L’inizio della fine.
Vivere dentro questi giorni che si assomigliano, uno dopo l’altro, come grani scuri di un rosario. Incatenati a un’asfissiante quarantena forzata. Nel paradossale riposo obbligatorio, nella casa che diventa prigione, il nido una gabbia, la camera un’urna. Si possono fare le prove per la fine del mondo. La letteratura, oggi come ieri, è panacea, anestetico, specchietto da borsa a disposizione, ancora in commercio (per chi osa sfidare la vita, voltando le pagine di un romanzo).
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“La fine del mondo?
Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi. (…) Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro”.
Il profetico romanzo Dissipatio H.G. di Guido Morselli concepito nel 1973, pochi mesi prima del suicidio, era stato rispedito, dalle case editrici, al mittente. La busta con il romanzo oscillava dalla cassetta della posta, quella terribile calda notte di fine luglio. La pistola Browning, 7 e 65, silenziosa e piccola protagonista di una vita, fedele compagna dei suoi romanzi, Guido Morselli la toglie dalla coperta militare in cui, da sempre, è avvolta, poi la estrae dalla custodia di cuoio. Lo scrittore solitario e schivo decide di togliersi la vita, di togliersi di mezzo, una volta per tutte. E il suo romanzo, postumo, trova la sua strada di pubblicazione, con Adelphi, nel 1977.
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Il protagonista di Dissipatio H.G., in questi giorni pandemici, un po’ assomiglia a qualcuno che conosciamo bene: lucidissimo, ironico, ipocondriaco e, soprattutto, fobantropo. Ha una fottuta paura degli uomini. Decide anche lui di togliersi la vita annegando in uno strano laghetto sul fondo di una caverna, in montagna. Ma, poi, in extremis, cambia idea e torna indietro. Il genere umano, nel frattempo, è scomparso, volatilizzato. L’umanità si è “angelicata in massa”. “Astratto e lucido gioco intellettuale” l’ha definito Giorgio Manganelli, l’ultimo romanzo di Morselli, il suo capolavoro. Eppure, leggere oggi Dissipatio H.G. significa strappargli di dosso la definizione di ucronia, di astrazione, scoprire nuove inattese letture del nostro mondo e trovarci dentro un ritratto nitido dei nostri giorni convulsi, assurdi, in pasto alla pestilenza moderna del Coronavirus. Del resto, tutto comincia con una malattia. “Cominciò con una malattia. Corporale, non mentale, vera, non immaginaria; cronicheggiante”.
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Come si sa, è proibito andare al cinema, a teatro, a un concerto, le sale sono chiuse, la polvere inizia a coprire le poltrone. Qualche locandina ancora appesa qua e là sui muri ci ricorda il passato prossimo che sembra andato in pezzi, perduto per sempre. Ad es.: “Nelle vetrine, ho veduto un cartello. La banda si municipale raggiungerà in funivia il Mountàsc e terrà, a quota 2950, il più alto concerto bandistico d’Europa”.
Girare per la città vuota significa ascoltare il suono dei nostri passi, sul marciapiede. Un silenzio diverso, lunare, colmo di significati emotivi, dell’assenza che si fa viva, presente.
“Eppure il silenzio gravava e io lo registravo con un senso diverso da quello uditivo, forse emozionale, forse riflesso e ragionante. Ciò che ‘fa’ il silenzio e il suo contrario, in ultima analisi è la presenza umana, gradita o sgradita; e la sua mancanza. Nulla le sostituisce, in questo loro effetto.
E il silenzio da assenza umana, mi accorgevo, è un silenzio che non scorre. Si accumula”
Il silenzio che parla, è il silenzio della morte. Della paura. Di chi teme il contagio. Non c’è in giro nessuno.
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“La città intatta, appena abbandonata, è già archeologia. Non hanno lasciato un messaggio decifrabile. Hanno lasciato invece tutte le loro cose. Partiti di furia, senza curarsi di ciò che restava. I loro tesori”. Il denaro non serve più, non cura, non guarisce dal morbo. La stessa città dell’oro, Crisopoli è “disponibile a ogni cosa, tranne i miracoli”. Si tracciano i confini, si costruiscono barriere, mentre si cancellano, con un colpo di gomma, i progetti, i viaggi, i sogni. Una riga con la penna, una telefonata, si cancellano i voli. La dissipazione è universale. Internazionale. La dissipazione è intercontinentale. L’aeroporto vuoto, deserto, senza uomini, irriconoscibile. L’aeroporto di Milano Malpensa, oggi, assomiglia a quello di Teklon. A bordo dell’aereo quasi nessun passeggero. Si potrebbe quasi praticare lo yoga in cielo, veleggiando sopra le nuvole. Le cappelliere, vuote. “Teklon è l’aeroporto di Crisopoli, ma più vicino di questa per me che vengo dalla montagna; lo raggiungo in mezz’ora. Uno dei crocicchi d’Europa, uno scalo di rango intercontinentale. Oggi, però, non è affollato. O piuttosto, è vuoto. Vuoto di gente. Le sale, i corridoi, le biglietterie, la dogana, il deposito bagagli, i bar, il ristorante (dove anni fa passai una mezza giornata a aspettare un apparecchio che poi risultò dirottato); nessuno. Dovevo prevederlo? Non so. Comunque, per me, è la fase della ripresa, mi sento ottimista, consulto uno dei tanti tabelloni accesi, leggo che sono previsti nelle prossime ore tot aerei in arrivo tot in partenza; dai quattro canti del globo. Per Parigi, nel giro di cinquanta minuti, ne ho uno proveniente da Zagabria, un secondo da Nairobi via Il Cairo-Roma, un terzo da Atene, senza contare un charter «con alcuni posti eventualmente disponibili». Se qui da noi c’è la paralisi, o il deserto, per qualche ignota ragione, a Nairobi, al Cairo, a Atene, il mondo è sempre in moto. Quella che mi sto definendo con sociologica disinvoltura: bomba S (Spopolamento, repentino e radicale), bomba R (Rarefazione), se è scoppiata a Crisopoli e dintorni, non può avere esteso i suoi effetti a apparecchi che volano a diecimila metri di quota sul Mediterraneo, o nel Sudan”. Mentre un enorme cartello, dentro un’agenzia di viaggi, inneggia alle Bahamas, alla sua celebre spiaggia bianca. Un giro per la città di notte, i lampioni sono accesi, si illumina la solitudine. “Le luci stradali sono accese”. Dentro questo “Reparto angoscia” contemporaneo, si fanno i conti con la storia, si sfogliano manuali, enciclopedie, si istituiscono confronti, paralleli, a caccia di qualcosa che somigli al nostro presente. “Gli uomini hanno scatenato, in trenta secoli, circa 5000 guerre. Hanno avuto il torto (la trovata risale a Albert Camus), se non di cominciare la Storia, di proseguirla. Io non li condanno. La loro colpa peggiore, o più recente, era l’Imbruttimento del mondo. Si usava aggiungere altre imputazioni: l’Inquinamento, l’Inferocimento (anzi, con eufemismo, la ‘violenza’). L’Inflazione. (Senza eufemismo: la peste monetaria). Io non li condanno. Forse mi basta di sapere Crisopoli ridotta a Necropoli. È un castigo adeguato, ai miei occhi”.
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A che scopo? È un trauma, inconcepibile e irrazionale, una realtà surreale che paralizza, che agita le psicosi. “Sul trauma paralizzante, si leva e vaneggia la paura. Che è fatalmente un male della ragione discorsiva, estraneo agli angeli e alle bestie”. Chi vive, sopravvive. Eletto o dannato. Superstite.
“Certo è che sono il superstite. Per caso? Mi rispondo no. Ho sempre pensato che il Caso, supposto che esista col C maiuscolo non sia «asylum ignorantiae», non si distinguerebbe in alcun modo da una superiore volontà imperscrutabile. I Lloyd’s, i grandi assicuratori londinesi, non consideravano uragani e colpi di mare, incendi e terremoti, fatti accidentali o ‘accidenti’, li chiamavano, ufficialmente «acts of God». Io sopravvivo. Dunque sono stato prescelto, o sono stato escluso. Niente caso: volontà. Che spetta a me interpretare, questo sì. (…) È un’alternativa assoluta, ma mi si concede di scegliere. Io, l’eletto o il dannato. Con la curiosa caratteristica che sta in me eleggermi o dannarmi. E bisogna che mi decida”.
Cucirsi la propria prigione, tessere, in solitudine, la propria tela di ragno, recintare il proprio corpo con un immaginario filo spinato – gridano gli esperti – significa aver salva la vita.
Forse ci siamo accorti, solo ora, che questo – senza essere tacciati di misantropia, o fobantropia – che “la società, dopotutto, era semplicemente una cattiva abitudine”.
Linda Terziroli