Nella violenza del Mistero. Flannery O’Connor: le sue storie fanno a fette i falsi moralismi
Letterature
Silvano Calzini
Tell me the tales,
that to me were so dear,
long, long ago,
long, long ago.
Basterebbe questo ritornello, ripetuto più volte nelle pagine di La casa bianca, per capire lo scrittore danese Herman Bang (1857-1912), attore fallito, regista teatrale, giornalista, personalità sensibile, inquieta e oggetto di aspre polemiche per la sua esplicita omosessualità che lo porteranno a trascorrere gran parte della vita all’estero.
All’unanimità definito un maestro del decadentismo nordico e dell’impressionismo letterario per la straordinaria capacità di sapere cogliere con la sua scrittura l’attimo, il dettaglio, la coloritura di una voce. Per Bang gli atteggiamenti, le mimiche e le modulazioni delle voci sono da considerare come specchi delle emozioni. I comportamenti dei personaggi sono visti, secondo una definizione da lui stesso coniata, come “spioncini” attraverso i quali si possono scorgere i pensieri più autentici e nascosti. La tecnica impressionistica al posto di un’abbondanza di dettagli porta Bang a focalizzare l’attenzione su pochi elementi significativi che possono dare un’impressione generale. Il dettaglio per il totale. Lo scopo finale è quello di permettere ai lettori di vedere e sentire con i propri occhi e le proprie orecchie, senza doversi affidare alla mediazione di un narratore.
A guardare bene i libri di Bang, da Generazione senza speranza a La casa bianca e La casa grigia passando anche da Lungo la strada e I quattro diavoli hanno tutti l’impianto e il respiro breve del racconto più di quello del romanzo. In questo ha giocato senz’altro il suo grande amore per il teatro che tra l’altro lo farà diventare amico di Eleonora Duse e Sarah Bernhardt. Non a caso lui stesso ha definito le sue opere “romanzi scenici”, in quanto mostrano più che raccontare. A Bang non interessa tanto costruire una cattedrale narrativa, quanto semmai presentare dei personaggi e lasciare al lettore il compito di cogliere le sfumature psicologiche, di capire che cosa accade dentro di loro, di studiare i dialoghi e di farsi delle domande.
Il libro di Herman Bang che amo di più è La casa bianca pubblicato nel 1898, di chiara ispirazione autobiografica, dove si respira un’atmosfera di nostalgia e tutto appare velato da una patina di malinconia come si evince già dall’incipit:
«Giorni di infanzia, vi voglio richiamare, tempi ignari di malignità, tempi gentili, di voi voglio rievocare i ricordi.
I passi leggeri di mia madre risuoneranno per le stanze luminose e coloro che ora sopportano mesti il fardello della vita sorrideranno come chi non è consapevole della propria sorte».
Il titolo si riferisce alla canonica dove l’autore ha trascorso i primi anni della sua esistenza e i personaggi sembrano essere continuamente logorati da quella che Claudio Magris ha chiamato “la silenziosa malinconia della vita”.
Bang racconta un anno dentro questa casa, scandito dai ritmi delle stagioni e della natura, dai raccolti, dalle feste religiose, e presenta un microcosmo fatto di vicini pettegoli, di zitelle spilorce e di zie impiccione. Al centro del romanzo la figura della madre, una donna sensibile, irrequieta, inevitabilmente destinata all’infelicità, dall’aspetto stanco e un po’ trasognato che sembra aggrapparsi ai figli e al rapporto con la musica e la natura per riuscire a sopravvivere in qualche modo a un’esistenza arida e carica di sofferenza.
Il marito, un pastore protestante, è il suo esatto contrario: austero, distaccato, silenzioso, sempre chiuso nel suo studio; nel corso del libro fa solo delle rapide comparsate durante le quali pronuncia brevi e laconiche battute che però hanno dei sottintesi che aprono squarci di luce su quello che è il suo concetto di vita e sul rapporto con la moglie.
Come già accennato, Bang ebbe una vita non facile e si sentì sempre oppresso dalle banalità del quotidiano da un lato e vittima delle ipocrisie di una società bigotta dall’altro. Questo breve romanzo è chiaramente una forma di difesa. Vuole tornare sui luoghi della sua infanzia e cerca in tutti modi di mantenerne viva la memoria. Un mondo ormai lontano ma sempre rimpianto che per lui diventa un rifugio dalle sconfitte della vita. E la vita che cos’è se non una lunga sconfitta.
“Tell me the tales,
that to me were so dear,
long, long ago,
long, long ago”.
Silvano Calzini