11 Maggio 2018

“Tonino Guerra rifiuta tutti i limiti, è il grande aedo moderno, un caso unico”: dialogo con Luca Cesari, che ha curato l’opera ‘monstre’ del poeta dell’ottimismo

Su un punto Vittorio Sgarbi ha ragione. Ma ce n’è un altro da dire. I due volumi, davvero ‘mostruosi’, che radunano con il titolo L’infanzia del mondo le “Opere 1946-2012” di Tonino Guerra (Bompiani 2018, pp.3136, euro 95,00), sono troppo pochi. Tonino Guerra, infatti, è stato, soprattutto, il poeta dalle centinaia di sceneggiature cinematografiche; soprattutto, ha stretto sodalizi artistici e amicali – con Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Francesco Rosi, Andrej Tarkovskij, Theodoros Angelopoulos – che hanno cambiato la storia del cinema, producendo pellicole epocali (da Deserto rosso ad Amarcord, da Blow-Up a Nostalghia, da Tre fratelli a La sorgente del fiume). Ovviamente, il bi-libro che omaggia la potenza lirica di Guerra non può censire la sua attività da sceneggiatore (spesso realizzata a più mani), riferendo soltanto il testo-manifesto di Amarcord, che inventa la ‘romagnolità’ e che esporta l’idea stessa di Romagna nel mondo. Poeta dalle letture solide, ma originario, quasi prometeico, narratore – finalmente i romanzi di Guerra, importanti, ritrovano luce dopo troppo oblio – lirico puro – rispetto all’amico ‘Lello’ Baldini, il cui detto romagnolo è complicato da labirinti beckettiani – Guerra, re Mida del verso – tutto quello che dice si tramuta in slogan, in logo poetico – pare creatura verbale inafferrabile. Amato da critici autorevolissimi (“La varietà del Guerra detiene… qualcosa di barbarico e irsutamente inedito”, Gianfranco Contini) e da scrittori disparati (“Ha la mano discreta e sicura che hanno i sogni”, Italo Calvino; “Tonino Guerra è gogoliano”, Pier Paolo Pasolini; “Per me, Tonino Guerra è un vero, grande poeta”, Elsa Morante), l’oblò migliore per capire Guerra, forse, è quello che ha spalancato Vittorio Sgarbi, con un certo spregio verso la cristalleria dei letterati, nel 2014. “Tonino Guerra è l’unico scrittore del Novecento che ha compiuto una rivoluzione reale, uscendo dall’utopia e realizzandola. Fra tanti sensibili poeti frustrati e fallimentari, egli è il solo che è riuscito ad applicare la poesia alla polis, stabilendo un governo della bellezza”. Ecco. Questo è l’aspetto affascinante di Guerra. La sua poesia ha sempre un impeto ‘politico’. Vuole cambiare il mondo. Bisogna fare un giro in Romagna per capirlo bene. Pennabilli, Santarcangelo, il letto del fiume Marecchia, sono luoghi cresciuti nell’immaginazione di Guerra: le fontane disseminate nei borghi di Romagna – ce n’è una anche a Riccione – i ‘tappeti’ diffusi in spazi ‘benedetti’ dall’impulso lirico del poeta (salite a Bascio, a vedere “Il Giardino pietrificato” per Giotto, Dante, Ezra Pound…), i ‘luoghi dell’anima’. Pensare che certe cose non vanno ‘tutelate’ ma semplicemente contemplate. Soprattutto, in tutti i campi, piaccia o meno, preso in simpatia o in contrasto, Tonino Guerra è stato un genio della comunicazione. Ha capito, ad esempio, che una poesia può convertire i cuori, che un verso s’incide nel cranio ferreo della Storia con feroce delicatezza. Luca Cesari, che ha curato il doppio volume delle opere di Guerra, ci svela il mondo dell’Omero contemporaneo.

Guerra libroIntanto. Collochiamo ‘Antonio’ Guerra (così Pasolini, nei primi ’50, nella sua antologia sui dialettali) nel contesto della poesia italiana. Qual è il suo ruolo e la sua ‘rivoluzione’?

Dal mio punto di vista Guerra è un grande narratore popolare del ’900 che rifiuta il limite. La sua rinuncia a ogni genere, implica la necessità di un supercontenitore come quello che si è creato con questo “classico” che presenta diacronicamente un universo continuo, un desiderio, un atteggiamento, un moto da forma a forma che valica e scarta ogni genere. Il genere è una parte, Guerra è il tutto. Quando parlo di narratore non mi riferisco solo all’autore di prose ma anche al poeta che racconta secondo la tradizione dei creatori antichi, degli scrittori di favole e non dei lirici moderni. Guerra oltrepassa il limite parziale della lirica e si fa moderno aedo, rendendo possibile un incremento della sua potenza di poeta attraverso i mezzi di comunicazione che ne fanno un caso unico. Anche il rapporto con il romagnolo, sinora ricondotto alla linea di demarcazione della poesia dialettale novecentesca, è da riferire all’ordine della funzione narrativa, a una delle sue incassature o scatole cinesi – come Calvino diceva. Il romagnolo (esattamente come l’italiano) ha il compito di rendere intensiva quella emigrazione fantastica nello spazio e nel tempo, entro uno spazio e un tempo alternativi, che l’autore persegue in tutta la letteratura e il cinema che ha scritto, “per riportare gli uomini a una continua infanzia”.

Domanda fatale. Che rapporto c’è tra la poesia di Guerra e la sua sterminata attività da sceneggiatore per il cinema? Questione di ‘sguardo’, di intensità lirica, di ‘mestiere’ (posto che tra i testi per Rosi e quelli per Fellini, faccio per dire, c’è una certa differenza)?

Così come esiste equipollenza tra dialetto e lingua, in Guerra tutto è mescolato, si confonde, la notte con il giorno, l’italiano con il romagnolo, e il senso di contemporaneità di ogni tempo si amalgama con l’intimo di un viaggio di risalita entro sé stesso. Nello stesso modo non sussistono divisori tra letteratura e cinema, per una ragionata convinzione dell’autore: “Il mio è un modo poetico di scrivere anche film e romanzi (…) credo sia tutt’uno”. Vedremo allora piccole storie che hanno il potere di trattamenti cinematografici (a volte testualmente tali), e racconti filmici attuare un vivo legame con i poemi, ad esempio, proprio da un punto di vista stilistico, narrativo.

Cerchiamo di capire qualcosa sull’opera narrativa di Guerra, del tutto dimenticata. Eppure, con I guardatori della luna ottiene un Premio Campiello gareggiando con Anna Banti e Gesualdo Bufalino. 

I testi narrativi di Tonino Guerra (e questa volta mi riferisco esplicitamente al romanzo, al lungo racconto, alle storie di viaggio, alle favole ecc.) sono interamente da riscoprire. A mio avviso sono importantissimi, specie quelli che procedono dagli anni Settanta (I cento uccelliIl polverone) agli anni Ottanta, Novanta, Duemila (I guardatori della lunaLa pioggia tiepidaIl vecchio con un piede in oriente, Piove sul diluvio ecc. sino a Polvere di sole). L’edizione delle opere documenta anche i romanzi neorealisti pubblicati da Vittorini e il dittico dell’alienazione (molto piaciuto ai francesi) L’equilibrio L’uomo parallelo. Senza narrativa non capiremmo la poesia dell’autore, senza poesia non capiremmo la sua narrativa. La tendenza di Guerra è implicitamente quella di moltiplicare, in modo esponenziale, le scatole cinesi passando da una forma all’altra.

Aneddotica. Hai conosciuto Guerra? Che impressioni ne hai tratto? Come ti sei avvicinato alla sua opera?

Sì, l’ho conosciuto evidentemente. Abbiamo trascorso lunghi anni di amicizia (e parzialmente di lavoro assieme: due libri e qualche intervento nel paesaggio); ma soprattutto l’ho ascoltato moltissimo e l’ho letto sempre integralmente, collegando in modo unitario tutto quello che faceva, cosa che poi ho ripetuto nell’ordinare l’ampio e forse un po’ oceanico lavoro di redazione del “classico”.

Il lavoro di Guerra è davvero sterminato. Da dove possiamo iniziare per approcciarlo?

Tutto il libro di Guerra è un racconto continuo e senza soluzione. Ma il buon senso suggerisce, per un autore da riscoprire e valorizzare, di cominciare a leggerlo dalle zone più ombreggiate e meno canoniche, cioè dai poemi e dalle narrazioni del suo terzo e quarto tempo, seguendo semplicemente la struttura caotizzante dell’invenzione del poeta: “Io sono uno che bisogna capirmi al volo (…) preferisco dire un po’ di tutto, quello che mi capita, che mi passa per la testa” (L’equilibrio).

 

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