“Il sangue versato, la freschezza della luna”. Georg Trakl, poeta del crepuscolo
Poesia
Giulio Solzi Gaboardi
NORMA JEANE
Dalla finestra dell’ospedale vede la neve che ha coperto tutto, e tutto improvvisamente ha preso una tonalità di un verde tenue: l’erba, i cespugli, gli alberi con i loro tristi rami spogli. Eppure gli alberi le hanno sempre infuso un po’ di speranza, con la loro strana nudità: le appaiono come una promessa di primavera.
Oh alberi tristi e dolci – vorrei per voi – il riposo ma dovete vegliare.
C’è una scena, nell’ultimo film che ha girato, in cui abbraccia un albero. Ha appena finito di ballare su una musica jazz, uscendo da quella casa nel deserto, è ubriaca, balla da sola tra le erbacce, finché, arrivata sotto un grande albero, si ferma e lo abbraccia, premendo il viso contro il tronco. Quando risolleva la testa, il suo viso è luminoso e allegro. Da dove ha tratto quella gioia? Una volta il suo maestro le ha detto una frase che non ha più dimenticato:
«Ovunque tu sia e ovunque tu vada porti con te una sorta di luce».
Ma poco prima di abbracciare quell’albero, nel film ha pronunciato una battuta terribile:
«Tutti stiamo morendo. Ogni minuto ci avvicina alla morte. Eppure non ci insegniamo a vicenda quello che sappiamo».
Mai battuta poteva essere più profetica. Era vero, stavano tutti morendo: gli attori che recitavano con lei in quel film, lei stessa, il suo matrimonio, il cinema che facevano. Ma che cosa sapeva lei, che cosa aveva imparato da insegnare agli altri in quei suoi trentacinque anni di vita? Poco, quasi nulla. Che si è sempre soli, comunque sia. Che il proprio fluido prezioso non deve essere mai versato. Che bisogna soffrire. Nient’altro.
La notte scorsa non ha chiuso occhio.A volte si chiede a che cosa serva la notte, dal momento che per lei quasi non esiste, che tutto le sembra una lunga, infinita, orribile giornata.
Sullo schermo di un nero assoluto arrivano ricompaiono le sagome dei mostri che sono i miei più fedeli compagni.
Ma non sono mostri amichevoli. Anche adesso che si sente al sicuro, adesso che è stata liberata da quella prigione in cui l’hanno rinchiusa, sono pronti a materializzarsi di notte i suoi mostri, i suoi fedeli compagni. La depressione è sempre in agguato. È tutta la vita che è depressa, fin dai suoi primi ricordi. Lei stessa, ironicamente, si definisce uno «stimato membro della Borderline Anonimi». È per questo che l’hanno chiusa in manicomio. Per paura che si uccidesse.
Oh Dio vorrei essere morta – assolutamente inesistente – scomparsa da qui – da ogni posto.
Il suicidio è una tentazione costante per lei. Ci ha già provato più volte.
Ci sono sempre i ponti – il Ponte di Brooklyn – no non il ponte di Brooklyn perché amo quel ponte (da lì tutto è bello e l’aria è così pulita).
E se mancano i ponti, ci sono sempre le pillole. Dieci di seconal e dieci di tuonal: le ha mandate giù con sollievo, poco tempo prima. Salvata da una lavanda gastrica. È successo durante le riprese dell’ultimo film. Arrivava sempre in ritardo, impasticcata, ubriaca, preoccupata per il trucco, per i capelli, per le battute che non riusciva a ricordare.
Paura di farmi dare le battute nuove forse non riuscirò a impararle forse sbaglierò penseranno che non sono brava oppure rideranno o mi criticheranno o penseranno che non so recitare. Paura che il regista pensi che non sono brava.
La prima volta che ha sentito parlare il suo maestro, a lezione, lui aveva detto:
«La concentrazione è l’unica barriera fra un attore e il suicidio».
Ma quando lei è davanti alla macchina da presa capita che la concentrazione per lo più vacilli, l’abbandoni, la sua volontà si annulla e allora si sente come se non esistesse e non facesse nemmeno parte del genere umano. È una sensazione che solo lo sherry mischiato agli psicofarmaci riesce a mitigare. Ma a un certo punto il direttore di fotografia ha detto che i suoi occhi erano troppo annebbiati. Dov’era finita la luce? Per questo non ha voluto primi piani mentre gridava nel deserto le sue battute:
«Assassini, bugiardi, assassini… siete felici solo quando potete vedere qualcuno morire, perché non vi uccidete voi?».
Non stava recitando. Gridava e diceva finalmente quello che aveva dentro da sempre, gridava il suo schifo, l’odio per gli uomini che l’avevano sempre usata, ferita, violata, fin da quando era una ragazzina indifesa. Quello non era recitare, quello era vivere. E vivere le faceva male. Per questo dopo il film, tutto si è complicato, e alla fine lei si è chiusa nella sua casa, nella sua camera da letto.
Non sopporto proprio gli Esseri Umani a volte. Non versare il tuo fluido prezioso.
Nel febbraio del 1961 Marilyn Monroe viene ricoverata sotto il falso nome di Faye Miller nell’ospedale della Cornell University di New York. È la sua psicoanalista, Marianne Kris, ad averglielo consigliato, preoccupata per il suo stato di prostrazione, dovute a una serie di avvenimenti che hanno condizionato il suo umore: lo stress per la realizzazione del film The Misfits, diretto da John Huston, gli aborti spontanei, la morte di Clark Gable (una figura paterna per lei), il divorzio con Arthur Miller, la relazione con Yves Montand. Marilyn ha accettato il ricovero inconsapevole, però, che sarebbe stata collocata nella Payne Whitney Clinic, l’unità psichiatrica dell’ospedale. Glielo hanno detto quando l’hanno portata al sesto piano dell’edificio e ha notato che non c’era né un campanello per chiamare le infermiere, né una lampada, né un telefono. Allora è entrata nel panico, ha domandato subito dov’era il telefono, perché voleva chiamare la dottoressa, dirle che si era sbagliata, che lei non poteva starci lì dentro. Voleva che venissero a prenderla. Ma l’infermiera le ha detto che non c’erano telefoni nel reparto ed è uscita a chiamare il direttore della clinica, che appena è entrato le ha rivolto diverse domande. Le ha spiegato che è molto malata, da parecchi anni, e per questo doveva stare lì per prendersi un po’ di riposo.
«Come fa a lavorare quando è depressa? Non interferisce con il suo lavoro?» le ha chiesto, con un tono arrogante, duro.
«Secondo lei – gli ha risposto Marilyn – a Greta Garbo, a Charlie Chaplin, a Ingrid Bergman non è mai capitato di essere depressi a volte quando lavoravano?».
Il direttore le ha poi chiesto perché mai voleva andarsene. Non era contenta di stare lì, dove si prenderanno cura di lei?
«Dovrei essere matta davvero per stare bene qui dentro».
Il direttore l’ha invitata, allora, a fare conoscenza con le altre pazienti e a partecipare alle attività di terapia occupazionale.
«Si può cucire o giocare a dama, ci sono anche le carte e si può lavorare a maglia. Le piacciono i lavori manuali? Le altre nostre pazienti…»
«Io non sono le altre vostre pazienti!»
«Perché pensa di essere diversa?»
«Perché lo sono. Sono diversa e basta».
A questo punto il direttore l’ha salutata con freddezza ed è uscito dalla stanza. E a lei è venuta una tale paura – la paura di finire pazza anche lei, come sua madre, come la nonna e la bisnonna, il terrore di morire rinchiusa in quel manicomio – che ha afferrato la sedia e l’ha sbattuta con violenza più volte contro la finestra, finché il vetro non è andato in frantumi. Ha preso una scheggia di vetro, l’ha nascosta nella mano e si è messa seduta sul letto in silenzio, in attesa che arrivassero gli infermieri. Ma quando sono arrivati (erano in quattro, due uomini e due donne), l’hanno afferrata di peso per le gambe e per le braccia, e l’hanno trascinata al settimo piano con l’ascensore. Qui l’hanno chiusa in una specie di «cella»: una stanza con quattro pareti nude, grigie, con le finestre sbarrate e tutto il resto sotto chiave, lampade, cassetti, bagno, armadietto, con la porta munita di una finestrella per controllare i pazienti dall’esterno.
Ha saputo poi di essere nel reparto per squilibrati gravi, i depressi pericolosi. Si è sentita come in una prigione per un crimine che non aveva commesso. Qualcuno, una paziente del reparto, ha iniziato a gridare. Gridava come se la vita fosse insopportabile. Perché nessuno andava a calmarla, nessuno si preoccupava di alleviare anche solo temporaneamente tutta quella disperazione? Si sentiva persa.
L’unica cosa di cui aver paura è la paura.
La donna ha continuato a gridare, ignorata dai medici e dagli infermieri. Ed è stato allora che lei ha pensato:
«Oh, be’, gli uomini vogliono andare sulla luna, ma a quanto pare il cuore umano non gli interessa».
Dopo quattro giorni di reclusione, Marilyn Monroe riesce a farsi dimettere dalla clinica solo grazie all’intervento del suo ex marito, Joe DiMaggio, che la fa trasferire al Columbian Presbyterian Hospital, sempre a New York, per una breve convalescenza. L’esperienza vissuta al Payne Whitney è stata la peggiore della sua vita. La mancanza di empatia umana e di accudimento e il terrore di restare chiusa in manicomio contro la sua volontà l’hanno segnata profondamente, causandole diffidenza e paura del mondo, ma in quei quattro giorni ha anche imparato qualcosa sui bisogni essenziali dei deboli, dei malati, come lei stessa dichiarerà in un appunto scritto per un’intervista.
Nella confortevole stanza del Columbian Presbyterian, dove resterà ancora qualche giorno, scrive al dottor Ralph Greenson, il suo psicoanalista di Los Angeles, a cui racconta nei dettagli la detenzione all’ospedale psichiatrico. Gli dice anche che sta leggendo un’edizione delle lettere di Freud, e qui riporta un dettaglio curioso. Appena apre il libro, scrive, la fotografia di Freud in prima pagina la fa scoppiare a piangere. Perché? È una foto degli ultimi anni e Freud le appare «depresso». In realtà è solo sfinito dalle sofferenze che gli procura il suo cancro alla mascella. Lei lo sa, gliel’ha detto la dottoressa Kris, ma nonostante ciò afferma di fidarsi del suo intuito ed è convinta che quel volto provato esprima una «triste delusione».
Nella sua breve vita, Marilyn è stata in terapia con cinque psicoanalisti, tutti freudiani, e da un certo punto in poi con due contemporaneamente, uno a Los Angeles (Ralph Greenson) e l’altro a New York (Marianne Kris). La prima terapeuta è stata la slovacca Margaret Hohenberg, che la ebbe in cura dal 1955 al ’57 e la spinse a continuare la terapia con Anna Freud per il periodo in cui Marilyn è stata a Londra, per girare il film Il principe e la ballerina, con Laurence Olivier. Marilyn ha frequentato dunque la casa/studio del fondatore della psicoanalisi, al numero 20 di Maresfield Gardens. La sua cartella clinica, scritta da Anna Freud, la definisce così:
«Emotivamente instabile, fortemente impulsiva, bisognosa di continue approvazioni da parte del mondo esterno; non sopporta la solitudine, tende a deprimersi davanti ai rifiuti; paranoide con tratti schizofrenici».
È stata proprio la figlia di Freud a segnalarle Marianne Kris, la terapeuta di New York, che l’ha presa in cura dopo la dottoressa Hohenberg, per cinque sedute alla settimana, e che l’ha fatta ricoverare poi nella clinica psichiatrica Payne Whitney. Per una che, come la stessa Marilyn ha scritto, sperava in futuro «di poter diventare un esempio splendente dei risultati prodigiosi che la psicanalisi può ottenere», la reclusione in manicomio, le continue ricadute nella depressione e nelle manie suicide, quel perenne cercare la gioia e ritrovarla «vestita di dolore», non potevano che essere vissute come un totale fallimento. Considerato che la dottoressa Kris si era formata con la supervisione dello stesso Freud, che la definì la sua «figlia adottiva», non è difficile, dunque, concludere che da parte di Marilyn attribuire a Freud un sentimento di «triste delusione» era un modo sia per proiettare all’esterno la sua personale delusione verso la psicoanalisi che non riusciva a salvarla dalla depressione, sia per vendicarsi inconsciamente della sua terapeuta, associata al padre della psicoanalisi.
Marilyn è entrata in terapia su suggerimento di Lee Strasberg, il fondatore e direttore dell’Actor’s Studio. «Non essere ansiosa Marilyn vai benissimo e sei bellissima. Ricordati che puoi avere il mondo ai tuoi piedi» le ripeteva spesso. Secondo lui la psicoanalisi l’avrebbe aiutata a esprimersi al meglio come attrice, liberando le emozioni legate al suo passato. Ma il passato di Marilyn è devastante, un campo minato di traumi profondi, violenze e abbandoni.
L’infanzia di ognuno gioca un ruolo per tutta la vita.
È diventata davvero una grande attrice, come prevedeva Strasberg? Probabilmente no, benché Billy Wilder, che la diresse in due film, l’abbia definita un «genio assoluto come attrice comica». Ma è stata qualcosa di più e di diverso. La sua peculiarità, meglio di chiunque altro l’ha saputa cogliere forse Constance Collier, attrice britannica e celebre insegnante di recitazione che ebbe fra le sue allieve molte dive hollywoodiane, tra cui la stessa Marilyn. «Non credo affatto che sia un’attrice, in senso tradizionale» ha detto.
«Ciò che ha – questa presenza, questa luminosità, questa intelligenza a sprazzi – non potrebbe mai emergere su un palcoscenico. È così fragile e sottile che solo l’obiettivo può coglierlo. Come il volo di un colibrì: solo una cinepresa può fissarne la poesia».
In tal senso, per questa sua natura tipicamente ninfale, fragile, allo stesso tempo carnale e fantasmatica, è stata l’attrice più cinematografica che sia mai esistita.
Nonostante l’esperienza traumatica nella clinica psichiatrica, se guardiamo il filmato che la riprende mentre esce dal Columbia Presbyterian, Marilyn appare radiosa come sempre, sorprendentemente incantevole. La stampa e i fan l’assediano mentre lei cerca di raggiungere la sua auto con l’addetto stampa e non smette di donare sorrisi a tutti. Quella luce di cui parlavano Lee Strasberg e Constance Collier è ancora viva, anche se quel «volo di un colibrì» non tornerà più a iridare lo schermo di nessun altro film. Dentro di lei, infatti, nascosta dietro quei sorrisi, la bambina infelice, abbandonata, abusata, sfruttata, sta per crollare, e continua a chiedere aiuto.
Gli ultimi mesi di Marilyn sono una caduta inarrestabile. La fine delle relazioni con Frank Sinatra e con il presidente John F. Kennedy, il nuovo matrimonio di Arthur Miller, la storia controversa con Robert Kennedy e l’ulteriore aborto, il riemerge della balbuzie, il licenziamento dal set di Something’s Got To Give per le continue assenze, e la solitudine, le pillole, le droghe e l’alcol, la perenne depressione, l’insonnia con il ritorno dei mostri sullo schermo nero della notte, tutto contribuisce a farle perdere definitivamente quella concentrazione che ha sempre perseguito invano, quella concentrazione che è «l’unica barriera fra un attore e il suicidio».
Il 5 agosto 1962, prima dell’alba, viene trovata nel letto della sua casa di Brentwood, a Los Angeles, stroncata da un’overdose di Nembutal, 47 pasticche mischiate a una quantità imprecisata di cloralio idrato.
Forte e nuda devi essere – viva – quando guardi la morte dritta negli occhi, aveva scritto nel suo diario – anche se sei piegata dal vento.
Fabrizio Coscia