Odiare Christian Raimo sarebbe tanto semplice quanto inutile. Tra i molti intellettuali organici della Sinistra è forse quello più bonariamente ingenuo. Anche il suo noto post su Facebook, precedente all’esclusione di Altaforte dal Salone del Libro di Torino, era in fondo una voce dal sen fuggita dovuta alla scarsa avvedutezza. Escludere chiunque non sia conforme alla propria idea di cultura è prassi consolidata della sua parte politica. Semplicemente lui l’ha messa nero su bianco senza pensarci, dimenticando quel che insegna il vivere in società, ovvero che certe cose si fanno ma non si dicono.
Ma queste considerazioni generali sul suo conto risultano del tutto secondarie volendo analizzare l’ultima fatica editoriale, Contro l’identità italiana, appena uscita per Einaudi. Ciò che conta – e su cui era difficile avere dubbi ancor prima di leggerlo – è che allo scrittore sta proprio sul cazzo l’idea di avere un’appartenenza forte. Si tratta di un’idiosincrasia, un’avversione contro la quale non si può combattere – poco importa quanto si sia intelligenti, o cretini. E non si può neanche dire che non affastelli tutta una serie di ragioni, citazioni e tesi delle più disparate a sostegno della sua. Del resto, la cosa più incredibile dell’Uomo, immerso in un mondo di parole e narrazioni, è che troverà sempre qualcuno che in un libro, ricerca, statistica e via dicendo abbia portato argomenti a favore della propria visione delle cose. In ultimo, le nostre idee dipendono da valori che fanno capo alla storia personale di ognuno – quasi mai, volendo essere onesti, invece, sono le idee a generare dei valori, piuttosto questi ultimi vanno a caccia delle prime per rinforzare la loro struttura.
Nella consapevolezza dunque di questa insanabile distanza emotiva, di un noi che si contrappone inconciliabile a un loro, si può comunque tentare un’analisi delle posizioni avanzate nel breve saggio. Il problema fondamentale di Raimo è ritenere erroneamente che identità sia sinonimo – anche in chi è animato dalle migliori intenzioni – di fascio-leghismo del più becero, “celodurismo”, maschilismo, maniacale chiusura tra consanguinei, ingiustificato senso di superiorità razziale e conseguente respingimento di tutto ciò che è Altro da sé. Insomma, dal Risorgimento al Fascismo il passo sarebbe breve, a suo dire. La cosa, sempre a suo avviso, risulterebbe ancora più ridicola in Italia date le fratture dovute ai vari particolarismi, regionalismi e campanilismi. Naturalmente, questa visione fa acqua da più parti e non può essere usata contro i sovranisti per dar loro dei nazifascisti. Il fatto che tutti i fascismi si richiamassero al sangue e al suolo (o terra) non implica necessariamente che chiunque utilizzi tali concetti sia un SS vestito in borghese per passare inosservato. Ognuno di noi è sardo perché non è campano, è italiano perché non è tedesco o francese. L’identità si costruisce sempre, in negativo, per contrapposizione. L’identico implica il diverso, ma non la sua esclusione. Neppure però appare auspicabile la notte dell’identità in cui tutte le vacche sono nere, o peggio ancora in cui non si capisce neppure se si tratti di vacche o cavalli. L’Italia esiste nelle diversità e comunanze che ne costituiscono la sua ricchezza – il napoletano è napoletano, come il milanese è milanese, pur essendo entrambi italiani. La nostra è una somiglianza nella differenza. Ognuno ha la sua terra, che è un po’ come il suo destino. Da essa è ineluttabilmente forgiato e porta questa sua irriducibile unicità come contributo comune al Paese. Ciò malgrado l’internazionalismo straccione per sradicati voglia decantare la bellezza del fare il lavapiatti laureato, a Londra. Chi non si sente italiano vada pure in quella terra che appartiene a tutti perché non è di nessuno.
Ma a prescindere da questi discorsi sui quali non ci può essere incontro con l’altra parte, il motivo latente di questo pamphlet è presto chiarito: “La storia dei popoli nel presente e nel futuro è sempre piú una storia di movimenti e di diaspore. Legare le identità culturali e nazionali ai territori non è solo una prospettiva politica regressiva, ma è un errore ermeneutico sempre piú grossolano”. Insomma, sì all’immigrazione senza se e senza ma. Su un punto però, paradossalmente, ha ragione il saggista: oggi come oggi chi arriva non ha bisogno di rimpiangere il suo “spazio culturale e antropologico”, perché lo ricrea in qualsiasi paese chiudendosi entro un’enclave. È, infatti, ridicolo parlare di integrazione. Si possono integrare delle persone, non interi popoli, per dirla con Jean-Louis Harouel, in I diritti dell’uomo contro il popolo (Liberilibri): “L’immigrazione extra-europea è ormai costituita non più da individui ma da popolazioni. Ma, se gli individui possono integrarsi, le popolazioni non si integrano […] L’esistenza di vaste diaspore toglie agli immigrati ogni bisogno di entrare in contatto con le società europee, dal momento che essi hanno ricostituito sul suolo europeo la loro società d’origine con i relativi usi e codici […] formano sul suolo europeo degli insiemi nazionali extra-europei, la cui identità è costantemente conservata e stimolata dal flusso continuo dei migranti provenienti dai Paesi di origine”.
L’autore di Contro l’identità risponde alla visione avanzata da chi la pensa come Harouel sostenendo che la dimensione originaria non è quella identitaria, “ma al contrario quella della coesistenza”. Premesso che la coesistenza, come avviene anche tra i diversi italiani (del Nord, del Sud, del Centro, vicentini, romani, salernitani), non implica la scomparsa dell’identità originaria – che per quel che ci riguarda converge verso la più ampia identità italiana –, resta un gravissimo problema aperto. Idealmente la coesistenza è bellissima. Bisognerebbe capire se sia realmente possibile. Siamo sicuri che la società, volente o nolente, secolarizzata, post ’68, sessualmente liberata, possa convivere serenamente con una cultura che predica la lapidazione degli omosessuali o in cui il marito impone alla moglie di vestire con un tendone da circo? Qui siamo molto oltre la cosiddetta omofobia – che solo in rari casi conduce a conseguenze estreme e la quale, soprattutto, non può essere rimossa per legge – e il bigottismo, in realtà piuttosto lassista, della Chiesa.
Sarebbe interessante replicare anche in merito ad altri punti in cui si manifestano le tante manie e pericolose ossessioni intellettuali di Raimo, ma ci vorrebbe un controsaggio. Cosa pensare di uno che scrive “in Italia il numero di donne professoresse universitarie è infinitamente piú basso di quello degli uomini. E il numero di donne nere che sono professoresse è pari a uno. Ed è evidente che le responsabilità del mondo accademico sono cosí gigantesche perché non sono responsabilità solo del mondo accademico”? Una logica da quote rosa che prescinde dalla qualità per focalizzarsi sulla quantità è stomachevole! Ci si potrebbe interrogare per capire se l’autore creda realmente in ciò che dice e, se così dovesse essere, meglio non saperlo.
Matteo Fais
P.S: Se non fosse ancora abbastanza chiaro e a scanso di equivoci, il presente articolo non costituisce un invito a non leggere il testo di Christian Raimo, a bruciarlo, né tanto meno ad aggredire fisicamente l’autore. Qualsiasi libro è un arricchimento, seppur in negativo. Il pensiero nasce dallo scontro e l’avversario dialettico è la pietra su cui va affilata la propria spada. Si possono anche respingere degli uomini alla frontiera, persino spianando i mitra, se si ritiene che possano risultare lesivi nei confronti della società, o peggio ancora della propria incolumità, ma non si possono trattenere le loro idee. Proprio come si diceva, l’identità, anche quella di pensiero, si costruisce per opposizione.