21 Maggio 2022

Vanità delle vanità. Riflessioni necessarie intorno al cadavere

Marcovinicio dipinge con paziente ossessione lo stesso soggetto. Lo chiama vanitas. Su fondo nero, lucido, ritaglia il profilo di un calice; poi, con la spatola, segna il giallo, lo riempie di ferite. Il primo gesto – la figura – richiede pazienza; il secondo energia. Come a dire: alla ragione segue la mania; la contemplazione si esegue nell’atto ripetuto, senza ambivalenze, slabbratura rituale. Marcovinicio avrà realizzato duecento, forse trecento vanitas. Ha dato a un suo standard – i fatidici “gialli & neri” – la statura di icona. Ne è felice; elettrizzato, direi. L’opera non ammette replica, bensì una sequela; il numero si vince dando all’enumerazione un rigore energumeno, folle. Non puoi classificare questo tipo di lavoro, che esce dagli schemi dell’arte odierna, per lo più aliena al senso del sacro, usa, semmai, a usare i simboli sacri come decoro, ornamento, fatuo filosofema. Qui, l’opera – al momento nascosta, invisibile, invitta – è sacralizzata dal gesto dell’artista, che vi si immerge fino al rimbambimento.  

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La vanitas ha tradizione pittorica ancestrale. L’opera, imperitura, raffigura la morte: quindi, la folla di teschi, gli strumenti che misurano il tempo (paradosso che sancisce il nostro desiderio della fine, meglio se precoce), i fiori recisi, le bolle di sapone, un santuario di candele. Benedetta contraddizione: ciò che si scioglie nel quadro è salvo, lo squalificato ha quantità, su tela, tutto è sul punto di polverizzarsi, eppure si vede, ancora integro. Della morte l’arte sfiora il redento. La vanitas non raffigura la morte ma l’immortalità, la vanità come legge del mondo. Chi vuol esser lieto sia… Dietro il velo dell’umiliazione, la vanitas cela un’istantanea joie de vivre: poiché tutto è vento, facciamone vanto; privi di legami – visto che tutto muore – diamoci al tutto, totalmente. La folgore della follia attraversa il volto serafico delle donne che si fanno portavoce dell’Allegoria della vanità; a volte hanno le ali, ed è maliziosa quella pronunciata asessualità.

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Del Majjhima Nikaya, la raccolta dei 152 “discorsi di media lunghezza” del Buddha, il Satipatthana sutta è il discorso che spiega “la via dei quattro fondamenti della consapevolezza”. Questo tipo di pratica, che permette “la più alta comprensione in questa vita”, può durare una settimana o dilagare, farsi esercizio “per sette anni”: implica un radicale ingresso in sé, nel corpo, nel sentire, nel verminaio dei desideri. Inabissandosi alla contemplazione, bassi, il praticante immagina il proprio corpo morto, “cadavere abbandonato in un cimitero”, immagina

“il proprio corpo a cadavere abbandonato in un cimitero, beccato dai corvi, dilaniato da falchi, avvoltoi, sciacalli, infestato da larve e vermi; e osserva: “Il mio corpo ha la stessa natura, subirà la stessa fine, non può evitarlo in nessun modo”.

Immagina, in questa catabasi nella pura biologia di ogni cosa, cumulo di corruzione, la “dissoluzione del corpo”, il corpo ridotto a scheletro, poi “ammasso di ossa”, infine “polvere di ossa sbriciolate”. Polvere sei…

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L’esercizio, spericolato, periglioso, affascinante non ribadisce l’ovvio – siamo roba che muore, è il dominio dell’impermanenza, siamo cenere su cenere –, basterebbe conficcarsi nel giogo delle stagioni: ricorda che proprio perché il corpo è niente, il corpo è la sola cosa che abbiamo. Proprio perché il corpo va, è vano, il corpo è, ed è bene averne cura. La mortificazione in verità vivifica; non ci si dona a Dio per gusto masochista, ma per esigenza di gioia.

La prepotenza liturgica di Marcovinicio

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Per alcuni, il corpo rispecchia l’opera della mente; altri, velano gli specchi per dare vigore al corpo. Guai a chi crede nel ‘riflesso’: bisogna immaginarsi, mai guardarsi. Non esiste pensiero religioso che non s’incardini nel corpo – ciò non basta ad affermare con certezza che Dio sia carnivoro.

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Gli Exercitia di Ignazio non sono diversi dalle estreme pratiche buddiste: palestra per vincere la morte, per trovare “il metodo e la misura”, “come se fossi in punto di morte”, sotto scacco del giudizio. Il gesuita obbedisce perinde ac cadaver, già morto al mondo, dunque, senza timore di nulla. A differenza della contemplazione buddista, qui il corpo è dissezionato sull’altare di Dio – sbaglieremmo, però, a non riconoscere il sacro alla foce del sacrificio, il lume radicale; non si arretra dalla vita, la si rivitalizza. Non si mortifica il corpo per dimostrarne l’inconsistenza rispetto a Dio; la mortificazione è lavoro di limatura, proprio come si affila la spada. Il corpo ci è affidato per riconsegnarlo, nel Giorno, esatto, compiuto, sigillato: è codice da decifrare, nome da snodare, versetto da cui pendere. Ci si mortifica per fortificarsi non per aderire a un eserciziario filosofico, a una qualche sapienza imposta: dopo Cristo, è la beata follia, l’insipienza a prevalere; il resto, le norme per il quieto vivere, i filosofemi, sono voluttà, vanità:

“Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché, come se viveste ancora nel mondo, lasciarvi imporre precetti quali: ‘Non prendere, non gustare, non toccare’? Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne”

San Paolo, Col 2, 20-23

Da qui, la sequela, l’inseguimento di Cristo, il mercato delle reliquie – brandelli di corpo martoriato, taumaturgico, anti-vanitas, scheletri vigorosi al miracolo, profezia dei risorti – e l’impaniarsi nel Suo corpo di cui è fatto macello: e dunque la contemplazione delle ferite, la constatazione del flagello, degli sputi, degli stinchi spezzati, del costato, del cranio insanguinato, delle viscere sgangherate. Vanitas a contrario, però, perché la persecuzione del corpo, lacerato fino all’anonimo, accelera la rinascita. Agnello divorato che diventa divoratore, vomita santissimi.

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Nei padri la disciplina ha i caratteri della vigilanza:

“La vigilanza è il concentrarsi continuo del pensiero e il suo tenersi alla porta del cuore”

Esichio Presbitero

“Primo modo della vigilanza è sorvegliare frequentemente la fantasia, cioè l’assalto”

Esichio Presbitero

“Finché sei nel corpo non allentare la vigilanza del cuore”

Isaia Anacoreta

Dunque della veglia accanto al corpo, al cadavere deviato dalla corruzione. I fratelli Karamazov convergono lì, sull’“odore di putrefazione”: il cadavere dello starec Zosima che puzza, santità dissipata nel cattivo sentore, che sancisce una basilica di pettegolezzi; anche lui, come tutti, l’uomo santo, è corpo vano, reclamato dai vermi, meglio sarebbe – alta illuminazione tibetana – consegnarlo alle bestie che ne facciano pasto; consegnarsi, eclatante ringraziamento. Fate di me…

Mariano Fortuny, Un arabo veglia il cadavere di un amico morto, 1866

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Il quadro più eclatante di Marcovinicio è una tela statuaria. Lo studio, un garage, a Domodossola, ingombro di libri, spade ricamate dalla ruggine, opere trentennali o fresche di pittura; c’è il palco di un cervo, su un tavolo, quello di una renna; diverse fotografie. Il Sacro Cuore, aureolato di rovi, è al centro della scena, su fondo azzurro. Il sangue cola in una ciotola, contadina; la testa decollata dell’artista, doppia – “quello sono io” –, ostenta lingua di bove, la immerge nel sangue, con santa lussuria. Qualcosa di trecentesco e di avveniristico si avverte, qui. La vanitas è sconfitta dall’ex voto: indossare un voto, nei giorni dell’impazienza, ed eseguirne la radicalità, l’inseguire. Ci si salva per fuga e guerriglia, pigliando l’angelo alle spalle.  

Gruppo MAGOG