“Mi registro mentre suono al piano; all’inizio è per curiosità di sentirmi; ma assai presto non mi sento più; ciò che sento è l’essere-là di Bach o di Schumann, la materialità pura della loro musica… ”. Così a pag. 66 di quel breviario di auto-devozione (Barthes di Roland Barthes, Einaudi, 1980), l’autore mette in scena, dopo una sarabanda di foto del suo album, postillate con minimale sagacia, l’esatta incrinatura, la lieve banda di fuoco alla base del frame, quasi luce sotto una soglia, da cui ha principio la dissolvenza irreparabile, il cancro luminoso di ogni capolavoro.
Come è concepibile una tale vocazione allo sgretolamento in una struttura concepita per durare nei secoli? Quale germe proveniente da recondite cavità biologiche può attentare alla falange, al banco di madrepore o di fichidindia? Non c’è niente che si apparenti al nulla come la ripetizione; non c’è voce che non parli attorno all’essenziale buco dell’io.
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L’impietosa lezione è ben chiara in Barthes di Roland Barthes, come nelle madrepore della signora madrepora. Difficile trovare l’analogo di questo vuoto per troppa pienezza, neppure fra gli scritti più impunemente autobiografici. Chi fa da cerimoniere alla sua vita, chi indulge alla compilazione di annali, alla fine romanza fatalmente, scampa se stesso nell’a priori di un piano d’immanenza, perfettamente mimetico. Roland Barthes gioca la partita più difficile: dispone il suo io in un organigramma a frattali, dove non ha più senso il prima e il dopo, l’ingrandire o il rimpicciolire: si sdrucciola all’infinito sulla riproduzione in scala infinita del sé.
È certo che un abito cucito perfettamente sulla propria persona – “al bacio” suole dirsi, e si tratta in questo caso di un bacio ermafrodito – diviene alla fine come la tunica del centauro Nesso: strappandosela di dosso con violenza, viene via dalle ossa anche la carne.
Non c’è assolutamente misericordia in chi scrive, né per gli altri né per sé. Chi scrive si disintegra quanto più fa le veci di perpetuarsi all’infinito. La sua partenogenesi è l’assurdità della morte. Diceva bene Sylvia Plath in un suo materno e barocco sottotono:
Non sono tua madre più di quanto lo sia la nuvola
che distilla uno specchio per riflettere
la propria lenta cancellazione per mano del vento.
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A Barthes conviene forse di più una raffigurazione del Magritte (il crudele vivisezionatore di calligrammi): La riproduzione vietata. Un uomo, dipinto di spalle d’avanti ad uno specchio, riflette su quest’ultimo sé stesso, ovviamente, ma sempre di spalle. Perfetto. Nessuna parola può rappresentare in modo più simmetricamente asfittico, l’indicibilità, tranne forse Barthes di Roland Barthes.
Sarebbe una sottilissima truculenza riproporre quell’immagine di spalle in una duplicazione all’infinito, con l’ausilio di un ulteriore specchio posto dietro il personaggio. Può darsi che il pittore belga, instancabile amplificatore dei suoi sistemi, avesse già pensato a questa declinazione del suo capolavoro.
Così dal montaliano “schermo d’immagini”, “che mi chiude ogni senso di te”, alle complesse basculazioni di Barthes e Magritte, non vi è campo per la nostra immagine frontale. Il vuoto del centro o del retro, e attorno l’infinità amniotica che non potrà sviluppare nessun volto. Perché forse non esiste volto: esiste solo il suo calco rovesciato.
Antonello Cristiano