31 Gennaio 2019

“Capacità tecnica e sensibilità musicale vanno unite a un pensiero profondo e a uno studio rigoroso: solo così si può accedere ai segreti dei capolavori”. Francesco Consiglio incontra il pianista Filippo Gorini

Secondo Honoré de Balzac, “ogni ora perduta durante la giovinezza è una possibilità di infelicità per l’avvenire”. Lo scrittore di Tours, parigino d’adozione, vuole forse suggerirci che non è ragionevole amare i giovani a prescindere, lasciandosi trascinare dalla nostalgia per quel periodo di speranze che non conoscono incertezze o introspezioni. La gioventù è un tesoro che si può colpevolmente perdere, a volte per pigrizia, a volte per uno smisurato amor proprio. “Se vuoi essere grande”, diceva un saggio illuminato, “comincia a farti piccolo. Se vuoi erigere l’edificio del tuo successo, costruisci prima le fondamenta dell’umiltà”.

Filippo Gorini è una sicura promessa del pianismo internazionale, ma nonostante la giovane età ha già capito che il talento da solo non vale molto se non è accompagnato da umiltà e predisposizione al duro lavoro. Mi darete certamente ragione dopo avere letto le sue risposte pacate, i concetti stringenti e limpidissimi, la semplicità con la quale ha raccontato sé stesso, il presente, il futuro, l’amato Beethoven, senza cadere in nessuna tentazione di tipo intellettualistico.

Dopo essersi diplomato con lode e menzione d’onore al conservatorio ‘Donizetti’ di Bergamo, Filippo ha calcato palcoscenici importanti in Italia e in tutto il mondo. Si è esibito con orchestre quali la Klassiches Philharmonisches Orchester di Bonn, la Beethoven Orchester di Bonn, l’Orchestra Haydn di Bolzano, la Philharmonisches Orchester Vorpommern, l’Orchestra Sinfonica del Liechtenstein, la Westdeutsche Sinfonia, l’Orchestra Nazionale Slovacca, la Filarmonica Gyeonggi. Il suo disco d’esordio, le Variazioni Diabelli di Beethoven, ha ricevuto elogi unanimi dalla critica, tra cui il premio Diapason d’Or, e recensioni su The Guardian, Le Monde, BBC Music Magazine, Gramophone.

La parola ‘tecnica’ deriva dal greco téchne che significa ‘arte’, non come la intendiamo oggi ma nel senso di saper fare una qualsiasi attività manuale o intellettuale. Un pianista che riesce a padroneggiare le diteggiature più difficili e suona con velocità e scorrevolezza, è solo per questo un buon pianista? O esistono altre imprescindibili doti che non possono essere definite senza fare ricorso alla categoria del sentimento, quella capacità spontanea di trasmettere l’essenza di un brano musicale?

Da sole, velocità, scorrevolezza e potenza possono al massimo destare ammirazione in un ascoltatore. Sono però solo un mezzo necessario per il passaggio successivo, che è la capacità di commuovere, di suscitare le sfumature più varie dell’animo umano, dalla fragilità alla gloria, passando per gioia, dolore, tenerezza. Basta ascoltare un’esecuzione MIDI di un qualsiasi brano di Beethoven per rendersi conto di quanto le note giuste da sole siano insufficienti a tale scopo. La sensibilità musicale è sì spontanea, ma anche e soprattutto coltivata e raffinata negli anni di studio. Se trascurata può facilmente scadere in cattivo gusto. Nell’interpretazione complessiva di un brano musicale, la propria capacità tecnica e sensibilità musicale vanno unite a un pensiero profondo e uno studio rigoroso: solo così si può accedere veramente ai segreti dei capolavori.

Nel 2017 hai inciso le Variazioni Diabelli di Beethoven. Quest’insieme di variazioni per pianoforte sono l’esemplificazione di un’opera alchemico-musicale: Beethoven prende un insignificante, meccanico valzer e lo trasforma in una meraviglia musicale definita dal pianista e poeta austriaco Alfred Brendel, “la più grande di tutte le opere per pianoforte”. Mi chiedo se un interprete possa aspirare a continuare l’alchimia trasformando le Variazioni in un oro musicale ancora più lucente o se debba, per rispetto del geniale compositore, limitarsi a trattare lo spartito come una musica esatta.

Beethoven opera una trasfigurazione estrema del materiale musicale, conducendoci tramite un lungo viaggio agli spazi celesti del minuetto finale. Il compito del pianista che esegue il brano è rendere esperienza viva questa trasfigurazione che di per sé è solo sulla carta. Nel fare questo, le indicazioni in partitura di Beethoven sono la via maestra, perché racchiudono tanto quanto le note la sua sapienza musicale. Ma queste indicazioni non sono mai esatte: non sono numeriche, scientifiche, non vi è scritto quanto crescere o rallentare in alcun punto. Seguendo fedelmente Beethoven sono ancora possibili un’infinità di interpretazioni diverse e coerenti che attingono alla sensibilità individuale, allo strumento a disposizione e alle contingenze del momento per creare poi la magia dell’esecuzione in concerto.

Fermo restando che dovremmo sempre preferire un buon pianista che suona su un cattivo pianoforte a un cattivo pianista che suona su un buon pianoforte, credo che ognuno abbia una marca e un modello che vorrebbe trovare sul palcoscenico prima di un’esibizione. È così anche per te?

Tendo a preferire i pianoforti Steinway, anche se oggi c’è molta valida competizione, e spesso il tecnico che prepara il singolo strumento può influire più della marca in sé. Uno Steinway preparato male può facilmente essere scadente, e uno Yamaha preparato meravigliosamente può diventare uno strumento divino. Ci sono anche poi questioni di repertorio: il suono scuro e pastoso di un Bösendorfer difficilmente si adatta alla musica francese o clavicembalistica, per cui un Fazioli è invece perfetto. Detto ciò, tuttavia, sui migliori Steinway (ad esempio preparati da Fabbrini) mi sono trovato generalmente in grado di suonare tutto, e in particolar modo di ottenere esattamente quello che volevo in Beethoven.

L’italiano è stato per secoli la lingua della musica. L’origine della parola pianoforte è italiana, e così le denominazioni degli strumenti a corda, a fiato e a tastiera: fagotto, flauto, viola, violoncello, clavicembalo. Le grandi opere di Mozart sono quasi tutte in italiano, e in Europa si è a lungo parlato disinvoltamente di aria, coloratura, appoggiatura, cadenza, scherzo, trillo e tante altre parole simbolo del cosmopolitismo musicale italiano. Sono curioso di sapere se quando ti esibisci all’estero avverti l’orgoglio di appartenere all’unica nostra tradizione artistica che ha tenacemente resistito al dominio della cultura e della lingua inglese.

Sapere spontaneamente il significato di tutti questi termini sicuramente mi aiuta molto nella comprensione della musica, e data la ricchezza e raffinatezza dei termini italiani sono contento che si mantengano. Non sono sicuro di essere orgoglioso in senso stretto, ma ne ho una certa soddisfazione. Sono più orgoglioso della storia musicale del mio paese e del livello dei suoi musicisti, che ancora si fanno notare a livello internazionale. C’è però un grande divario da colmare con urgenza tra il livello dei nostri musicisti e la consapevolezza che se ne ha pubblicamente, con una grave mancanza di istruzione globale in termini di musica. Su questo occorre lavorare.

Nel maggio scorso sei stato chiamato a sostituire il settantunenne pianista Murray Perahia, pianista e direttore d’orchestra statunitense, in un recital alla Sala Verdi, nel Conservatorio di Milano. Immagino che tu lo abbia vissuto come una sorta di superamento della linea d’ombra di conradiana memoria, quella che ci avverte di dover lasciare alle spalle le ragioni della gioventù e, nel tuo caso, da giovane talento ti avrebbe fatto diventare un protagonista della scena musicale.

È stato un concerto molto importante, ma ho cercato di non pensare più di tanto a cosa rappresentasse a livello di carriera o immagine, e invece di prepararmi al meglio e suonare come sempre. Sicuramente mi ha concesso molta visibilità, ma non sono ancora un protagonista della scena musicale, e credo che più che una occasione prestigiosa singola sarà eventualmente un lungo percorso costruito in modo solido che potrebbe permettermelo.

Infine, la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro?

Mi attendono molti concerti importanti al termine di queste vacanze invernali: dalla Tonhalle di Zurigo ai debutti in America e Canada, e un importante tour con l’Orchestra delle Fiandre in Inghilterra, l’invito della Fondazione Louis Vuitton di Parigi, Schubertiade in Austria e il Secondo Concerto di Brahms con la Verdi a Milano a maggio, per dire solamente le cose più importanti. A marzo inoltre registrerò un altro disco, che uscirà a fine estate o inizio autunno. Andando più in là nel tempo, il progetto è sempre quello di cercare di suonare al meglio la musica che più amo. In particolare nel 2020, anno beethoveniano, aggiungerò altre sue opere al mio repertorio. Spero inoltre di completare lo studio dell’Arte della Fuga di Bach per il 2021.

Francesco Consiglio

*In copertina: Filippo Gorini in una fotografia di Tom McKenzie

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