
Gli scrittori non sanno fare l’amore. Il romanzo “disumano” di Sarr, premio Goncourt
Libri
Linda Terziroli
Giovanna rimane un po’ delusa quando le dico che non ci saranno né video né fotografie. Solo un registratore portatile e la penombra del suo salone. “Peccato”, mormora guidandomi attraverso il corridoio.
La donna vive da sola in una enorme casa a Monteverde vecchio. Un attico.
Va avanti di qualche passo e io la seguo; mi mostra gli oggetti cari e quelli che dovrà un giorno o l’altro buttare. Centinaia di bambole sparse ovunque. Bambole di ogni materiale e tipo: ceramica, pezza, plastica. Bambole a imitazione di bambina e bambole di angeli, bambolotti di neonati e figure religiose. Un sorprendente Padre Pio, versione peluche, sul televisore della camera da letto.
Giovanna non si volta mai. È il mio Orfeo domestico, penso con un sorriso, e io la sua Euridice impacciata.
Impieghiamo, senza esagerazioni, dieci minuti per la visita guidata.
La poltrona su cui siede Giovanna sembra inghiottirla. Sprofondato nella gommapiuma, il suo corpo è ancora più piccolo. Socchiudo gli occhi: ho davanti a me un ragazzino magrissimo, adesso.
Giovanna ha i capelli molto corti. Oggi è il suo compleanno. Ottantatré anni. Ecco spiegato il vestito elegante e il trucco e il rossetto visibili nella penombra.
Per un lungo momento né io né lei sappiamo cosa dire.
Giovanna: In cucina ci sono dei pasticcini che mi ha portato prima la signora delle pulizie. Li vogliamo mangiare adesso?
GG: Come vuoi tu. Per me non fa differenza.
Giovanna: Non so se ne ho voglia. Dopo puoi portarteli via, se vuoi. Oppure li mangio io stasera. Magari al posto della cena. Così vado sul leggero. Oddio, però non so se si digeriscano proprio facilmente. Secondo te? E nemmeno aiutano a mantenersi in forma. Dovrei uscire a passeggiare un po’, per smaltire. Ma fa troppo freddo, vero? Poi, in queste condizioni. Però è da molto che non mangio pasticcini. Almeno un anno, sai? Un sacco di tempo. Non mangio pasticcini dal mio compleanno scorso. A te piacciono i pasticcini? Senti, fammi la gentilezza: li puoi andare a prendere che ce li sgranocchiamo adesso? Mi è venuta proprio voglia e a te?
Giovanna straccia impaziente la carta del vassoio. Sceglie per sé una barchetta alla ricotta. Dà un morso, ma forse non le piace. Così la ripone nel vassoio, cercando di non farsi vedere da me.
“Dai scegli tu per primo”, dice quando si accorge che la sto guardando.
GG: Hai tantissime bambole. Mai viste così tante bambole in vita mia. Mai tutte insieme, almeno.
Giovanna: E non sono nemmeno tutte. Molte altre le ho sistemate nella stanza in fondo al corridoio. Se vuoi, dopo posso mostrartele.
GG: Sono ricordi? Le collezioni?
Giovanna: Le collezionavo, sì. Adesso ho smesso. Vengono da tutte le parti del mondo. Mio marito viaggiava molto per lavoro e tornava sempre con qualche bambola per me. Alcuni pezzi rari li avevo regalati a una cara amica, ma non so se li possieda ancora perché non la sento da molti anni. Infatti, non saprei dire se siamo ancora amiche oppure no. Tu chiameresti amica una persona che non vedi e non senti da molto tempo? Io sì, ma lei? Se la chiamassi potrebbe far finta di non ricordarsi o dire: “Cosa c’è adesso, che vuoi dopo anni?” e mi farebbe troppo male. No, non la chiamerò. Sapeva essere una persona molto dura. Però, vorrei rivedere quelle bambole…
GG: Come mai gliele hai donate?
Giovanna: Perché le piacevano. Perché credevo che, comunque, non avremmo mai smesso di frequentarci. Tra amici è bello farsi regali. Ogni dono è come un segnalibro: tiene il tempo, le date di un’amicizia. Io, di ogni dono ricevuto, ricordo tutto. I discorsi fatti quel giorno, il meteo, il mio stato d’animo… Mettimi alla prova.
GG: Come?
Giovanna: Vai in corridoio e prendi una bambola. Portamela e io ti dico tutto del giorno in cui mi è stata regalata.
Scelgo la bambola più piccola e perciò meno in vista. Una bambina di pezza incastrata fra due sorelle dieci volte più grandi di lei. Me la rigiro tra le mani. Due piccolissimi bottoni a sostituire gli occhi. La schiena lacera.
La mostro a Giovanna.
Giovanna: Te la sei proprio andata a cercare bene, eh.
Giovanna osserva la bambola. Pensa…
Giovanna: Avevo vent’anni. Me la regalò un ragazzo che conobbi a Loreto – ogni estate noi andavamo a Loreto in vacanza. Questo ragazzo voleva che io diventassi a tutti i costi la sua fidanzata. Sapeva che mi piacevano le bambole e ne rubava tantissime alla sorella per darle a me.
GG: Finita lì, poi?
Giovanna: Sì. Io avevo già un fidanzato qui a Roma e non me ne serviva uno a Loreto. Oltretutto, un uomo regala gioielli alla donna che vuole conquistare, mica bambole. Le bambole puoi regalarle quando è già tua. Se vuoi conquistarmi con delle bambole, poi che mi offrirai in futuro? Dico bene?
GG: Però non mi hai raccontato dei discorsi fatti quel giorno, del meteo e del tuo stato d’animo.
Giovanna: Vale se ci penso cinque minuti? Il tempo di una sigaretta. Vieni, mettiamoci in balcone.
Prima di uscire in balcone Giovanna mi fa vedere le ultime lastre che ha fatto ai polmoni. Non ci capisco niente. Quelle macchie – una di queste è molto grande, spaventa la porzione di nero che occupa – sono per me indecifrabili. Le scruto assorto, cerco di sembrare concentrato, esperto. Ma le macchie restano solo macchie. E il male di Giovanna un’intuizione.
Giovanna: Si è espanso, il maledetto. Inizia sempre col farti credere che si stia riducendo. Tu ci credi e ci speri. Poi, quando ci hai creduto e sperato abbastanza, arriva la tranvata. Non può essere operato e gli antitumorali non servono a niente. Ho smesso anche di prenderli, visti pure i problemi che mi davano. Alla mia età posso permettermi tutto.
Dal balcone si gode una vista splendida.
Si vede gran parte del centro storico di Roma. Il panorama si estende fino all’Eur, includendo la Garbatella e l’Ostiense.
GG: Avete sempre abitato qui tu e tuo marito?
Giovanna: Da quando ci siamo sposati nel ’56. Quanti ricordi. I primi tempi incontravo ogni giorno Pasolini che passeggiava su e giù per Donna Olimpia con una rivista o un libro sottobraccio. Credo che avesse appena pubblicato il suo primo romanzo. Non era ancora famosissimo, ma sui giornali già si parlava di lui. Una volta lo vidi litigare di brutto con alcuni ragazzi delle case popolari. Se istigato, alzava le mani senza problemi e succedeva spesso.
GG: Hai mai avuto modo di parlarci?
Giovanna: No, ma mi sarebbe piaciuto. Era un uomo così affascinante… che se fosse capitato… Le foto non gli rendono giustizia.
GG: Capitato cosa?
Giovanna: Ah, niente. Poi a lui non piacevano le donne. Si sapeva già all’epoca.
Giovanna si ferma per tossire. Si porta un fazzoletto alla bocca con entrambe le mani. Al centro del fazzoletto, nello spazio tra un dito e l’altro, si allarga una macchia cremisi. Mi permetto di prenderle un bicchiere d’acqua. Giovanna lo rifiuta. “Tranquillo”, mi rassicura. “È rossetto, mica sangue”. Si accende una sigaretta. Si volta per tossire altre due volte. Riprende fiato. La sigaretta è a metà e Giovanna, senza finirla, la spegne dentro un vaso. Con due dita, la spinge sotto il terriccio.
Giovanna: Dov’eravamo rimasti, prima di Pasolini?
GG: Parlavamo della bambola che ti donò il tizio di Loreto.
Giovanna: Allora. Me la regalò verso la metà di luglio. So per certo che era un mercoledì, perché ogni mercoledì andavo a fare la spesa al mercato e lì mi aveva trovata lui quella mattina. Piovigginava, ricordo. Io avevo un ombrello e lui no. Puoi immaginare come fosse fradicio. Anche la bambola era zuppa e all’inizio non volevo prenderla.
GG: Cosa ti ha fatto cambiare idea?
Giovanna: La pena che provavo nei suoi confronti. Però, negli anni mi sono sempre chiesta che fine abbia fatto. Ha trovato un’altra o mi ha pensato senza pace? E la sorellina a cui rubava le bambole, poi?
Giovanna mi prega di citare il lavoro della sua vita. “Scrivilo nell’intervista”, mi dice. “Scrivi che ho fatto per trent’anni la maestra qui a Monteverde”. Mi nomina alcuni personaggi pubblici che sono stati suoi alunni. Gli aneddoti che lei racconta hanno la grazia del sogno. Come la storia di un bambino sempre triste che una mattina apre la finestra, saluta tutti con la manina e si butta di sotto. Senza morire, ma restando paralizzato a vita.
Giovanna si interrompe spesso per tossire o per accendersi una sigaretta che puntualmente non finisce.
Giovanna: Però è la vecchiaia nel mio caso, ancora più della malattia, a farmi tirare le somme della mia vita con l’ultima lucidità possibile. Nel senso che la malattia è un imprevisto. La vecchiaia te l’aspetti e, aspettandola, ti ci prepari. Esamini, rifletti, pesi e soppesi. A oggi mi ritengo, e a questo punto mi riterrò per sempre, una donna fortunata. Sono felice. Non mi manca nulla.
GG: Nessun rimpianto?
Giovanna: Un figlio. Eh, questa “pancia scema” come la chiamava mio marito. Che ogni volta si gonfiava ma era tutta aria e noi lì, baccalà, a crederci. Due fessi.
GG: Con il tuo lavoro di maestra ne hai avuti a migliaia di figli.
Giovanna: No, non prendermi in giro. Un allievo non potrà mai essere un figlio. Gli vuoi bene, lo educhi e lo aiuti a crescere. Ma non è tuo figlio, non è uscito da te. Con te non condivide nulla e finita la lezione passa ad altro, com’è giusto. Comunque è il mio compleanno e dobbiamo festeggiare. Sul tavolo in cucina c’è una bottiglia di vino rosso. Vai a prenderla: ci facciamo un bicchiere. E prendi anche un’altra bambola, passando per il corridoio. Ho voglia di ricordarmi un sacco di cose.
Gabriele Galloni