07 Ottobre 2019

Il pallonetto/ Il campionato di calcio più bello degli ultimi anni, ovvero: Conte contro l’abisso e la restaurazione dell’Ancien Régime

Per chi pensasse che la partita del Meazza fosse solo una partita, che all’interno di quella sfida ce ne fosse solo una, beh, si sbagliava di grosso. Non era solo Inter-Juventus, due modi di intendere il calcio, e di conseguenza tutto il resto; non era solo la sfida tra le migliori difese d’Italia; o di Dybala contro Lukaku, che si sono accarezzati la mano quest’estate senza portare lo scambio alle sue estreme conseguenze; non era la sfida di Higuain, il Nove contro il fato; non solo la scommessa del Sarriball; non era solo la Juventus allo specchio contro il suo passato, contro le due gemme del forziere torinese, Conte & Marotta, che si sono andate a incastonare nella gioielleria targata Evergrande – era soprattutto l’Epopea dell’astro (a proposito di stelle) Antonio Conte.

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La sfida, quella vera, quella letteraria, era questa. Conte contro il suo passato, Conte contro il suo branco, Conte contro l’abisso, quello che si è creato da solo, convinto di poterlo scavalcare, colmare, sublimare, ghiacciare e dominare. La scommessa di un uomo, non partito per necessità, come Enea, non spinto dal desiderio di tornare a casa, come Odisseo, ma spinto dal desiderio di saggiarsi, di mettersi alla prova, di dimostrare di essere il più forte, il migliore, come Achille – L’unico dei 3 che perirà.

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Il senso della serata sta tutto nella domanda di Alessandro Alciato, bastarda e capziosa, ma l’unica domanda sensata in una rete di banalità – sostanzialmente: “Cosa significava questa partita per Conte? Aveva un valore in più, emotivamente, contro la sua Juve?”.

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E il senso storico della sfida, che come destino deve incedere con passo cinico, si ripercuote nelle corde vocali di Conte: “C…cosa? Cioè?”. La potenza del Taboo. Pronunciare l’innominabile e uccidere gli dei. Conte, uomo navigato e di certo rissoso, non poteva non aspettarsela. Ma è stato colto di sorpresa. Non si aspettava che qualcuno sparasse su un uomo agonizzante, men che meno su un Conte agonizzante, un nobile decapitato. La domanda era imprevedibile, come una lama in un incontro di pugilato. E come una lama deve fare, ha colpito dove fa male, dove Conte ha scoperchiato l’abisso. Quell’abisso bianco, silenzioso e siberiano (Grazie Nikolai Lilin).

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Perché Antonio, che fino ad ora ne è sempre uscito vincente, ricorda un po’ quel lupo solitario, che per fame scappa dagli uomini. Qualche tempo dopo, uscito per una battuta di caccia, procede a raccogliere la preda freddata dal suo padrone. Prima di perire, la preda, il vecchio capo branco, steso sulla neve, gli ricorda: Tu non sei più un lupo, e non sarai mai un uomo. La fame viene e va, ma la dignità, una volta persa, è persa per sempre.

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Ma si sa, il motivo per cui i lupi solitari scappano dal branco è per crearsene un altro, migliore, dove comandare in maniera assoluta. E se hanno questa convinzione, chiamata o vocazione, è perché la loro è una sfida alla vita, dove non c’è garanzia di sopravvivenza. Per questo è cosi bella: perché puzza di sangue. E nessuno vuole morire, figurarsi lui, Antonio Conte.

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Ora: la narrazione del campionato, fino ad adesso, più bello degli ultimi 8 anni ci lascia a questo punto per un paio di settimane, per il tempo delle nazionali. La restaurazione dell’ancien régime, l’abisso di Conte, e tutte più piccole storielle che aiutano a comporre un bel film: l’Atalanta bella principessa, la caduta di stile della Roma, il momento buio del Milan e, infine, un Napoli (stranamente) a dimensione del proprio fatturato.

Jonathan Grassi

*Su Sky potete vedere gli highlights della settima giornata di Serie A

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