A volte mi capita di pensare a tutto quel tempo perduto in chiacchiere, in nulla senza scopo. Quanto tempo sprechiamo durante la nostra esistenza? O, meglio, quanto tempo impieghiamo nel modo sbagliato? Trascorrere un pomeriggio d’ozio, in solitudine, sfogliando un libro o cento libri diversi senza mai leggerne uno, o guardando un film o semplicemente senza far nulla, non significa sprecare il tempo. Anzi, è tempo prezioso, ben speso. Penso piuttosto alle poderose seccature come starsene in fila da qualche parte, aspettare il proprio turno qui, là, ovunque; o dover stare a sentire le lamentele di qualcuno, le lezioncine impartite da conoscenti o sconosciuti. Quanto tempo sprechiamo per difenderci dal continuo inutile chiacchiericcio vuoto di certe persone, a quattr’occhi, per telefono, dentro la televisione, sui social network? In questo quotidiano assedio che erode instancabilmente il nostro tempo, mi torna alla mente ciò che i servi ne I signori Golovlëv (Quodlibet, 2014) dicono del loro ultimo padrone, quel padrone che con astuzie e vigliaccherie è riuscito a impadronirsi del patrimonio (e delle anime) della famiglia, nonostante la propria inettitudine. Di quest’uomo i suoi servi dicono:
«È capace di far marcire un uomo con le parole».
Questo tremendo ma indimenticabile personaggio che tiranneggia con la sua figura scura, sempre in preghiera, con una pedanteria inimmaginabile è uscito dalla penna di Saltykov-Ščedrin. Questo nobile possidente è davvero capace di imputridire cose e persone, soprattutto attraverso la parola, le conversazioni, i convenevoli. Rappresenta alla perfezione la fine dell’aristocrazia russa, una cancrena che la rivoluzione, vien da dire, si è limitata a tagliar via con l’accetta.
Questo ultimo Signor Golovlëv, non a caso soprannominato “piccolo Giuda”, non è intelligente, è solo un po’ furbetto e sa come usare le parole per confondere e intrigare, o semplicemente per annoiare a morte. Spesso si perde in discorsi vani, senza alcun nesso, come imbastire un’intera conversazione su quanto avrebbe reso un terreno se fosse stato più grande o più piccolo, più a est o più a ovest; o in semplici banalità, come parlare del freddo, del caldo, della pioggia, della neve o del passato che non tornerà più. Questo piccolo Giuda è devotissimo, non perde tempo per ricordare agli altri i precetti del Vangelo, le usanze religiose, le ricorrenze; passa più tempo a pregare le icone che a dormire, ma le sue preghiere si sono trasformate in un vuoto formulario che alimenta un vaniloquio senza fine. Queste preghiere e invocazioni continue hanno i contorni sfumati delle parole ripetute fino alla nausea: un po’ alla volta perdono il loro significato e si trasformano in suoni, rumori. In questo suo continuo parlare e genuflettersi, il Signor Golovlëv ha dimenticato proprio il Vangelo:
«Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi?»
(Mt, 12,34)
Questa decomposizione è un po’ quello che accade alle classi sociali incapaci di vedere il cambiamento e quindi di rinnovarsi. È privilegio tutto della nobiltà quello di essere così deliziosamente anacronistici, lontani dalla realtà al punto da impreziosire le favole di ogni popolo, di ogni tempo. A volte, tutto questo chiacchiericcio, questo continuo parlare e confrontarsi, questo dire la propria anche quando non si ha nulla da dire, assume i tratti di una confessione non richiesta, ma di cui la gente sembra avere un disperato bisogno. Queste parole che ammorbano l’aria con un discorso mai finito, nel privato tra amici e conoscenti, nel pubblico tra politici, giornalisti e opinionisti, mi pare tenda a far marcire gli uomini.
Penso alla famiglia Golovlëv e a come, per colpa di avidità e chiacchiere, sia finita lentamente nel marciume portando alla tomba i suoi componenti uno dopo l’altro, come segnati da quel terribile marchio di cancrena. Mi domando se anche la nostra società non stia anch’essa affondando in una palude di inutili, letali chiacchiere, sulla soglia di un cambiamento epocale che non riesce a scorgere.