Centauro alla cui corsa
la nube è fango e il vano vento è suolo,
volava Andrée, di là della Grande OrsaGiovanni Pascoli
Le fotografie, quei piccoli e unici frammenti della vita che abbiamo vissuto, ci sopravvivono, come piccole ossa. Sono la feroce, vera e bellissima testimonianza, un relitto, una reliquia della nostra esistenza terrena. Questo, o qualcosa di simile, deve aver pensato El Matt, il matto, come veniva chiamato il lodigiano Vittorio Beonio Brocchieri, quando fece sviluppare le fotografie della vecchia macchina fotografica rimasta accanto ai resti umani che lui aveva trovato sulla banchisa polare, il 28 agosto 1930. Era convinto di aver finalmente trovato i resti di Roald Amundsen, l’Aquila bianca della Norvegia.
Il grande Roald Amundsen era partito da Tromsø, quella era stata l’ultima volta che qualcuno l’aveva visto in vita, quel maledetto 18 giugno 1928. Era partito alla ricerca di Umberto Nobile, il suo rivale italiano, la cui spedizione con il dirigibile Italia si era rivelata un autentico fallimento. In quel caso, non si trattava di una nave, ma di un idrovolante. Era, infatti, francese l’idrovolante con cui era partito Amundsen, tra i ghiacci dell’Artico. Nel volo di prova, alla vigilia del viaggio, Albert de Cuvertille, il suo pilota, nel voltarsi per fare segno al motorista, aveva infilato, per sbaglio, una mano negli ingranaggi del Latham 47-II e aveva perso tre dita. Un segno del destino.
Ma, di fatto, non erano resti dell’Amundsen, ma di uno svedese, Salomon August Andrée quelli rinvenuti lassù dal Matto, in cima al mondo. La sua era la spedizione dell’estate 1897, la partenza era stata l’11 luglio. Come dimostravano i negativi sviluppati della sua macchina fotografica. La foto fece il giro del mondo attraverso i giornali e ritraeva due uomini – il terzo scattava la fotografia? – in piedi tra le lunghe corde che legavano la cesta alla mongolfiera – in verità un pallone a idrogeno – schiantata a terra, eppure ancora gonfia, ma fiaccata definitivamente, come un’immensa balena bianca ferita a morte.
Quando si dice: il primo amore non si scorda mai. Ti resta un pensiero in testa, l’ossessione di voler sapere tutto, esplorare, conoscere. E, poi, la gelosia pungente, a tratti, feroce. Fin da quella prima, maledetta, volta che abbiamo incrociato il suo sguardo.
Per Salomon August Andrée non si trattava di una donna. O, meglio, per la mamma aveva sempre nutrito un amore tenero, struggente, mai sazio di abbracci. Ma per lui era un luogo, lontano, impossibile, remoto. Quando osservi il mappamondo e il tuo sguardo finisce là dove quasi termina la carta. Le Svalbard. Così il male del Polo aveva iniziato a catturarlo e lui ad accarezzare il sogno, che poi divenne realtà di attraversare i cieli a bordo di un pallone a idrogeno. Nonostante le voci (e i venti) contrarie.
Era già autunno inoltrato quando la madre lo diede alla luce, paffutello e piagnucolante, tra doglie lancinanti, il 18 ottobre 1854. Primo e ultimo figlio della giovane agiata nobildonna svedese. Il parto troppo difficile, il dolore troppo aspro per ripetere l’impresa. Respirava già da un mese appena il piccolo Salomon, quando si abbatté su Gränna – un paesino fiaccamente adagiato vicino sul lago Vättern, da cui oggi salpano i traghetti diretti all’isola di Visingsö, nella contea di Jönköping, nel cuore della Svezia meridionale – una nevicata memorabile. L’anno successivo, il 1855, fu particolarmente piovoso, una primavera fredda e ventosa. Forse era questo il motivo – sosteneva, a distanza di tempo, volgendosi al passato, con la morte nel cuore, la madre di Andrée – che il piccolo Salomon, guardando, con i suoi grandi occhi chiari, dalla finestra, iniziò a cullare il sogno di librarsi in quel cielo misterioso e pieno di nuvole. Non era affatto vero che Andrée fosse “cinico e debole”, come, poi, si disse di lui. Anzi. La precoce morte del padre, avvenuta nel 1870, quando il ragazzo aveva sedici anni appena, aveva scavato un solco profondo nella sua anima, la nostalgia per quelle grandi e calde mani del padre improvvisamente gelide, nell’immobilità della morte. Orfano di padre, si avvicinò alla madre, fu sempre per lei un amore incontrastato e senza confini.
Era solo, ed era, soprattutto, un uomo innamorato dei ghiacci. La testa fra le nuvole. La passione per il Polo si impossessò di lui definitivamente a ventotto anni. Si accarezzava con due dita i suoi baffi folti e setolosi, sotto un naso dritto, lievemente aquilino, la mascella squadrata, il mento arrotondato, le orecchie grandi, un segno di generosità. Gli occhi limpidi e pieni di entusiasmo, il taglio leggermente in giù, era un uomo che oggi si direbbe, forse, volitivo. I capelli lisci e disciplinati, gli occhi limpidi, una volontà di ferro sorretta dal giovanile entusiasmo. Non era vero che era un perdente. È la vita a incollarci addosso le disgrazie. Forse era un sognatore, quando sognare un futuro radioso era ancora lecito. Andrée era uno svedese dall’ottimismo disarmante e forse era stata tutta colpa dell’eccessiva fiducia nelle tecnologie. Una fiducia malriposta che lo aveva portato al disastroso epilogo della sua bellissima avventura. Una colpa che, agli occhi di alcune donne (come Anna, la fidanzata di Nils), è rimasta, nel tempo, incancellabile. Una colpa che si accompagna ai due nomi, quelli dei valorosi ragazzi, i suoi compagni di viaggio, che ha trascinato per sempre con sé: Nils Strindberg e Knut Frænkel, un atleta con la passione di scalare le montagne.
Andrée amava vestirsi elegante, con la giacca inamidata e la camicia bianca, immacolata. Il papillon rettangolare al posto della cravatta, come si vede sfogliando l’album di famiglia. A ventotto anni ci era stato, per la prima volta, alle Svalbard, quelle terre terribili, impossibili, maledette. E ci aveva passato uno strano inverno, nella casa svedese, nell’Isfjorden. Era l’autunno e poi l’inverno 1882/1883. Aveva conosciuto là il grande esploratore Nordenskjöld.
Al secondo tentativo, dopo due giorni dal decollo dalle Svalbard, nel luglio 1897, Andrée e i suoi si erano schiantati sulla banchisa, il loro abbigliamento e i loro viveri erano del tutto inadeguati alla sopravvivenza. Come al solito, Andrée si era vestito troppo elegante. Non aveva pensato alle pelli di foca, alle mutande di lana grezza che adoperò in seguito Amundsen. A lui piaceva sentirsi bello, ammirato, un eroe dei cieli. L’ingegnere. Il pallone ad idrogeno era di eleganza e fattura parigina, la seta finissima per un pallone soprannominato l’Aquila, che si rivelò, più che altro, un aquilone. I tre reduci avevano marciato verso sud, sul ghiaccio alla deriva, fino a quando non erano arrivati a Kvitøya, l’isola bianca, che era completamente deserta. Lì, li colse il temibile inverno delle Svalbard che di loro, senza viveri e senza speranza di sopravvivenza, non ebbe pietà. Una tenda di seta sul pack che si crepava, sotto i loro stivali. I piedi ghiacciati. Le calze, piene di acqua si erano congelate. Quando Andrée si ritrovò senza possibilità di aiuto, ripensò a quel lontano inverno del 1882, quella volta, la prima volta, che subì il fascino delle Svalbard e abbracciò l’avventura del sorvolo polare. Anche lui, esattamente come altri esploratori dispersi a queste latitudini, si stava avvicinando alla morte, ne avvertiva il caldo fiato. Stava per salutare la vita, tra le gelide braccia dell’inverno polare.
Andrée sentiva costantemente una presenza accanto a sé. Era come sentirsi la morte addosso, nei vestiti fradici e ghiacciati che si incollavano al corpo, nel dolore al ventre che non l’abbandonava mai. In quello strano dolore che si insinuava nelle sue articolazioni, forse erano reumatismi, forse semplicemente lei, la morte, che, lentamente e inesorabilmente, schiudeva la sua morsa per poi aggredirlo definitivamente. I piedi ghiacciati che gli facevano male. Gli faceva così ribrezzo l’idea di morire in quel posto sperduto che, delle volte, sputava per terra. E il suo sputo faceva un rumore secco: era talmente freddo che cadeva come un proiettile di ghiaccio. Anche se non era solo, si sentiva solo, profondamente.
Di tanto in tanto gettava lo sguardo su quei due ragazzi – li separavano solo due anni, uno era nato nel 1872, Knut nel 1870 – e sentiva le loro giovani esistenze che si stavano sbriciolando, tra le sue mani ormai inservibili. Knut, in particolare, era nato nell’anno in cui era morto suo padre e questo era già stato un segnale. Aveva sedici anni in meno di lui, poteva essere suo padre. Knut e Nils erano abili esploratori, pronti all’avventura e con la testa piena di sogni. E lui li stava schiacciando con il peso di questo sogno fatto di idrogeno e corde. Lui ci credeva, ci aveva creduto e li aveva convinti, come un pifferaio magico, li aveva portati con sé in quella tenebra dove non c’era nulla, tranne una completa solitudine, nel mondo artico dove si devono interpretare i colori delle aurore boreali come messaggi divini, mentre ti proteggi le spalle dall’attacco di un orso. Orsi non ne mancavano lassù, sull’isola bianca. Ne avevano già uccisi diversi esemplari. Alcuni pesavano anche duecento chili. Andrée aveva imparato a riconoscere le femmine dai maschi. Erano le femmine che si avvicinavano di più alla loro tenda, più incoscienti e desiderose di nutrire i propri cuccioli. Erano le femmine di orso quelle più crudeli. E loro ne avevano ammazzate un po’. Macellare la carne di orso era un’impresa. E la carne diventava presto dura, immangiabile, gli dava il voltastomaco. Specialmente il fegato. Quando ammazzavano un orso, c’era un’atmosfera strana, sinistra, e tra le gambe sentivi la carezza sfuggente della volpe artica, che si mimetizzava nella notte polare. Vedevi, improvvisamente, brillare un paio d’occhi nell’oscurità.
Avevano iniziato a cedere i suoi compagni, sdraiati in preda a dolorosi spasmi all’addome, all’interno della tenda ricavata in parte dal tessuto di seta parigina del pallone. Avevano volti terrei, le iridi degli occhi corrose da macchie di forma strana. Sembravano usciti di senno. Knut e Nils. Non erano più quelli che lui aveva conosciuto.
Allora Andrée guardava le nuvole basse e scure nel cielo, si accarezzava la barba ormai lunga e i baffi bianchi di ghiaccio, camminava a zonzo per quella terra perduta, sprofondando sempre più nella solitudine. Pensava ai sogni di gloria, al desiderio che lo aveva accompagnato sin da quel primo, lontano incontro con l’esploratore Nordenskjöld. Come lui anche Andrée voleva farci fortuna, alle Svalbard.
Nei giorni di solitudine lancinante, scrisse le sue ultime lettere. Pensava al padre, ma soprattutto, pensava alla madre, ne sentiva una struggente nostalgia. L’avrebbe rivista? Si sarebbe rassegnata alla sua morte? Oppure sarebbe venuta fino a lì per abbracciarlo?
In una lettera rinvenuta sulla banchisa, Andrée aveva scritto alla mamma: “Sto bene”. È il 13 luglio 1897. Due giorni dopo la partenza, il giorno della rovinosa caduta. Nei suoi ultimi giorni di vita, sull’isola bianca, Andrée aveva iniziato a sentire delle voci. Non era la voce del vento, né il grido tremendo delle volpi o la voce degli orsi. Quelle voci lui le conosceva e le riconosceva. Erano le voci della sua infanzia, la voce carezzevole e un po’ roca di sua mamma. Lo stava chiamando. Era un ammonimento? Era arrivata chissà come anche lei su quella sperduta molecola di mondo?
Ascoltandola, ritrovava la cantilena delle sue ultime parole: “Salomon, non partire, ti prego!”. Le sue parole erano un ammonimento, un avvertimento che lui non aveva saputo, o non aveva voluto, cogliere.
I suoi resti, insieme a quelli dei giovani compagni, furono ritrovati per caso, in una spedizione, nel 1930. E furono scovati (e sviluppati) dal Matt quegli ultimi scatti che ritraggono Salomon August Andrée accanto a quella strana creatura rotonda, il pallone a idrogeno colpito a morte, fracassato sulla banchisa polare.
Quando i resti umani di quella spedizione artica furono riportati in Svezia, a Stoccolma si parlò di eroi nazionali. Erano eroi o incoscienti sognatori? Qual è il limite tra avventura e tragedia?
Negli anni Trenta, in Europa, spiravano nuovi venti forieri di disgrazie, come ebbe modo di raccontare il giornalista e aviatore, Vittorio Beonio Brocchieri. Fu lui a ritrovare, fortunosamente, i resti umani di Andrée e della sua spedizione. Era il 1930, erano passati ormai troppi anni. Trentatré. La madre dell’ingegnere svedese era morta da un pezzo. Quando non ebbe più sue notizie, la donna, ormai in età avanzata, aveva deciso di ritirarsi in casa, divenuta ormai un tempio di ricordi d’infanzia e della giovinezza di suo figlio. E si era messa al collo una piccola foto di Salomon a bordo di una tipica imbarcazione scandinava di legno.
Volle essere seppellita nel camposanto di Gränna con la catenina d’oro al collo. Non se ne separava mai. Negli ultimi giorni, diceva di sentire la voce di suo figlio.
Nell’ovale, la piccola foto del figlio ingegnere, Salomon August Andrée, il nome della sua amata e unica creatura e, sul retro, un’incisione, in piccolo, in corsivo: la mia aquila.