate e mesmerizzate dai media come in Videodrome, del 1983, dove l’idea sotto forma di estetica e messaggio catodico si fa corpo – la “nuova carne” – rendendo deciduo ogni elemento pulsionale che possa essere alternativo o in conflitto con essa) l’idea che vi siano entità e soggetti nemici della propria integrità e purezza, di quella del corpo soprattutto, e che vadano combattuti anche perché nemici dell’identità e dell’autarchia delle Nazioni e dei Governi. Malattia, contaminazione del Sé, proliferazione delle minacce ai corpi e alle fisionomie di appartenenza, sono lo strumento più efficace di una retorica politica censoria e razzista, aggressiva e colonizzatrice, e Cronenberg sembra saperlo bene. Se la dimensione del desiderio, non solo quella di un desiderio malato o invertito, ma in senso più largo, necessita di una riflessione profonda sul modellamento di identità per il verso della coercizione e dell’assoggettamento, e se queste sono da considerarsi questioni politiche, di pari passo non c’è una riflessione più politica di quella sui corpi come ultimo avamposto di sovranità identitaria da difendere contro l’invadenza e la scarsa orditura assiologica della scienza e dei suoi pionieristici rimedi.                                                                                                                    

Mentre in Videodrome l’allucinazione e la contaminazione tra organico e elettronico sono il vestibolo della condanna dell’uomo a poter divenire programmabile, e la riproduzione delle immagini diviene l’analogo di una riproduzione antropologica tale da aggirare, forse, persino l’atavica copula fisica a favore di un’altra ricettività erogena e libidica fortemente passiva e tale da sublimarla, in Crash (1996) si assiste a una forma vera e propria di pornografia tecnologica e il discorso si fa più sottile, investendo l’aspetto perturbante di attrazione/repulsione per il trauma, fisico e psicologico, che raggiunge connotati di investimento libidico.Il discorso prossemico dei personaggi assume un aspetto meccanico in relazione al sesso, ed ogni manifestazione di desiderio passa attraverso la messa a rischio della vita stessa entro dinamiche autodistruttive. In questo contesto, la dimensione eminentemente cerebrale dell’atto sessuale ha la sua apoteosi e si trasforma in rito da creare e ricreare per mezzo di feticci figli di una massificazione del “coito” entro il plesso nodale di sessualità e tecnologia. 

Non è da trascurare neanche il recente Cosmopolis (2012), dove, in un processo all’apparenza antitetico rispetto al filone del regista, si assiste a una sorta di smaterializzazione e rarefazione della fisicità, come ultima frontiera del neocapitalismo in cui le individualità e i loro territori di appartenenza, fisici e non, si fanno merce e la merce non sussiste che come flusso di denaro tracciabile telematicamente e tale da essere il vero spettro, erratico quanto sterile, in circolo per un mondo sul baratro di una distopico sonno della Ragione (o dovremmo dire delle coscienze politiche?) e in cui la ribellione alle sue leggi coercitive si esprime come una furia iconoclasta ma acefala e caotica che, si intuisce, non porterà a nessuna palingenesi sociale e politica, ma sarà solo la virale infezione – anarchica e fuori controllo – di un Sistema plutocratico al collasso e malato di controllo, sui corpi e sulle menti. 

Esistono condizioni estreme che sembrano, per Cronenberg, l’occasione di guardare il volto dell’alterità, sia essa gravitante attorno a un proprio nucleo di senso e appartenenza (e comunque tale da essere diversa, anomala) o deterritorializzata in ambiti in cui si trasforma in altro da sé; l’occasione poi di calare i propri personaggi oltre la condizione opaca di un esser-ci ottuso ed uguale (almeno quanto orientato al particolare) entro un orizzonte che è testimone di tutti i limiti dell’intelletto (leggi, soprattutto: della scienza e della tecnologia), intelletto che vorrebbe l’essere uguale all’essente omettendo la sua condizione situazionale; l’occasione di esplorare a fondo, infine, la propria fragilità, la sua natura esposta e provvisoria, che non mette in revoca la vita ma sicuramente sonda di non poter vivere senza lotta e dolore, e senza dolorose trasformazioni, di dover assumere come inevitabili i propri sensi di  colpa, familiarizzare con la morte e sperimentare la radicale illusorietà perfino della propria identica permanenza al mondo.

Vi sarebbe molto altro da aggiungere sulla filmografia di questo regista seminale e controverso, come cenni al tema del doppio in Inseparabili, o al corpo come “macchina morbida” e all’universo allucinato e distopico del Burroughs di Pasto nudo (rivisitato dal regista nel 1991), così come alla riflessione sul rapporto confusivo e allucinato tra reale e virtuale, tale anche nella diegetica del film, in Existenz (1999); ma ciò che qui volevamo mettere in luce è che il limine tra allucinazione e weltanschauung, manifesto e subliminale, tra purezza a e corruzione, posture idealizzanti e ideologia, corpo e mente, libido e morte, e altro ancora, sono punti nevralgici di un discorso che non si esaurisce facilmente e apoditticamente, e soprattutto non senza una “semiotica” del perverso che intercetta zone della modernità apparentemente anomiche quanto cogenti per esistenze e coesistenze future.  E Cronenberg è un interprete magistrale di queste zone.

Massimo Triolo

Gruppo MAGOG