L’inossidabile successo di Sherlock Holmes (ovvero: è tornato il Dr. House e Conan Doyle pensava che la vita dopo la morte fosse più salutare di questa)
Capita sempre così ai talenti secondari: diventano celebri per ciò che ritengono futile. Scrittore sagace dal piglio ironico e lo sguardo volto verso le fate, Arthur Conan Doyle nasce alla letteratura nel 1879, ventenne, con un racconto, The Mistery of the Sasassa Valley, pubblicato sul “Chamber’s Journal”. Il racconto fu edito anonimo, la mistica “Sasassa Valley”, abitata dal fatidico demone, era situata in Sud Africa – lo scrittore, a quell’epoca, studiava medicina alla University of Edinburgh. Il primo romanzo di ACD fu Uno studio in rosso: pubblico nel 1887, vede in scena Sherlock Holmes; da allora il creatore passerà il tempo ad architettare la morte della sua creatura. Il crescente successo di Holmes soggiogò ACD, gli svariati tentativi di ammazzarlo furono osteggiati dal pubblico sovrano. Conan Doyle svariò lungo altri romanzi. Tantissimi. Diversamente brutti.
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Col senno di poi, è la formula narrativa adottata da Conan Doyle – lo spiritista che fa del suo eroe il paladino del ‘metodo deduttivo’ – a essere vincente. Osservare Sherlock Holmes dagli occhi del gemello rovesciato, John H. Watson; sfatare il precedente (l’Auguste Dupin di Poe); alternare i documenti (nel Mastino dei Baskerville, ad esempio, sono riprodotte pagine dal diario di Watson); sfottere il procedimento narrativo (Holmes considera sensazionalistiche idiozie i libri di Watson). Insomma, la narrazione è sempre mediata, Holmes è un prototipo da fiction – agisce in soli quattro romanzo e in una cinquantina di racconti – al lettore è concesso spazio e non c’è uno che non aneli a essere Sherlock.
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Del personaggio sappiamo tutto. Non sa nulla se non quello che gli serve – “Dite che giriamo intorno al sole. Se girassimo intorno alla luna non farebbe la minima differenza per me e per il mio lavoro” –, non gli importa sapere ma conoscere, è concentrato totalmente sulla risoluzione di un problema, il resto gli pare artificioso, una scocciatura. “Era alto qualcosa di più di un metro e ottanta, ma era così esageratamente sottile che pareva molto più lungo. I suoi occhi erano vivaci e penetranti… Il naso aquilino e scarno conferiva alla sua fisionomia un’espressione vigile e risoluta. Il metro quadrato e sporgente confermava in lui l’uomo volitivo. Le sue mani erano eternamente chiazzate d’inchiostro e maculate da sostanze chimiche”. La brutale facilità di Conan Doyle, in questo contesto, è felice: Holmes fonde il genio romantico alla speculazione scientifica, è Don Chisciotte – vede ciò che nessuno vede – e Galileo – idem. Non è un investigatore privato ma uno che concede il proprio aiuto a chi non sa far procedere oltre la palude del noto l’investigazione. Holmes deve essere pregato per accudire un enigma, è una creatura mentale: non gli importa salvare vite o assicurare alla giustizia dei criminali. Gl’importa elevare il mistero a gioco – e sconfiggerlo. Cioè, rassicurare la propria facoltà intellettiva. Holmes azzarda speculazioni da un particolare, propone una soluzione come si definisce una fuga, in ambito musicale; vuole dimostrare che tutti sono sudditi del suo cervello. Se la noia lo attanaglia, si fa di coca – la vita è una grigia parentesi tra un caso inebriante e l’altro. La chincaglieria farraginosa di fatti, episodi, omicidi, ha per scopo esaltare lui, Sherlock. Si leggono le avventure di Sherlock Holmes per il gusto di avventurarsi in Sherlock Holmes – della fine della storia non ci interessa, c’importa, piuttosto, la finezza del ragionamento di Holmes.
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Quasi tutti i tentativi di tradurre in video l’evanescente sapienza di Holmes mi paiono ridicolizzarlo. La serie televisiva Sherlock, varata dieci anni fa, ha il merito di aver azzeccato gli attori (Benedict Cumberbatch e Martin Freeman); resta tra le bestie imbalsamate della mia giovinezza Piramide di paura, l’avventura di uno Young Sherlock Holmes (così il titolo originale, del 1985) girata da Barry Levinson. Se la rivedessi oggi rabbrividirei, all’epoca mi sfidava alla strafottente genialità (dote non da poco). Mi è piaciuto, invece, Mr. Holmes. Il mistero del caso irrisolto (2015), con un immenso Ian McKellen, che inizia dove finisce la carriera di Holmes, nel Sussex, a maneggiare api – come a dire che solo ciò che è letale può fabbricare dolcezza. Ammetto che divorai, anni fa, la serie incentrata sul “Dr. House”, ora tornata in auge su Sky. Hugh Laurie mi pareva perfetto – malato, geniale, in ego delirante – per uno Sherlock Holmes in corsia; la scenografia ospedaliera sarebbe piaciuta a Conan Doyle, chirurgo mancato. Dopo un po’ – ne ero ingordo –, la serialità mi sfinì: le puntate del “Dr. House” sono affascinanti finché svisceravano lui, Gregory House; gli altri personaggi – anche il bravo Robert Sean Leonard, indimenticabile Neil in L’attimo fuggente di Peter Weir – restano parziali, secondari, opachi.
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Conan Doyle muore nel 1930; e muore scrivendo: l’ultimo libro, edito nel 1929, s’intitola The Maracot Deep e gira intorno alla leggenda di Atlantide. L’ultimo racconto è pubblicato su “The Strand Magazine” nell’agosto del 1930, l’autore è sotto terra da un mese. S’intitola The Parish Magazine e comincia così: “Erano le sei di una sera d’inverno. Mr. Pomeroy, il tipografo, stava per lasciare il suo ufficio, nel retro, per la casa, la stanza principale, quando il giovane Murphy fece irruzione. Murphy era un giovane imperturbabile, con la faccia grassa e gli occhi assonnati, che aveva la rara qualità di fare ciò che gli veniva chiesto senza porre questioni. Di solito questa è una grande virtù – a volte accadono eccezioni”. Fa quasi tenerezza il coriaceo talento di Conan Doyle: tinteggia il contesto, descrive quello che si vede, crea dei vicoli narrativi (la parola eccezioni).
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Tra i più funambolici redattori di apocrifi di Sherlock Holmes c’è Roberto Barbolini. Ne ha scritti una manciata; anni fa, era il 2015, incappai in uno di questi, Un walser per Sherlock Holmes, in un libro edito da Guaraldi, Sade in drogheria. Il racconto è sfizioso perché nel Comune di Ornavasso – in Val d’Ossola, Piemonte – l’investigatore creato da Conan Doyle si scontra con “uno svizzero lungo e magro sulla quarantina, dall’aria svagata”: il magnetico Robert Walser. Leggere un apocrifo mi procura – se fatto bene – una certa gioia: la certezza del dono è chiara, più del sacrilegio.
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Quando è in punto di morte, il “Daily Herald” spedisce un giornalista, W.R. Titterton, a casa di Conan Doyle. “Pareva enorme seduto al mio fianco, con le sopracciglia brizzolate, gli occhi vasti del viaggiatore, la testa massiccia, la mascella quadrata, i baffi vichinghi. In effetti, sembrava più un antico guerriero che un vecchio scrittore di storie”. L’intervista esce come Conan Doyle’s Last Words. “La morte, per l’uomo, è l’inizio della vita vera e felice, in cui non viene tradotto in un inferno terrificante o in un paradiso un poco meno terrificante. Trova la vita naturale, un ambiente familiare, la possibilità di esplorare i propri poteri”, diceva il veggente Conan Doyle in punto di morte. Lungi dall’essere un superuomo o un supereroe, Sherlock Holmes non concepisce altra eccellenza che l’estasi della sfida con se stesso. Le ossessioni – l’uomo ispirato, spiritato per una sola cosa – affascinano sempre. (d.b.)
*In copertina: Hugh Laurie interpreta il “Dr. House” nella serie realizzata tra 2004 e 2012