Qual è, se una ve ne fosse, la metrica del nostro tempo? Lo spartito sul quale si cementifica musica che fa ballare come pollini in primavera. La domanda, tutt’altro che banale, dovrebbe essere la prima che piomba in fondo al cervello quando ci guardiamo, da esseri umani, negli occhi.
Qual è la matrice comportamentale, quale la cagione di questa farsa volatile a cui siamo costretti, come Alex in Arancia Meccanica, seduti, legati, impossibilitati ad altro, a rivolgere il nostro sguardo e la sua labile attenzione per il tempo che la concentrazione, ormai da instagrammer, concede?
Dai, tiriamo via questo cerotto appicciato alla carne molle e parliamone insieme.
Vorrei porlo cosi, l’argomento – come fenomenologia di una idiozia personificata. Storia di un capitano.
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Come è possibile, nel giro di una sbronza estiva – di mojito, di potere? – passare da essere la persona più influente della Penisola&Isole alla schernita fotocopia sbiadita di sé stessi? Com’è possibile sgonfiarsi come un pallone di lattice sotto i colpi del sole e ritrovarsi a sfiatare come una scoreggia, così, di punto in bianco? Ma soprattutto, com’è possibile farlo da solo, come l’autoerotismo?
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Tutte queste domande, che voglio porre con leggerezza, tra l’accademico e il chiringuito, penso possano trovare risposta in una parola. Ma prima, un’altra domanda mi sorge, più terrena, ma più puntale forse, come coefficente mancante di una equazione velata: com’è possibile che tutto ciò sia accaduto per mano (e crocefissi) della stessa persona?
Se prima le foto con i gattini erano “belline”, perché ora paiono stucchevoli? Se, prima le foto con panini, gelati, fiorellini edificavano quel senso di “uno di noi”, perché adesso sembrano solo foto di un turista fuori luogo, e diciamolo, pure un po’ pataca, come si dice da noi? Se le arringhe alle folle, fatte di una cultura diciamo così, tutto sommato popolana e (suvvia) demodé, prima erano il camino di Santiago in salsa politica, e ora paiono già qualcosa di superato, quasi grottesco, qualcosa deve essere successo.
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Non un fatto, estraibile, astruso e slegato dal tutto; ma un fatto nei fatti, nel percorso e nella narrazione. Un accidente, un incidente, un peccato di boria, uno dei tanti semplici bacioni, uno di troppo, forse.
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Il troppo. Il troppo come disgrazia, come sproporzione, come rigurgito. Un rutto dopo il dessert che davvero non ci voleva. Il troppo, amici lettori, come Hybris. Come tracotanza, come sfacelo, come caduta. Il troppo come chi pretende di sputare in faccia agli dei e tirargli il fazzoletto, sibilando: “Pulisciti”.
Esercizio della fenomenologia sarebbe si snocciolare fatto per fatto l’ordine delle cose, in modo da trovare i coefficienti che costruiscono (o costituiscono… in un altro pezzo magari rifletteremo sulla precedenza tra essere ed essenza, non ora) il kosmos, l’ordine delle cose. Ma qui non è facile.
Sarà stato lo sfortunato misunderstanding di prendere il DJ set per uno scranno parlamentare? Sarà stato l’uso smodato di rivolgersi al lavoratore, all’Italia vera, che lavora, e in generale il debole per gli ultimi che non si è mai trasformato in amore? Sarà stata una mera indigestione di interviste, dirette e immagini? “E dopo un po’ basta, pero! Solo ‘sta cavolo di faccia barbuta ormai si vede” potrebbero pensare in molti. Sarà stato l’affronto per la laicità dello stato? (Davvero credo di no, piuttosto la guerra al Papa).
Saranno stati i muscoli sempre tesi a forza di “mi sono rotto”, “ora basta” eccetera?
Forse si. Più probabile un no.
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Quando si cammina sul crinale, tra gloria e inferi, quando si forza tanto ogni gesto, esaspera ogni movimento, insomma quando si accarezza con mano il pericolo – e il brivido dorato – della Hybris, ogni elemento della narrazione deve essere preciso come un Lego. Il primo errore può essere fatale.
Dunque, riassumendo, si può dire che: camminando a lungo sul ponte senza ringhiere, il capitano si è sentito sicuro, tanto sicuro da iniziare a correre. Giunto verso la fine, e convinto dei propri mezzi, ha accelerato, ed è inciampato. Qui, nell’allegoria, siamo più o meno ancora al mare di agosto, tra un crocifisso e una ventenne da portare a casa. Poi arriva lo stop, deciso. Gli avversari capiscono che il capitano è inciampato, da solo. E col piffero che qualcuno lo salva – ha bastonato tutti e tutti si sono fatti bastonare.
Successivamente, arriva Conte, la cui scaltrezza politica, fondata sullo studio e la diplomazia, è ben superiore a quanto non credano i nostri amici de L’espresso e compagnia, che gli piazza un bel calcio nel costato, ma lo lascia li, agonizzante. Dovreste vederla (o rivederla) la scena di Shutter Island, sottovalutatissimo film di Scorsese e Di Caprio, dove Teddy Daniels impedisce al militare nazista morente di ammazzarsi con una pistola, solo per vederlo soffrire, quel cane, maledetto cane.
Ora lui è li, steso, sul ponte, o nel campo di concentramento, scegliete voi. E la fine non sono i politici, i giornali, gli opinionisti – davvero quelli non ci capiscono quasi più un caz*o, e infatti il capitano (mica scemo) lo aveva già capito e girato a suo favore.
La fine sono i social. Dove scorrono come sangue immagini di un capitano a cui hanno strappato le medaglie, tolto la fascia, dove insomma viene perculato a tutto campo, come l’amato Milan degli ultimi anni.
Perché, sempre per rimanere in tema, gli italiani sono cosi: permissivi, bonari, tutto sommato pazienti, ospitali, sognatori e un poco allocchi, ma è la cifra di fondo di chi gioca a fare l’illusionista con la realtà: io ti do permesso, ti do tempo, ti do pure la mia passione, ma vedi di non prendermi per il culo.
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Ecco, forse la hybris ha coinciso con la pernacchia perenne. Quando è uscita fuori dal vaso, la spirale positiva è ripiegata su sé stessa ed ha subito una flessione.
Piccolo problema, minuto. È successo a tutti e continuerà a succedere: non si cambiano le persone, figurarsi le coscienze civili. Renzi ne fu vittima, D’Alema e Berlusconi. Poi, alcuni sono fortunati, altri meno. Primo perché l’inizio della fine non la è fine di per sé; secondo perché diversificare è importante, e un futuro come vocalist qualcuno se lo è già assicurato.
Jonathan Grassi
*In copertina: Leonardo Di Caprio in “Shutter Island”, film di Martin Scorsese del 2010