
“Io ho ingoiato il sole”. Hu Shi e Guo Moruo: sulla poesia cinese del Novecento
Poesia
a cura di Andrea Corsi
Insomma: Arthur Waley ha ricostruito l’Estremo Oriente in un angolo di Londra, intuiva monaci taoisti nelle lande inglesi, la corte del Mikado tra le torbiere, all’ombra di Stonehenge. Di origine ebraica – askenazita –, figlio di un economista, Arthur David Schloss – questo il nome autentico – nacque nel Kent, nell’agosto del 1889, studiò al King’s College, cominciò al British Museum, nella sezione manoscritti orientali, sotto la tutela di Laurence Binyon, poeta, sinologo per passione, che amava William Blake e avrebbe realizzato una notevole traduzione della Divina Commedia. In questo ambito, in cui l’estro letterario si confonde con la ricerca scientifica, nacque l’anomalo talento di Arthur Waley, che con infaticabile passione ha tradotto, dal 1918 – l’anno in cui pubblica A Hundred and Seventy Chinese Poems – fino alla morte i libri più importanti della letteratura classica cinese e giapponese. La lista dei suoi lavori è impressionante: dal Tao The Ching – reso come The Way and Its Power, 1934 –, il testo chiave del taoismo, agli Analecta di Confucio (1938), dalle poesie di Li Po (1950) al teatro Nō giapponese (1921), dalle Note sul guanciale di Sei Shōnagon (1928), al Libro segreto dei Mongoli (1963), si può dire che Waley abbia “inventato” l’Oriente ad uso occidentale.
Naturalmente, fu Ezra Pound – pioniere nel setacciare papiri d’Oriente – a pubblicare le prime traduzioni di Waley, sulla “Little Review”: non gli piacevano troppo (ravvisava “difetti nella resa ritmica”); Waley si difese, alla capriola poetica preferiva la resa contenutistica, pur non priva di enigmi. Dal canto suo, William Butler Yeats adorava Waley, tanto da inserire nell’Oxford Book of Modern Verse, la raccolta – anarcoide, capricciosa, superba – dei massimi poeti inglesi del suo tempo, The Temple, la traduzione di un lungo poema di Po Chü-i, sommo poeta cinese di epoca T’ang. Il nome di Waley, così, figura tra Ezra Pound, Siegfried Sassoon, Edith Sitwell e Thomas S. Eliot tra i massimi lirici d’Albione. Qualcosa di analogo, tempo dopo, accadrà a Salvatore Quasimodo, di cui si tendono ad antologizzare come poesie proprie le traduzioni dei lirici greci: rari, purissimi casi di consustanzialità tra tradotto e traduttore.
Ad ogni modo, le traduzioni di Waley – di cui qui proponiamo un florilegio dai poeti classici cinesi – valgono ancora. Adelphi edita Lo scimmiotto di Wu Ch’êng-ên, “uno dei grandi romanzi classici cinesi”, nella versione “dal testo inglese di Arthur Waley”. Per decenni, per altro – prima del lavoro epocale di Maria Teresa Orsi –, abbiamo letto la Storia di Genji il Principe Splendente, capolavoro della letteratura giapponese composto da Murasaki Shikibu, nella versione approntata da Waley tra il 1925 e il 1933. Ancora nel 1981 Alfredo Giuliani difendeva l’opera di Waley, accusato di aver “meravigliosamente ricamato e abbellito il testo di Murasaki rendendolo più prolisso”:
“Resta il fatto che la Murasaki conosciuta da noi è stata finora quella ritradotta dall’inglese fluente e pacifico di Waley. Per il momento, conviene tenersi questa Murasaki…”.
Come a dire, l’autorità lirica del traduttore vince sulla correttezza del testo tradotto; la poetica sovrasta l’accademia.
Piuttosto, Waley è uno degli esploratori che hanno portato l’Oriente nel salotto occidentale. Fu, questa, in effetti, una rivoluzione, etica ed estetica, che ha coinvolto Ezra Pound – Cathay, la traduzione-rifacimento di alcune poesie classiche cinesi esce a Londra, per Elkin Mathews, nel 1915 –, William B. Yeats – che fonde il Nō giapponese al teatro irlandese e che traduce alcune Upanishad –, Thomas S. Eliot (La terra desolata è trafitta da visioni buddhiste); il passaggio di Tagore a Londra, nel 1912, risultò un tassello decisivo. La scoperta della grande letteratura orientale – al di là delle “giapponeserie” di Lafcadio Hearn e le favole indiane di Rudyard Kipling – è stato un momento sconvolgente, necessario per smobilitare le forme sature, statuarie dell’arte d’Occidente. In Francia, al seguito di Paul Claudel – il poeta fu console a Shangai nel 1895, e ambasciatore a Tokyo dal 1922 –, una generazione di scrittori insegue il sogno orientale: da Victor Segalen – Stèles, reinvenzione di epigrafi cinesi, è del 1912 – a Saint-John Perse – segretario della legazione francese a Pechino dal 1916 al 1921, scrive Anabase in un tempio taoista diroccato – e André Malraux. Contestualmente, nasce una generazione di studiosi da Jacques Bacot e Paul Pelliot a Giuseppe Tucci, da J. J. L. Duyvendak ed Arthur Waley, appunto.
A differenza di costoro, Waley era un corsaro da scrivania: autodidatta, praticava le lingue antiche con la gioia del sognatore. Non andò mai in Cina o in Giappone: perlustrava quei paesi, provinciali alle nuvole, leggendo i poeti che andava traducendo. Preferiva la trasfigurazione alla realtà, il labirinto dei paraventi alla verità della carne. Nel ritratto che gli ha fatto la femminista Ray Strachey sembra intagliato nel legno, ha le labbra strette, dote di un uomo dai gusti raffinati. Frequentava i ragazzi di Bloomsbury, era amico di Osbert Sitwell, immaginava che le nebbie londinesi non fossero diverse da quelle che marmorizzano in una onirica immortalità i monasteri della lontana Cina. Ovunque vedeva il drago.
Morì ricco di onori, questa figura irripetibile di studioso vagabondo, libero di errare con dedizione e capriccio, il 27 giugno del 1966, naturalmente a Londra. Gli amici dicono che negli ultimi giorni Arthur Waley rifiutò i sedativi, “nonostante il dolore, voleva restare vigile, per guardare il volto della fine”, ricorda Sacheverell Sitwell. Aveva chiesto che gli leggessero, al capezzale, gli amati poeti cinesi; in sottofondo, suonava un quartetto di Haydn. Eccolo, il simbolo stranito dell’uomo occidentale, che porta l’opera in Amazzonia o importa l’Oriente a sorseggiare il Tamigi.
***
Il liberatore
Un’allegoria politica
Wu-ti, imperatore della dinastia Liang (464-549)
Tra gli alti alberi – venti dolenti:
le acque dell’oceano – raffiche di onde.
Se la spada affilata non è nelle tue mani
come puoi sperare di avere tanti amici?
Non vedi il passero sul cancello?
Attento al falco, finisce nella trappola.
Il cacciatore è felice perché ha catturato il passero
il Giovane ne è addolorato: prende la spada
e taglia la rete. Il passero giallo vola via
lontano, presso i cieli blu:
torna soltanto per ringraziare il Giovane.
*
L’altro lato della valle
Sono prigioniero, nelle mani del nemico,
sopporto la vergogna della prigionia.
Le mie ossa esondano, la forza è svanita
non ho nulla da mangiare.
Mio fratello è un mandarino
e i suoi cavalli si nutrono di mais.
Perché non tiene da parte un po’ di soldi
per potermi riscattare?
*
Sulla barca, in autunno
Lu Yu (1125-1210)
Navigo sulla barca leggera;
il mio cuore sussulta tra ventate di gioia.
Attraverso i rami spogli vedo il tempio nel bosco;
il ruscello si stringe, un ponte lo valica.
Lungo i sentieri, pecore e vacche;
il villaggio è afflitto dalla nebbia:
gru e gazze si lamentano.
Torno a casa e bevo una coppa di vino:
non temo l’avidità del vento, della sera.
*
Alla moglie
Dal generale Su Wu (100 a.C. circa)
Da quando i nostri capelli si sono intrecciati
e siamo marito e moglie, l’amore tra noi
non è mai stato incline al dubbio:
restiamo allegri anche questa notte
e giochiamo finché il tempo lo concede.
Ricordo d’improvviso la distanza che devo percorrere;
salto giù dal letto e guardo l’ora.
Le stelle e gli astri sono offuscati:
lunga è la via, troppo lunga. Non posso restare.
Vado sul campo di battaglia
e non so quando farò ritorno.
Ti tengo la mano nel nodo di un sospiro:
a dopo le lacrime, nei giorni del distacco.
Godi dei fiori di primavera, con ogni gemito,
ma non dimenticare l’orgoglio del nostro amore:
se vivo, tornerò da te
se muoio, saremo uno nel pensiero.
*
Sogni di un giorno
Tso Ssŭ (III secolo)
Da bambino, giocavo con una spazzola
ed ero appassionato di libri.
In prosa, preferivo Chia I
imitavo i versi di Ssŭ-ma Hsiang-ju.
Quando le frecce hanno cominciato un canto
alla frontiera, il richiamo ha tenuto in ostaggio la Città.
Sebbene le armi non siano la mia professione
una volta ho letto un libro di guerra
e le mie grida hanno squarciato il cielo:
mi sentivo come se il nemico fosse già sconfitto
il coltello di uno studioso taglia bene al primo colpo
e con i sogni mi affretto a completare il mio piano.
In un attimo, ripulisco lo Yangtze e lo Hsiang,
mi basta un colpo di ciglia per sedare tibetani e Hu.
Quanto finirò il mio compito, non accetterò alcuna contea:
il rifiuto sigillato da un inchino, un rifugio tra i monti.
*
Rimpianto
Yüan Chi (210–263)
Da ragazzo ho appreso l’arte delle armi:
eccellevo sopra i generali.
Il mio spirito era alto come le nubi che rotolano
la mia fama risuonava oltre i muri del mondo.
Ho condotto la mia spada sulle sabbie del deserto
il mio cavallo si è abbeverato presso i Nove Mori.
Sono miei gli stendardi che sventolano, non si ode
altro oltre l’inno dei tamburi che mi appartengono.
Ma la guerra e i viaggi mi hanno reso triste,
ira feroce mi infiamma: pensare
al tempo che ho sprecato… strappo
il cuore da questa furia.
*
Dimmi
Wang Chi (700 circa)
“Dimmi, cosa dovrebbe volere un uomo
se non stare da solo e sorseggiare una coppa di vino?”.
Preferirei discutere con i filosofi
piuttosto che incontrare l’esattore.
I miei figli si sono accasati in buone famiglie
le mie cinque figli hanno buoni mariti.
Potrei scegliere la felicità, allora:
infine, del Paradiso riesco a fare a meno.
*
Il vento d’autunno
Han Wudi (157 a.C.-87 a.C.), sesto imperatore della dinastia Han, salì al trono a sedici anni. In questa poesia si rammarica di dover lasciare la capitale, da lui amata, per compiere un viaggio ufficiale. Seduto su una chiatta, è circondato dai ministri.
Si alza il vento d’autunno: volano nuvole bianche.
L’erba e gli alberi appassiscono: le oche preferiscono il sud.
Orchidee in fiore, crisantemi dal profumo acre.
Penso alla mia amata, che mai dimentico.
La barca ondeggia sul fiume Fen.
Dall’altro lato, si impennano onde bianche.
Flauti e tamburi scandiscono il tempo dei rematori;
pensieri tristi lacerano la festa e il banchetto;
breve è il tempo della gioventù, l’età tutto sottomette.
*
Le persone nascondono il loro amore
Han Wudi (156 a.C.-87 a.C.)
Chi dice
che è mio desiderio
questa separazione, vivere lontano da te?
Il mio vestito sa ancora della lavanda che mi hai donato:
la mano stringe la tua lettera.
Intorno alla vita indosso una doppia fascia:
sogno che leghi entrambi, unico nodo al cuore.
Non sai che le persone nascondono l’amore
come il fiore troppo prezioso per essere colto?
*
Canzone taoista
Ji Kang (223-262)
Rifiuterò la Saggezza, rigetterò la Conoscenza.
I miei pensieri vagheranno nel Grande Vuoto.
Pentirsi sempre dei torti compiuti
non permette al cuore di riposare.
Getto l’amo in un solo fiume,
ma la mia gioia è più vasta di un regno.
Perdo i capelli e canto,
alle quattro frontiere gli uomini si uniscono
alla mia filastrocca. Questo è il cardine del canto:
“I miei pensieri vagheranno nel Grande Vuoto”.