02 Aprile 2020

Uscire non si può, allora... Esercizi d’evasione (o d’invasione del proprio dentro) con la compagnia di Sri Aurobindo, Guido Morselli, Ray Bradbury

Uscire non si può. Destituiti del camminare ma non delle gambe, magari sediamo per tutto il giorno rimpiangendo di non poter andare fuori. Eppure quel fare sport in casa di cui i giornali spesso portano esempi “virtuosi”, come le serie del polisportivo-famoso-in-tutto-il-quartiere che a favor di popolo solleva pesi o si allena biciclando su rulli in dovute mises decathloniane tra le mensole del salotto dovrebbe, aldilà della facile ironia, farci riflettere. Quant’è grande il confine di una stanza? È veramente solo un confine di pareti o possiamo sfondarlo? Certo, meglio evitare la tecnica usata dal personaggio del romanzo Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene, il quale, col proposito di recuperare, in casa propria, certe lettere, il rileggere le quali sarebbe equivalso a un “derubare se stesso” decide che avrebbe “dovuto sorprendersi quando magari era assente” e dunque agendo “fuori di sé”, “aprirsi un varco attraverso il muro”; e così fa, prendendo a picconate un’intera parete, dall’esterno, dopo essersi precluso l’accesso a casa con un’operazione di barricamento degna di un assedio (ma abbatte per sbaglio la parete della casa del vicino, in un esilarante atto mancato).

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Allora si tratta di camminare come fossimo fuori pur rimanendo dentro. Esercizi d’evasione o d’invasione del proprio dentro che ora si apre a esplorazioni inedite o inaudite; costrizione che esorta il librarsi-liberarsi, niente di mistico – tuttavia, chissà – ma sarebbe bello pensare di imparare qualcosa per esempio da Darrell Standing, protagonista de Il vagabondo delle stelle di Jack London che, chiuso in una cella di rigore tenebrosa e imbrigliato in una camicia di forza, usa l’apnea cui è costretto per entrare in quella particolare condizione – forse analoga a quella che gli yogi chiamano “assenza del respiro” – per la quale fuoriesce dal corpo, ma anche dal tempo e dallo spazio, per incarnarsi in altri corpi e vivere remote vite precedenti; alla fine è sempre un evento tragico che interrompe quella particolare vita e lo fa “risvegliare” nella cella di rigore. Un po’ difficile in verità sarebbe approdare, per sola virtù di quarantena, a simili, tanto sofisticate, forme di mancamento autoindotto. Ma potrebbe essere più praticabile, almeno apparentemente, lavorare nel e sul perimetro della propria stanza come fosse un orizzonte e non un avvicendamento di pareti?

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Non si può sapere come facesse esattamente, ma un caso eclatante è quello di Sri Aurobindo, il grande poeta e mistico indiano di formazione europea (si laureò a Cambridge), che passa gli ultimi anni della vita confinato nella propria stanza, dove dorme poche ore a notte, e delle ore di veglia parte le passa a scrivere, parte a meditare, parte a camminare. Dalle testimonianze e da dichiarazioni del diretto interessato si viene a sapere che Aurobindo camminava ininterrottamente – nella sua stanza – per otto ore al giorno. Chiaro che si trattava di qualcosa che va ben oltre il semplice camminare, inteso come pura attività fisica, ma è la riprova che, in qualche modo, è possibile “trattare” le pareti di una camera come un orizzonte. Certo, il grande poeta era un uomo dai poteri yogici straordinari e non si può certo provare a imitarlo così, senza cognizione di causa. Ma il suo esempio non suggerisce forse il fatto che lo spazio e il tempo si possono dilatare secondo la nostra volontà? Tanto più se è vero come è vero che spesso queste due dimensioni si dilatano senza che la nostra volontà intervenga? (pensiamo a quando la noia ci induce una certa dilatazione del tempo, mentre magari nella gioia ne percepiamo il netto contrarsi). Ma ecco la volontà intervenire quando in uno spazio molto aperto si può fare l’esperienza della concentrazione in un punto, in un luogo, in un angolino, lasciando fuori la vastità, o al contrario in un luogo angusto figurarci “interminati spazi”, e “sovrumani silenzi” come sappiamo è riuscito a fare un giovane poeta due secoli fa.

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Chi si ritrova proiettato irrimediabilmente fuori, in figura speculare rispetto ai personaggi reclusi di cui sopra, senza poter trovare il conforto, o soffrir la pena, della compagnia degli altri umani, suo malgrado esiliato in uno spazio-tempo che coincide col mondo intero, sono i personaggi di due romanzi molto distanti l’uno dall’altro, ma che in questi giorni di letture incrociate e abbondantissime, ancorché centellinate e sparse di libro in libro, mi sono capitati per caso sotto gli occhi. E qui devo venire a parlare di quel fuori, che essendoci precluso è diventato un dentro vuoto, perché l’unico possibile fuori per noi ora è un dentro, e quel fuori, un dentro che ci manca. Il che ci fa sospirare e stupire alla vista di ben noti e struggenti scorci urbani completamente vuoti di presenze umane. Come per una fuga improvvisa di tutta l’umanità. E una fuga dell’umanità si trova a vivere il protagonista di Dissipatio H. G. (1977) di Guido Morselli. Se ne è parlato recentemente proprio su queste pagine. Un romanzo che oggi suona vicino come un sguardo dalla finestra, nel quale tutta l’umanità sparisce d’un tratto senza colpo ferire, senza lasciare tracce di corpi; così, volatilizzata. Il protagonista decide di uccidersi nella notte tra l’1 e il 2 giugno, non ci riesce, e al suo ritorno a casa si accorge, da segni dapprima labili, poi via via sempre più decisivi, che non solo le persone a lui più prossime, ma tutti, proprio tutti, sono spariti. La discesa nel villaggio vicino – lui vive da solo a 1400 metri, in una casina – e poi nella grande città poco distante, è una graduale immersione in un mondo che è stato improvvisamente abbandonato, non da tutti gli esseri viventi, ma solo dagli esseri umani. La sparizione è avvenuta d’un tratto tra la mezzanotte e le due del 2 giugno, in un modo che non potrà che rimanergli ignoto perché, in quel frattempo, si trovava in una caverna, da dove avrebbe dovuto raggiungere il fondo di un baratro, precipitandovi con un ultimo e definitivo salto. Le tracce di una scomparsa totale e improvvisa di tutti sono visibili nella peripezia delle cose d’uso comune interrotta di colpo all’apice del suo dinamismo quotidiano: un’auto lasciata a se stessa ha sbattuto contro un muro; una penna caduta di mano a chi stava in quel momento prendendo appunti nella redazione di un giornale; sulla pista dell’aeroporto, che il protagonista raggiunge nella speranza, o per la curiosità, di ritrovare almeno lì qualche traccia di vita, un aeroplano ribaltato, lasciato al corso inerziale della legge di gravità che ha preso il sopravvento dopo che tutti i sapiens – tutti – si sono vaporizzati, evadendo dalla carne e dalla propria nevrosi di controllo assoluto sulla materia. Anzi, non dalla carne, evadendo e basta, ché anche i corpi sono scomparsi, come nebulizzandosi, volatilizzandosi.

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Ma letteralmente volatilizzati, e qui compiamo il salto dall’uno all’altro romanzo di cui si diceva, sono invece gli umani che, colonizzato Marte ed esteso su di esso un solido reticolo di città grandi e piccole, un giorno, all’annuncio della guerra totale e risolutiva scoppiata sul pianeta natale, partono tutti insieme alla volta della Terra sui loro “razzi d’argento”, abbandonando lì uno dei coloni che vive anche lui, come il morselliano superstite, isolato “tra le azzurre montagne” (“di Marte”, però) in una “solitaria baracca”. Siamo in Cronache marziane (1950) di Ray Bradbury. Walter Gripp è molto diverso dal personaggio di Morselli – così come per l’autore italiano la sparizione dell’umanità è il pretesto per parlare d’altro, mentre per Bradbury è un pretesto narrativo puro. Se il primo vede nel venir meno dell’umanità un paradossale e ironico e misterioso capovolgimento di qualcosa che lui si era destinato e che invece ora è toccato a tutti gli altri, il secondo invece approfitta subito della situazione, e si serve prodigiosi pasti dalle rosticcerie vuote e dalle pasticcerie, si veste attingendo dalle vetrine delle boutique di lusso, si proietta film in sale cinematografiche enormi abbandonate, fino a che il tedio non lo coglie e il vizio della compagnia umana non rinnova il suo richiamo; eccolo dunque alle prese con la nostalgia di un nido femminile, che giunge a guastare la festa del solipsista mancato. È in quel momento che Walter Gripp sente uno squillo, dall’interno di una casa, in lontananza – un telefono…

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L’altro, il superstite terrestre, invece, si dibatte nel tentativo di verificare l’inimmaginabile e si porta nella hall di un grande albergo, dove la sparizione improvvisa dei clienti e del personale ha lasciato sparsi bagagli sulla moquette. E da lì nella sala di una “Mostra d’arte. Arte-comportamento” dove, fra le altre cose, spicca un’opera “dell’italiano Mattiacci: una composizione dal titolo Spazio consistente in un tavolo di vetro con sopra un telefono, ‘collegato con tutta Europa’ e gli elenchi telefonici ‘di tutta l’Europa’. Il visitatore poteva parlare con chi voleva, per ben 10 secondi. Ecco, questa comunicativa opera d’arte faceva per me”.

Mentre di là, sul pianeta rosso, “Walter Gripp si mise a correre. Ecco la casa buona. S’introdusse, scavalcando il davanzale, nel soggiorno, ma prima ancora che vi avesse posto la mano sopra, l’apparecchio aveva smesso bruscamente di suonare. (…) Prese la smilza guida telefonica, che elencava i nomi di tutti i possessori di un apparecchio su Marte. Cinquantamila nomi. Cominciò col numero uno”.

E di qua, sulla Terra: “ho pizzicato a caso tra gli elenchi, ho fatto tre numeri di altrettanto ignoti parigini. Non una risposta, nemmeno qui. Anche questi tacevano”.

Di là, su Marte: “nessuna risposta. Chiamò il due, il tre, il quattro, le dita che gli saltellavano via, incapaci di stringere il ricevitore”.

Di qua: “Ho provato ancora con Parigi. O fortuna e delizia: una voce mi arriva. Una graziosa voce di donna. (…) Signora! Vuol dirmi se a Parigi le cose sono normali? E quella: vogliate per cortesia darmi il vostro numero di telefono, sarete richiamati ecc… Chiudo. Un testo registrato”.

Su Marte: “chiamò, il telefono squillò all’altro capo del filo, e a un tratto qualcuno alzò il ricevitore. Una voce di donna disse: – pronto? – Se si tratta di un disco – disse Walter Gripp – vengo fin là e faccio saltare in aria tutto quanto!”.

Di qua, sulla Terra: “ma l’insuccesso non mi deprime. Mi suggerisce di meglio: andare io di persona a Parigi, subito, col primo volo in partenza”.

Su Marte: “Macché disco! – rispose la voce femminile. – Pronto, oh, pronto, finalmente trovo qualcuno che è ancora vivo!”.

E Walter Gripp qui parte, con “una macchina chiusa, a forma di coleottero”, per un viaggio di mille miglia marziane, deciso a raggiungere la voce di donna.

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Mentre il personaggio di Morselli farà, all’aeroporto, l’amara scoperta della dimensione planetaria della “Dissipatio Humani Generis”: “Non vedrò un viso, non udrò una voce. E mi sembra ingiusto e cattivo. In città ero spettatore, qui io devo vivere”.

Non vale un po’ anche per noi, adesso?

Franco Acquaviva

 

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