
O tutto o niente. Il talento non accetta compromessi. Il talento è suicida
Politica culturale
Andrea Temporelli
Estate 1946, Mar del Plata; ardita, enigmatica, cinquantenne, così rievoca l’evento: “avevo appena letto Caligola, l’opera di uno sconosciuto che mi pareva di conoscere da sempre. Cominciai a tradurla”. Roger Caillois, amico intimo da anni, fa da intermediario, ottiene il permesso per la pubblicazione. Albert Camus sbarca su “Sur”, mitica rivista argentina, nel numero di marzo del 1946. È il pezzo forte della rivista. Insieme a lui, il Sumario della rivista promette un testo di Gabriela Mistral e uno studio sulla Psicología del cinematógrafo di André Malraux. “La passione per l’impossibile, per un drammaturgo, è oggetto di studio inevitabile, valido quanto l’avidità e l’adulterio”, aveva scritto Camus, introducendo l’edizione statunitense delle sue opere teatrali. Per Victoria Ocampo, aristocratica Circe della letteratura argentina, che, per contrasto, amava l’artificio e l’assurdo, il nulla con i fiocchi, queste parole avevano profilo di tigre.
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Il rapporto si consolida: a giugno, stesso anno, “Sur” apre con Cartas a un amigo alemán – così in traduzione – di Camus. Victoria pensa che l’uomo valga un viaggio: Albert è a New York, per l’ennesima conferenza, lei lo raggiunge. Viso squadrato, occhiali triangolari, cappello micidiale, si fa largo tra la folla, è al suo cospetto: “Piacere, sono il suo traduttore. Sur, Buenos Aires”. Per eleganza, preferì non dire che di “Sur” lei era il direttore, l’editore, il proprietario, quello, cioè, che ci metteva i soldi oltre alla testa. Camus la squadra: la raffinatezza aurea della donna ne cela l’età – 23 anni più grande di lui. “Assediato dalle donne, di ogni età, Camus avrà pensato che le attenzioni della Ocampo nei suoi confronti non fossero soltanto intellettuali…” (Eduardo Paz Leston). La città è corrosa dalla pioggia – quando piove, lo sanno tutti, tutto è lecito. Alla fatata – e ricca – Ocampo, mecenate illuminata, Camus dedicherà un testo lirico (diremmo, retorico), Pioggia a New York. “Ho amato New York, di quell’amore forte che può lasciare pieni d’incertezza e di risentimento: capita che si abbia bisogno di esilio. E l’odore stesso delle piogge di New York ti insegue allora in fondo alle città più armoniose e familiari, per dirti che al mondo c’è almeno un luogo di disimpegno, in cui, con tutto un popolo e per quanto si vorrà, ci si potrà finalmente perdere senza mai ritrovarsi”. Non disdegnava la fama, lo scrittore, la bellezza, la carne.
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Nei suoi Taccuini, 1947: “Victoria Ocampo va a Buckingam Palace. All’ingresso, la guardia le domanda dove va. ‘A trovare la regina’. ‘Passi’. Gli appartamenti della regina. ‘Prenda l’ascensore’. Ecc. Viene ricevuta senza altra formalità”. In sintesi: alla Ocampo tutto è permesso, è donna dalle infinite relazioni, dalle tentacolari qualità. A mo’ di amuleto e di omaggio, a sancire la soglia di un’amicizia, Camus fa pubblicare da Gallimard il saggio che la Ocampo dedica a Lawrence d’Arabia, 338 171 T.E. Il libro esce con una bandella ardita, le héros de notre temps; lo stile della Ocampo è esotico: “Vestito di bianco come un arabo, con un pugnale alla cinta, T.E. Lawrence, roso dal deserto, dice ai suoi uomini che l’umanità chiama fallimento la libertà accordata da Dio… Come Arjuna, Lawrence non desidera più la vittoria, il potere, il piacere, è al di là di ogni sensazione”. La Ocampo divulga ai quattro venti e ai molti amici dettagli della sua amicizia con Camus: insieme hanno vagato per il Canada, sono stati a Parigi; di lei, nei suoi diari, Camus non scrive – ma sorride sempre.
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In ogni caso, l’amicizia sarà fruttuosa: nel 1947 è “Sur” a tradurre e pubblicare in anteprima un capitolo de La peste, che sarebbe stato edito dalla Editorial legata alla rivista. In quello stesso numero, dedicato alla letteratura francese, vengono pubblicati André Gide, Malraux, Paul Éluard, Francis Ponge, Julien Gracq. La Ocampo continua a tradurre il teatro di Camus: Requiem para una reclusa, tratto da Faulkner, nel 1957; Los poseídos, nel 1960, da Dostoevskij. Un tomo edito da Sudamericana raccoglie la Correspondencia (1946-1959) che lega Camus alla Ocampo.
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Il 27 agosto del 1946, lei a Camus. “Ieri, in una libreria insignificante, a Deauville, trovo uno Zarathustra, lo apro, leggo questo passo. Lo leggo come se fosse stato scritto per me. ‘Oh, solitudine! Tu, patria mia, solitudine! È passato troppo tempo da quando ho vissuto selvaggiamente, in paesi selvaggi, e ora torno a te con le lacrime agli occhi!’; ‘Una cosa è l’abbandono, l’altra, distinta, la solitudine… tra gli uomini sono sempre strano, selvatico’. I libri sono pieni di cose che avrei potuto dire io. Dunque, mi dico: non vale la pena scrivere! E sottolineo le pagine, come se fosse sufficiente. Torno a Parigi, contro la mia volontà, il mio fiuto, i miei polmoni, contro tutto, domani. Spero di vederti, allora”. Quella della Ocampo è una vita tra i libri: l’odore della realtà è inqualificabile.
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Infine, nel giugno del 1949, Albert Camus è in Argentina. Il viaggio è funestato dal disastro: Lo straniero è bandito dalla censura, in Argentina domina Perón. Camus preferisce la barca, approdando in Brasile; poi è a Montevideo, dove tiene una conferenza. Il 12 e 13 agosto è a Buenos Aires, da lì in aereo va a Santiago del Cile. Prevede di parlare, in pubblico. Tema: “Libertà di espressione”. L’ambasciatore francese in Argentina lo avverte che il testo della conferenza deve essere bollato e ammesso dai censori peronisti. Lo scrittore annulla la conferenza. A proteggerlo, la Ocampo. “Camus sapeva perfettamente con chi stare, qui e in altre parti del mondo. La sua coerenza era limpida. Ha capito che l’Argentina, in quel periodo, era appestata da una piaga che minava il nostro organismo morale”. Per due notti Camus fu ospite a Villa Ocampo, “vorrei dormire qui fino alla fine del mondo”, annota. Il primo giorno, la Ocampo ostenta il suo ospite, un trofeo, a una quarantina di intellettuali argentini; il giorno dopo i due restano soli. Ascoltano Britten, leggono Baudelaire. “La lotta comincia a esaurirmi, c’è una specie di pace provvisoria in questa casa”, scrive Camus. Lei era certa che un libro potesse rovesciare un governo – ma in fondo, che valore ha una nazione rispetto a un sonetto?
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“Il 4 gennaio ero a New York, da sola. Era tardi. Il telefono suona. Una voce, dall’Argentina. ‘Immagino che sarà distrutta…’. Da cosa? ‘Non ha sentito la radio… Camus…’. Il nome mi bastò. Come? Dove? Interruppi la comunicazione. Dicono che piovesse, quel giorno, dall’altra parte dell’Atlantico, in Francia, in quella strada punteggiata di platani. Cosa hai pensato in quell’ultimo istante? Cos’hai sentito? La morte l’hai presa come una disgrazia o come una liberazione? La tua assenza ci lascia senza verbo. Quella notte, a New York, la solitudine fu doppia. L’uomo infestato di sogni, l’uomo travolto dall’infezione divina, non come gli sciamani ubriachi di fumi… lucido, statuario, ha mantenuto limpida la visione, nel vento meridiano. Ho visto Albert Camus. Vivrà sempre in me”. Così Victoria Ocampo, era il 1960. Morì nel gennaio del 1979, neppure lo strazio ha scalfito la sua eleganza, connaturata. (d.b.)