Siamo sin troppo abituati, assuefatti, intossicati e impoveriti nell’animo dal virtuale, dalla facilità e infelicità di messaggi di poche sillabe, poche sillabe stuprate da crasi, crasi che poi diventano la regola. Regola che poi ci incatena in un mondo dove nessuno, sa più cosa voglia dire scrivere. Scriversi. Poi ti capita tra le mani un libricino Lettere a un giovane poeta, che ci racconta delle lettere di Rainer Maria Rilke ad un giovane che poeta non lo è mai stato. Ma aspira ad esserlo e si rivolge a lui quale nume tutelare. Franz Kappus, è questo il giovane. Franz Kappus non ancora ventenne, combattuto tra l’aspirazione poetica e la prospettiva di una carriera militare. Ma Franz Kappus, è in realtà solo un comprimario, prescindibile comprimario. La bellezza la troviamo nelle risposte di Rilke. Lettere di una beltà indicibile. Lettere sicuramente sprecate traboccanti di esiziali (in)certezze sulla vita. Lettere scritte in bilico tra la sofficità delle nuvole e le sferzate di mannaia, che rivelano quale sia il destino miserabile dell’uomo,quale salvifica meraviglia si celi nella solitudine, quale rifugio disseminato di fiori e trappole sia l’amore:
“Anche amare è bene: ché l’amore è difficile. Voler bene da uomo a uomo; questo è forse il più difficile compito che ci sia imposto, l’estremo, l’ultima prova e testimonianza, il lavoro, per cui ogni altro lavoro è solo preparazione. Perciò i giovani, che sono principianti in tutto, non sanno ancora amare: devono imparare. Con tutto l’essere, con tutte le forza, raccolte intorno al loro cuore solitario, angosciato, che batte verso l’alto, devono imparare ad amare. Ma il tempo dell’apprendere è sempre un tempo lungo, di clausura, e così amare è, per lungo spazio e ampio fino dentro il cuore della vita, solitudine, più intensa e approfondita solitudine per colui che ama. Amore anzitutto non vuol dire chiudersi, donare e unirsi con un altro (che sarebbe infatti l’unione di un elemento indistinto, immaturo, non ancora libero?), amare è un’angusta occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualche cosa, diventare mondo, un mondo per sé in grazia d’un altro, è una grande immodesta istanza che gli vien posta, qualcosa che lo elegge, e lo chiama a un’ampia distesa. Solo in questo senso, quale comandamento di lavorare a sé (di origliare e martellare tutto il giorno e notte) giovani creature potrebbero usare l’amore, che vien loro dato. Espandersi e offrire ogni sorta di comunione non è per esse (che ancora a lungo, a lungo devono risparmiare e accumulare); è il coronamento, è forse quello, per cui vite di uomini oggi non bastano ancora”.
Non si può che farsi inabissare, da questo stralcio, in un turbinio di pensieri. E questi pensieri non possono non che rimandare e infine posarsi sulla figura di Marina Cvetaeva, cui amore sì estemporaneo, sì dirompente, sì devastate proprio con Rilke era scritto nel destino. Nel destino di entrambi. Nel destino dell’amore quale entità suprema, illusoria e suicida. Amore vissuto proprio attraverso le lettere. Lettere di essenziale meraviglia (quelle di Marina a Rilke le troviamo in Deserti luoghi, edito da Adelphi). Rilke non sa ancora che la leucemia è dietro l’angolo pronta a tendergli il mortale agguato. Attraverso (l’immenso) Boris Pasternak arriva a Marina e cominciano a scriversi. La vita di Rilke terminerà di lì a poco. Marina vent’anni più tardi, nell’inevitabile epilogo.
Ma la trama principale tessuta in Lettere a un giovane poeta è la solitudine. Scritta e spiegata senza la necessità, a Rilke sconosciuta, di essere compiacente verso l’interlocutore:
“C’è solo una solitudine e quella è grande e non è facile a portare e a quasi tutti giungono le ore in cui la permuterebbero volentieri con qualche comunione per quanto triviale e a buon mercato, con l’apparenza di un minimo accordo col primo capitato, col più indegno… Ma sono forse quelle le ore in cui la solitudine cresce; ché la sua crescita è dolorosa come la crescita dei fanciulli e triste come l’inizio delle primavere. Ma questo non vi deve sviare. Questo solo è che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine. Penetrare in se stessi e per ore non incontrare nessuno, – questo si deve poter raggiungere. Essere soli come s’era soli da bambini, quando gli adulti andavano attorno impigliati in cose che sembravano importanti e grandi, perché i grandi apparivano così affaccendati e nulla si comprendeva del loro agire. E quando un giorno si scopre che le loro occupazioni sono miserabili, le loro professioni irrigidite e non più legate alla vita, perché non continuare come bambini a osservarle come cosa estranea, dalla profondità del proprio mondo, dalla vastità della propria solitudine, che è anche lavoro e grado e professione? Perché voler mutare la sapiente incomprensione del bambino con la difesa e il disprezzo, poi che l’incomprensione è solitudine, ma la difesa e il disprezzo partecipazione a quello di cui ci si vuole separare con questi mezzi”.
E ci si inabissa ancora e poi ancora, in turbinii di pensieri sempre più pericolosi, tesi a toglierti le rimaste certezze. S’odono assordanti echi dal sottosuolo di Dostoevskij e di quel che sarà uno dei tanti fili d’Arianna disseminati e spezzati a dovere nel labirinto di Thomas Bernhard (nato proprio in quegli anni a Salisburgo). Perdersi nelle lettere, nei labirinti, nella poesia. E forse tutto quel che ci rimane per restare umani. Per ridiventare umani. E se ci troviamo nel posto sbagliato al momento sbagliato, basta quel libro sullo scaffale, bastano matita e carta bianca. E dimenticare, per un attimo, per ore, per giorni, quel led luminoso che ci affoga nel nulla.
Cosimo Mongelli