04 Marzo 2024

“Io sono tra coloro che temono l’esistenza”. Discorsi vertiginosi tra filosofia e fede

“…la salvezza che dà Dio non consiste nel sostenere con benevola provvidenza la vita dei suoi fedeli nel mondo”.

S. Quinzio, Su Matteo 6, 33-34

 Io confesso la mia fragilità.

 Ma lo faccio per rendere testimonianza alla necessità, senza indugiare nell’auto-compiangimento, che è sempre un po’ auto-compiacimento. «Fragilità» è parola inflazionata nella speculazione mediatica, ma dal significato chiaro: indica infatti facilità di rottura, la quale comporterebbe perdita irrimediabile e, perciò, richiede una premura particolare.  Ma rispetto al colpo di che cosa posso confessarmi “fragile”? Direi: rispetto ai colpi dell’esistenza – alle trasformazioni, ai cambiamenti, alle malattie, alle sofferenze, all’eclissarsi dei punti di riferimento e alla scomparsa degli affetti. In altre parole: confesso che il mio Ego sia drammaticamente incapace di sostenere l’incombere dell’esistenza.

Ci sono persone che hanno un Ego più robusto, capace di affrontare le difficoltà con un piglio titanico. E poi ci sono persone con un Ego afflitto dalla debolezza, che rischiano di essere sopraffatti in ogni momento dall’esistenza. Essi sono talmente atterriti dal timore che escogitano formule per non pensarci, per stornare l’attenzione della mente e la percezione del cuore dalla considerazione dell’esistenza per appuntarla altrove – in qualsiasi altrove, da quelli considerati più abietti, come i vizi, a quelli considerati più nobili, come lo studio, o la preghiera.

 Io sono tra coloro che temono l’esistenza. Pertanto, sono tra coloro che hanno sperimentato quel Θαυμα dal quale, secondo Aristotele nell’interpretazione di Emanuele Severino, è originata la volontà di filosofare, cioè: dare un ordine logico (Λόγος) all’esperienza soggettiva che dell’esistenza. In questo senso, la filosofia sembrerebbe proprio essere un tentativo di “distrazione”: riflettere su ciò che ci dà Θαυμα per non essere più costretti a sperimentare il Θαυμα stesso.

Ma se anche il timore fosse l’origine del filosofare, il filosofare non ci ha consolati affatto del timore stesso. Se anche delle speranze erano riposte nella filosofia perché ci liberasse da tale sofferenza, esse sono state deluse: il dolore non è stato sedato, né la paura è stata dissipata – anzi: come possiamo constatare oggi, standocene sul promontorio estremo dei secoli della speculazione filosofica, la situazione esistenziale è più compromessa che mai. L’esistenza continua a sopravanzare, e l’approccio filosofico continua a dimostrarsi insufficiente.

D’altronde, se anche fosse vero, come dice Boezio, che la filosofia consoli; essa a maggior ragione sarebbe perfettamente insufficiente a liberare l’esistenza dal Θαυμα. La consolazione è infatti premio ad una sconfitta – un premio che può distrarci dalla constatazione di ciò che resta tuttavia l’unico fatto incontrovertibile: la sconfitta. E sconfitto io mi sento difronte all’esistenza che incombe tirannicamente su di me. Non c’è niente che possa arrestare la manifestazione ineluttabile del Tutto. Ed essendo nel Tutto compresi anche i nostri Ego, non possiamo impedirne la manifestazione.

Così, il mio si è manifestato come un Ego fragile. E non c’è nulla che io possa fare per trasformarlo – che siano stati i miliardi di combinazioni biologiche possibili, i condizionamenti sociali o l’inculturazione più o meno subliminale, in sostanza fa poca differenza; ciò che importa davvero perché è fondamentale, è che un Ego si manifesta sempre per ciò che è, ed esso non è trasformabile più di quanto non sia modificabile la storia degli uomini. La filosofia non è la pietra alchemica capace di trasformare un Ego di piombo in un Ego d’oro. Se anche desse consolazione, la filosofia non potrebbe comunque offrire una soluzione al dolore che sperimenta il mio Ego quando rimugino sul fatto che gli egoismi nazionalisti ed economici hanno distrutto l’Europa, o quando penso alla crescita demografica mostruosa e violenta dell’umanità extra-europea nei prossimi anni, o quando vedo i miei affetti più intimi invecchiare irrimediabilmente ogni giorno.

Secondo quest’ordine di idee, Sergio Quinzio fa bene a denunciare l’”ellenizzazione”, cioè: l’esegesi e l’adattamento filosofico delle Sacre Scritture. La filosofia è insufficiente, tardiva – se la filosofia è la “nottola di Minerva” che si fa viva alla sera; il Cristo è invece la luce, che illumina e regna nei secoli dei secoli (Ap XXII, 5), ed è in Lui che occorre cercare chiarezza.

Prendiamo il versetto: «[…] Amen, quippe dico vobis, si habueritis fidem sicut granum sinapis, dicetis monti huic: Transi hinc illuc, et transibit; et nihil impossibile est vobis» (Mt XVII, 19). È la fede che sposta le montagne; la filosofia non potrebbe spostare nemmeno un sasso. Il mio Ego è come una montagna: se avessi fede, potrei spostarla da una parte all’altra. Cionondimeno, la fede non trasforma lo Ego: come un monte, se anche si spostasse per la fede, resterebbe un monte e non si trasformerebbe in un sasso. La fede sposta il monte/Ego. Che significa ciò? Lo Ego non può cambiare «luogo»: esso costituisce un elemento imprescindibile di ciò che io sono, ed anche del Tutto che deve manifestarsi. Ma la fede comanda allo Ego di agire secondo la sua volontà – la quale, in quanto fede in Dio, che è donata da Dio, è la volontà di Dio. Lo Ego, dunque, non scompare, non si elimina né si sospende; la fede lo “sposta” però dall’essere autonomo e dominus sibi a diventare – in verità: a prendere consapevolezza di essere – servo di Dio.

La fragilità sofferente dello Ego resterà fragile e sofferente. Dio viene dunque a consolarla, a darle conforto? Potrebbe Dio essere premio di una sconfitta? O anche, nel caso complementare di un Ego robusto, potrebbe Dio essere premio di una vittoria, di una sfida agonistica? No: lo Ego non trova in Dio né una consolazione, né un premio. Qualora lo Ego si consolasse sarebbe sempre una consolazione egoica. Per quanta fede io possa avere, il mio Ego continuerà sempre a piangere, a disperarsi. La fede consiste infatti nel trascendimento consapevole della condizione prostrata del mio Ego, nella contemplazione “estatica” della storia degli uomini, nella quale è ricompresa anche la storia particolare e miserabile di questo Ego qua. Dico: «estatica» perché ἔκστασις significa “essere fuori” – e la fede è appunto una contemplazione distaccata, cioè: che “sta fuori” dal mondo degli uomini, e che, proprio per tale distacco, non consola affatto lo Ego.

 Il mio Ego resta afflitto dalla sua fragilità. Continua a sperimentare il senso di smarrimento indotto dal ritrovarsi fra le acque inquiete ed inesorabilmente trascinanti del divenire. Le sue grida di paura, così come le sue richieste angosciate d’aiuto, resteranno sostanzialmente inascoltate. Anche qualora ci fosse un intervento provvidenziale, esso sarebbe circoscritto, non definitivo: un angelo che mi ha salvato una volta dallo sconforto ha avuto la mia riconoscenza; ma io continuerò a sconfortarmi, e quindi ad invocare nuovamente il soccorso – che un’altra volta, però, potrebbe non arrivare.

 Il miracolo non può trasformare lo Ego – si dice infatti: «[…] beati qui non viderunt et crediderunt» (Gv XX, 29), perché la vera fede («credo») non necessita di miracoli («videre»); così come, viceversa, i miracoli non inducono alla vera fede («Dicit ei Iesus: Tanto tempore vobiscum sum, et non cognovistis me? […]», Gv XIV, 9). Lo Ego è davvero abbandonato a sé stesso. Il mio io egoico è davvero abbandonato a sé stesso, alla sua specifica fragilità. Esso si scopre assolutamente disperato. Ma quando si giunge a tale «culmine della disperazione» (Emil Cioran), si è conclusa l’esplorazione dell’angusta dimensione mondana. Si giunge così alla soglia di quell’esperienza spirituale che appare “disperata speranza” (Rm IV, 18) alla percezione mondana, una forma di follia – ma che si rivela come la Speranza nell’avvento del Regno di Dio.

Niccolò Mochi-Poltri

27/XII/2023,
Festa di s. Giovanni evangelista

*In copertina: Gustave Moreau, L’apparizione (1876 circa)

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