Di quello che viene chiamato l’ultimo dittatore d’Europa, il terribile Aleksandr Lukashenko, non si fa cenno nel romanzo. E neppure c’è scritto il nome della capitale bielorussa Minsk, che è la scenografia del romanzo. In Italia circola liberamente (e se ne deve parlare ad alta voce) da pochissimi giorni, grazie alle edizioni e/o, Ex figlio del giornalista, scrittore, presentatore bielorusso Saša Filipenko (traduzione di Claudia Zonghetti), un romanzo scritto in russo del 2012. Un libro che di fatto precede Croci rosse, in Italia sempre grazie a e/o.
Quando è iniziata l’invasione russa, avevo tentato, invano, di mettermi sulle tracce di Saša Filipenko. Anche perché quel suo primo romanzo pubblicato in Italia toccava la spietata decisione di Stalin di rifiutare l’aiuto offerto dalla Croce Rossa nei confronti dei prigionieri di guerra sovietici, che il dittatore considerava potenziali traditori. In un’intervista a Guido Caldiron de «il manifesto», di qualche mese fa, Filipenko, a proposito della guerra in Ucraina, ha detto: “in Bielorussia nessuno può parlare apertamente di quanto sta accadendo. Però a Mosca dove la repressione è meno crudele mi aspettavo che protestassero più persone”. Lui, ormai, in Bielorussia, non ci vive più, da un paio d’anni. Si considera un “ex figlio”.
Prendo appunti dall’intervista di Caldiron a Filipenko: “Sono stato costretto a lasciare la Bielorussia già lo scorso anno perché ero stato avvertito di un mio imminente arresto. Nel frattempo, la stampa ufficiale del mio Paese non ha smesso di denigrarmi, venivano citati anche degli articoli del codice penale in base ai quali rischierei fino a dodici anni di carcere. Intanto il Pen Center ha preso posizione riconoscendo come io sia vittima della censura in Bielorussia. Perciò la mia casa editrice di Zurigo, Diogenes Verlag, e la mia agente, Galina Dursthoff, mi hanno aiutato ad ottenere delle residenze letterarie prima con la Fondation Jan Michalski e poi con l’Atelier Mondial Basel, sempre in Svizzera. Guardo con orrore a ciò che sta accadendo in Ucraina e voglio fare tutto il possibile per fermare la guerra: molte persone definiscono ancora tutto ciò come una «crisi», quanto quella che è in corso è in realtà una guerra su vasta scala”.
Paradossalmente, Filipenko, nella premessa a questo romanzo, dichiara che il libro ha avuto una vita felice. Ha ottenuto uno dei più prestigiosi premi russi, il “Russkaja Premija” e “una valanga di elogi”. Con ironia che si fa pungente sarcasmo, l’autore dichiara che, per la gioia dell’autore e “profondo scorno del cittadino”, intere pagine del romanzo sono diventate realtà. Il romanzo, che appare in Italia dopo dieci anni dalla stesura, appare attualissimo. “Altrettanto lusinghiero per l’autore è che queste pagine abbiano attirato l’attenzione non solo di critici e lettori, ma anche del governo e delle sue istanze: i miei libri arrivano nelle librerie della Bielorussia, ma MAI sugli scaffali. Quanto alla Biblioteca nazionale di Minsk, ai responsabili è stato subito e fortemente raccomandato di non acquisirlo per alcun motivo”.
Ma che cosa ci sarà, poi, di così scandaloso e censurabile in questo romanzo? Al centro c’è un ragazzo, Francysk, che studia musica e che vive con una nonna all’apparenza rompiballe. Cysk, una sera, si ritrova prima imbottigliato poi calpestato dalla folla presa dal panico in un sottopassaggio della metropolitana e cade in un coma profondo, da cui sembra impossibile risvegliarlo. Lo abbandonano tutti: la madre, la fidanzata, gli amici. Soltanto la nonna gli rimane accanto e spera fino alla fine dei suoi giorni che si risvegli dal coma. A metà di questo romanzo mi è tornato in mente il celebre film tedesco del 2003 di Wolfgang Becker Good Bye, Lenin! in cui una madre di famiglia, Christiane entra in coma e si risveglia dopo otto mesi senza sapere che il Muro di Berlino è caduto e molte cose sono cambiate nella Germania che si sta riunificando. Ma i punti di contatto fra questo libro bielorusso e il film tedesco finiscono presto perché, nel romanzo di Filipenko, è il paese ad essere in coma e se anche il giovane Cysk si risvegliasse un giorno, fosse anche un decennio dopo, al risveglio non troverebbe, intorno a sé, un mondo diverso. Nessun cambiamento all’orizzonte perché in coma non è un ragazzo che studia musica, ma un intero paese, la Bielorussia, “un paese che fa da scenografia alla sua infanzia”.
“Da noi il tempo si è fermato. Riapre gli occhi là dove li aveva chiusi. Noi gli parliamo di differenze, mentre in realtà non è cambiato nulla. Sappiamo che, per guarire, il cervello ha bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi, di un qualche gancio dal passato, per intenderci. Beh, qui ne abbiamo a non finire! Quasi non ci sono cantieri, in questa città. Che non cambia mai. Se i nostri architetti amassero davvero il mestiere che fanno, si impiccherebbero per lo spavento e la noia! Qui da noi, se anche compaiono nuovi edifici sono comunque uguali a quelli vecchi di qualche decennio. E poi c’è tutta una serie di cose che addirittura lo riportano all’infanzia. Prendete i cartelloni pubblicitari, tutti quei manifesti da realismo socialista. Il nostro paese va all’indietro. Il piano quinquennale prevede di riportarci al 1980. O poco dopo, se proprio siamo fortunati”.
Speriamo che qualcosa cambi, come dice Filipenko, insomma, che il suo libro smetta di essere così attuale. Anche se le premesse attuali, al di là della letteratura, non sono poi tanto buone. Pochi mesi fa, infatti, l’ultimo dittatore d’Europa, grande amico di Putin ha dichiarato: “grazie a Dio abbiamo una dittatura”.
Linda Terziroli
*In copertina: photo Marco Pesaresi, Lungo la linea ferroviaria Transiberiana Mosca-Vladivostok, 1999 (Archivio fotografico Savignano sul Rubicone)