17 Novembre 2020

Questo è il tempo della veglia incessante. Un presepe in faccia alla notte dell’uomo

Nella nascita del Bambino ci sono elementi che paiono un codice, una regola. “Cesare Augusto” ordina “il censimento di tutta la terra”, dicono i Vangeli: ma come si può censire ciò che è in sovrannumero, ciò che è innumerevole, innumerabile? Cosa significa censo al cospetto di chi non ha patrimonio né patria e che è l’unica ricchezza plausibile? Il censimento è un peccato agli occhi di Dio, che per questo scaglia la peste contro Israele (2 Sam, 24). Il contagio che mescola il conteggio, lo smaschera, lo sprofonda. Eppure, nella Bibbia tutto è numerato: le tribù di Israele, i discepoli, la cifra dei nemici. Tutto è numerato nella Bibbia – e cifrato. Anche nel Giudizio – l’ultima cena ribaltata – ci sarà un censimento. Eppure, il Bimbo è poco meno di uno, essendo innumerevole – e la Famiglia è in fuga.

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Poi, si dice, ci sono pastori “che vegliavano nella notte”. Per giungere davanti alla gloria e alla meraviglia – fuga di luce che arde in una mangiatoia, in ciò che è scomodo – bisogna tenere gli occhi aperti, di notte. Tra l’angelo che pastura le stelle e il pastore che accudisce le bestie non pare esserci indifesa distanza. Sono i Magi, astrologi e sapienti di Persia, ad adorare il Bimbo, piuttosto, come fosse un fenomeno celeste (“abbiamo visto la sua stella da Oriente”); eppure, nel Libro è detto di non riferirsi ai maghi, di non rifugiarsi nei misteri dei mestatori del futuro, di non divinare mai ma di rivolgersi a Dio. Sembra che tutti gli esclusi – il pastore sconfina dalle proprie terre, e ci vuol poco a farne un poeta errante, a farlo guerriero di ventura – accorrano alla mangiatoia: di cosa vogliono mangiare?

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La strage dei bambini ordita da Erode è il terribile olocausto che incornicia la venuta di Dio sulla terra – un Dio fuggitivo, in Egitto, il luogo della prigionia di Israele, la culla in giunchi.

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Il Sacro Monte è una ricostruzione dell’Eden, profezia della Sion Celeste. La storia del Figlio passa dal deserto al bosco: è incapsulata tra gli alberi. Nel silenzio notturno – veglia sbrecciata di segni, foraggiata di folgori – sono i cervi, i caprioli, le civette e i lupi ad avvicinarsi alle edicole, ad ammirare, con carità e scetticismo, la vita di Cristo. Si onora il Bimbo e il Figlio che muore, dilaniato dalla tortura: ciò che non muta in mezzo alla muta del bosco. Ancor più belli sono i Sacri Monti anonimi, via dalle vie turistiche, tra vite transitorie, con quelle statue di artisti/artigiani che non hanno firma, che rifiutano la notorietà nella marea dei secoli. Si va a un Sacro Monte come dentro la mangiatoia – che altro è la cella se non una nascita vertiginosa, la culla verticale?

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L’ultimo ‘ordigno’ artistico creato dal gruppo Assarabas ha a che fare, nel tempo della morte perpetua, con la nascita, la veglia, l’attesa. Alcune figure del presepe, pastori in abiti del Nord, dalle facce screpolate, arse dalla rivelazione oppure impazienti – il Bimbo sorge nell’impazienza di essere massacrato, tra chi ne anela il pasto. Il gesto dada, gioco di dadi in faccia al tempo dei decreti, dei decrepiti, è la frase, di fianco alla statua del presepe, S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche. Se non hanno il pane, mangino le brioche, dicono, con fatale ricorrenza, i sovrani a chi brulica tra il popolo – Rivoluzione e Rivelazione si inseguono nel fibrillare delle serpi. Allo stesso modo, è vile la merce con cui si vuole sostituire il nostro desiderio originario. Il pastore non segue la sorte servile dei pasticceri di corte: veglia e digiuna per mangiare il corpo di Dio. L’uomo non mangia le brioche: mangia Dio. Non di solo pane vive l’uomo.

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Eppure, c’è qualcosa di più umano del presepio? Secondo la pia leggenda forgiata da Bonaventura da Bagnoregio, Francesco piange sopra il presepe, a Greccio: un battesimo. Con il pianto, si scorpora da sé il passato, si scopre che non esiste memoria, ma avvenimento. Il pianto: specchio di ciò che sarà.

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“La luce e le tenebre, la vita e la morte, le cose a destra e quelle a sinistra, sono tra loro sorelle. Non è possibile che si separino. Per questo né i buoni né i cattivi sono cattivi né la vita è vita né la morte è morte. Per questo ogni cosa si risolverà nel suo principio, all’inizio”, si dice nel Vangelo di Filippo. Nel discorso “in occasione del centenario della nascita di Dostoevskij”, La lotta contro le evidenze, Lev Šestov, come fosse una chiave, un piccolo foro nel muro, scrive, al principio, una frase di Euripide, “Chi sa se forse vivere è morire e morire è vivere”. Tutto è a contrario e il vigore della ragione è niente rispetto al miracolo. Ma come si vive dentro il miracolo? Come si può vivere sugli alberi, nel richiamo?

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Dentro ogni notte, nel fondo, esiste una culla, azzurra: per alcuni è la iena del giorno, per altri è segno che qualcosa non muore mai. “E gridavano: ‘Sentinella, quanto resta della notte?’… E la sentinella risponde: ‘Viene il mattino, torna la notte; investigate, fate domande, convertitevi, tornate’” (Is 21, 12). “Non dormiamo, come gli altri: siamo nella veglia, temprati”, scrive San Paolo. Questo è il tempo della veglia incessante.

Alicia Sander

*In copertina: una Natività nello schizzo di Carel Fabritius (1622-1654)

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