La bellezza è tale perché appena la raggiungi si sbriciola, lasciando una eredità di malinconia, di neve. La storia di Genji (“Genji monogatari”), il primo romanzo del pianeta, scritto intorno all’anno Mille da dama Murasaki Shikibu, esplicita la visione del mondo giapponese e tratteggia caratteri umani esemplari. Sembra la sintesi, in kimono, di Dante, Shakespeare e Marcel Proust. Quel libro sommo e gigantesco – quasi 1400 pagine nell’edizione italiana – mi sembra, infine, un fiore di vetro: è così bello che ogni volta che lo leggo ne esco ferito, nel sangue – e bisogna leggerlo con tatto, con il rischio che s’infranga. Giace sul mio comodino. Spesso lo apro, a caso, per entrare in quella civiltà di paraventi e di donne saggiate dall’ombra, di relazioni d’amore pattuite nell’enigma di un verso, di rancori frenati, di efferatezza della mente, di allusioni e di fraintendimenti, di anime sarchiate dalla reincarnazione, raffinate dalla rassegnazione. Tutto sta nel governo delle emozioni, nella rabbia decimata in un cartiglio, dove balugina una poesia, nella frazione di una fioritura, assecondando i moti della vita di Genji, figlio dell’Imperatore del Giappone. La corte, di fatto, è una specie di sistema solare, ma è anche misura dell’abisso che ci morde. “Essendo nato in questo mondo in una posizione privilegiata, non vi era nulla di cui dovessi essere insoddisfatto, ma d’altro canto non posso fare a meno di pensare di aver avuto un destino molto più infelice di quello della gente comune. Forse ciò è avvenuto perché il Buddha voleva che mi rendessi conto della tristezza e della caducità della nostra vita… ora che sono consapevole del mio destino e dei miei limiti, mi sento in qualche modo libero”. Del “Genji” ho le edizioni disponibili in Italia: quella di Adriana Motti (Einaudi) e di Piero Jahier (Bompiani), entrambe, però, condotte sulla versione inglese di Arthur Waley. Nel 2012, per Einaudi, Maria Teresa Orsi ha compiuto l’impresa di tradurre per intero La storia di Genji dal giapponese antico: una avventura culturale straordinaria. Antonio Moresco condivide con me l’amore, inesauribile, verso il “Genji”: “È stata una folgorazione… Io non lo so perché amo tanto questo libro e quel modo particolare di narrare… Questo libro per me è un magnete”, scrive ne Lo sbrego. Io amo quel libro perché ti costringe ad arrenderti: è come se quella donna giapponese, mille anni fa, sia riuscita a capire, interamente, in ogni più infima peculiarità, l’uomo, le sue emozioni; come se sotto il kimono custodisse tutta l’umanità – a volte la scambio con la Madonna della Misericordia di Piero della Francesca, con il manto aperto ad abbracciare tutti, anche chi non ha coraggio di richiesta. Da tempo desideravo dialogare con Maria Teresa Orsi: per me è un idolo. Leggendo Murasaki Shikibu, quegli squarci meravigliosi (sentite che soave tinnio: “La casa, già malandata prima della morte del padre, era divenuta rifugio per le volpi, fra gli alberi, così incolti e trascurati da essere quasi lugubri, si udiva mattina e sera la voce della civetta, e se un tempo creature misteriose, trattenute dalla presenza umana, si nascondevano alla vita, ora spiriti dei boschi e altre inquietanti presenze si manifestavano spavalde…”), ignaro del giapponese ‘medioevale’, leggo lei, in fondo. Già docente di Lingua e letteratura giapponese a Roma, la Orsi, tra l’altro, ha curato il doppio ‘Meridiano’ Mondadori dei Romanzi e racconti di Yukio Mishima, ha tradotto, per Marsilio, Ueda Akinari, Natsume Soseki, Sakaguchi Ango… tutti autori che dormono nella mia libreria. Finita la lettura di questa intervista, vi prego, infilatevi tra le pagine del “Genji”, è una esperienza estetica, e dunque spirituale: “Le tenebre del cuore oscurano la via e forse posso seguirvi solo fino alla barriera… Egli era sopraffatto dall’emozione e i suoi occhi arrossati di pianto apparivano di un indicibile fascino. Esiste un motivo per cui io non vi dimentichi e spero al più presto possiate rendervene conto”. Il “Genji” non è un libro, ma un millennio, un cosmo in cui siete inclusi anche voi, anche se non lo conoscete, perché è la vita stessa, trascritta. (d.b.)
“La storia di Genji” è un lavoro di traduzione ‘omerico’, mi pare. Da un lato, dama Murasaki Shikibu viene quasi tre secoli prima di Dante, dall’altro pare il preludio a Proust. Di certo, la sua sconvolgente modernità è frutto di una lettura da qui, dal XXI secolo, eppure, in quel libro c’è qualcosa di magico. Mi aiuti a capire cosa.
Non credo che la “sconvolgente modernità” sia solo frutto di una nostra lettura. In fondo, il Genji monogatari, scritto nell’anno Mille o giù di lì, ha una conformazione sorprendentemente vicina ad un concetto di “romanzo” in senso moderno: la centralità della dimensione privata, la presenza di personaggi ben definiti che riescono a non cedere allo stereotipo, il ruolo dell’eros, la presenza di una realtà interiore accanto a quella esterna dell’ambiente in cui si svolgono le vicende narrate. Tutto questo inserito in una cornice linguistica di espedienti retorici non troppo lontani da quelli che hanno dato forma alla prosa più celebrata del “nostro” Novecento: periodi lunghissimi, costellati di incisi, nessuna soluzione di continuità fra l’intervento “arbitrario” della voce narrante e le riflessioni dei protagonisti o – al limite – un finale “aperto” che non offre soluzioni ma lascia spazio a tutte le ipotesi. Per contro, resta invece indissolubilmente legato al tempo e all’ambiente in cui Murasaki è vissuta il ricorso continuo a poesie inserite nel testo, a citazioni, quasi sempre implicite, di tutto un patrimonio letterario coevo o antecedente, giapponese ma anche cinese. E ancora, resta il fatto che il mondo descritto e vissuto dall’autrice resta lontanissimo dal nostro, in termini sia di tempo sia di spazio sia, soprattutto, di ambiente sociale. Forse la magia di cui lei parla sta proprio in questo sovrapporsi di piani e realtà che nel momento stesso in cui sembrano disposti a dialogare con il lettore (o se preferisce con il traduttore) si chiudono inesorabilmente.
Nell’introduzione al ‘Genji’ lei vede nell’aware uno dei temi dominanti del libro, forse la melodia di quel ‘regno splendente’ nel ‘mondo fluttuante’. Che senso hanno le relazioni, le emozioni, la vita, insomma, nel chiostro romanzesco di dama Murasaki?
Aware è un termine che all’interno del Genji monogatari ha un’ampia gamma di significati che vanno da emozione, turbamento, malinconia, fino ad ammirazione per ciò che è bello e che può commuovere; è stato poi successivamente identificato da commentatori e studiosi (in particolare nel XVIII secolo) come l’ideale estetico che permea la Weltanschauung dell’aristocrazia di Corte durante l’epoca Heian (VIII-XII secolo) – e che pervade tutto il Genji monogatari – caratterizzato dalla partecipazione emotiva nei confronti della bellezza presente nella natura e nella vita umana, sempre accompagnata dalla consapevolezza della sua fragilità. Detto questo, le emozioni, ovviamente quelle relative ai rapporti umani, ma anche intese come risposta allo scorrere del tempo, all’alternarsi delle stagioni, alla bellezza del paesaggio, quello naturale e quello ricostruito nei giardini, alla eleganza, all’attenzione e alla cura riservata alle sfumature dei colori dell’abbigliamento fino all’uso di un particolare tipo di carta per scrivere lettere o poesie, all’apprezzamento della musica, della poesia, della danza e (non ultimo) dell’amore, danno sostanza al concetto di eleganza raffinata (fūryū), concetto essenziale, imprescindibile, che condizionava ogni aspetto dei rapporti sociali dell’aristocrazia del tempo, così come ce la presenta una dama di Corte conosciuta con il nome di Murasaki Shikibu.
Che presa ha il ‘Genji’ nel Giappone odierno, ne dice ancora i caratteri interiori, i moti del cuore?
Niente sembra essere così lontano dal Genji monogatari come il moderno Giappone, industrializzato, tecnologico, esponente di punta (almeno nelle grandi città) del consumismo e dell’efficienza. Eppure a ben riflettere qualcosa rimane: il rispetto per la forma, il gusto della ritualità, l’attenzione rivolta al passare delle stagioni, la necessità di partecipare a cerimonie collettive annuali, o, se proprio vogliamo esagerare, la scarsa incidenza di tabù sessuali. Ma a parte questo, proprio il Genji monogatari, inteso come prodotto culturale, resiste nel campo della letteratura, ma anche e soprattutto in quello dell’immagine, attraverso il cinema, l’anime e i manga. Non solo Tanizaki, ma anche altri scrittori hanno proposto una traduzione in giapponese moderno: fra le più conosciute, al punto da diventare un best seller, quella della scrittrice Setouchi Jakucho, apparsa fra il 1996 e il 1998 ha avuto un enorme successo anche fra i più giovani. Per non parlare della versione in manga, intitolata Non farò sogni effimeri, pubblicata a puntate su una rivista per adolescenti dal 1979 al 1993 e poi raccolta in volumi e apparsa in varie edizioni, tascabili e non, dal 1992 almeno fino al 2008 e forse anche oltre. D’altro canto, una delle caratteristiche del Genji è stata proprio quella di riproporsi, nel corso dei secoli attraverso diversi mezzi di comunicazione, assumendo vari e differenti ruoli, in quelli che potremmo chiamare, citando Jauss, i «processi di esperienza» messi in atto da parte di lettori, commentatori, critici e così via . Allo stesso tempo, nei mille anni intercorsi dal momento in cui il Genji monogatari è stato scritto, al processo di canonizzazione e ri-canonizzazione, verificatosi in diversi momenti e in diversi ambiti culturali, si è accompagnato un altrettanto rilevante percorso di popolarizzazione, che ne ha modificato, in modo spesso radicale, forma e contenuti, ma che a sua volta ha creato modelli e proposto diverse «immagini» del Genji monogatari, intendendo «immagine» nel senso più ampio di tutte le possibili riproposte e sostituzioni del testo, dai dipinti alle riscritture, dai commentare alle allusioni poetiche.
Attorno a ‘Genji’ ruotano, necessariamente, i grandi giapponesi del ‘900: Tanizaki (che lo traduce), Kawabata (che a noi occidentali pare corrispondere alla nostra idea romanzesca di Sol Levante), Mishima (a cui costantemente ritorna, come emblema della tradizione). Eppure, i ‘Grandi Tre’ sono stati svezzati, per così dire, dalla grande letteratura decadente europea, da Poe a Wilde, sono stati segnati da Thomas Mann (penso a Mishima) e da Baudelaire e Dostoevskij. Come si tempera e tempra, in loro, la tradizione estetica giapponese con quella letteraria occidentale?
Verissimo che la maggior parte degli scrittori giapponesi e non solo i nuovi “classici (Mishima, Tanizaki e Kawabata) sono cresciuti metabolizzando la letteratura occidentale; del resto anche altri, in anni più vicini a noi (vedi per tutti Oe Kenzaburo e Murakami Haruki), non sfuggono a questa realtà. Ma allo stesso tempo credo che tutti siano consapevoli e accolgano l’eredità di una propria tradizione ricchissima, che si è formata attraverso secoli di scambi e suggerimenti culturali “esterni” elaborati e sviluppati in autonomia. Una tradizione giapponese intesa nel suo significato più positivo, ossia non come qualcosa di stabilito e immutabile, ma che implica conflitti e cambiamenti, resta saldamente nella coscienza culturale e convive con un mondo che più che esterno o occidentale definirei globalizzato.
Su Mishima lei ha curato il doppio ‘Meridiano’ Mondadori. È corretto intenderne l’opera come intrisa di un profondo anelito alla morte, come se la morte fosse la cristallizzazione di una bellezza irraggiungibile? In ogni caso, qual è l’opera di Mishima a suo avviso più rappresentativa?
Pur riconoscendo Mishima come una delle voci più originali e provocatorie del secolo scorso, ho sempre provato una certa diffidenza, non tanto nei suoi confronti quanto nell’immagine che attorno a lui è stata costruita e diffusa, forse con la stessa narcisistica complicità dello scrittore, in Giappone ma soprattutto all’estero. Certamente alcune sue opere ruotano attorno a una esasperata rappresentazione del binomio morte/bellezza, eros /thanatos, ma spesso questo elemento ha messo in ombra altre valenze riconoscibili nella produzione dello scrittore: l’ispirazione derivata dalla letteratura classica e dal mondo cortese da cui ha preso vita; la creazione di personaggi femminili accuratamente cesellati nelle loro complesse sfumature psicologiche, i procedimenti “teatrali” di alcuni suoi racconti, che gli derivavano dalla consuetudine con il teatro no e kabuki, la capacità di elaborare con altrettanta sicurezza un quadro impietoso della classe politica contemporanea e la storia di un amore adolescenziale nato su un’isola di pescatori. Di Mishima apprezzo alcuni racconti brevi, non so quanto “rappresentativi” in senso assoluto: La morte di Radiguet e L’amore dell’abate di Shiga (inclusi nella raccolta dei Meridiani), e poi alcune sue opere teatrali: Madame De Sade, per esempio. Fra i romanzi sicuramente sceglierei il primo volume della quadrilogia Il mare della fertilità: Neve di primavera che dichiaratamente è nato come una storia d’amore sul modello della letteratura classica.
Al di là dei ‘Grandi Tre’, qual è l’autore giapponese della contemporaneità che più la convince? Ricordo che mi fece una certa impressione (positiva, intendo) la lettura di Sakaguchi Ango, ad esempio.
Ho tradotto quasi sempre autori che mi convincevano e che ho scelto proprio per simpatia. Non so poi per quale strana congiunzione astrale è risultato che siano per lo più personaggi solitari e introversi come Ueda Akinari, oppure decadenti, ribelli e trasgressivi come il gruppo emerso nell’immediato dopoguerra (Dazai Osamu, Sakaguchi Ango, Ishikawa Jun) o intellettuali tormentati come Natsume Soseki. Ishikawa Jun resta tra i miei preferiti, forse perché nonostante tutto è uno scrittore di nicchia anche in Giappone e i suoi romanzi storici, spesso percorsi da un sottofondo anarchico e da una irriducibile sfiducia nel potere costituito, mescolano storia e leggenda, elementi tratti dal folclore e dal fantastico, demoni e divinità, artisti e guerrieri, saggi buddhisti e forze del male.
So che sta lavorando a una antologia della poesia giapponese: me ne può dire qualcosa? Di fatto, a parte rare occasioni si sa poco in Italia della poesia nipponica: esiste? Con quale intensità lirica?
Certo che esiste e conta anche molti esponenti di primo piano, che però tranne poche eccezioni sono sconosciuti in Italia. L’idea era proprio quella di affiancare alla poesia “classica” (waka e haiku) che invece ha anche da noi un gran numero di conoscitori, quella degli ultimi cinquanta/sessanta anni e di includere esclusivamente poesie in verso libero (shi). Il progetto è stato portato avanti a due voci, in collaborazione con Alessandro Clementi degli Albizzi, attualmente residente a Tokyo. L’antologia dovrebbe uscire in primavera con Einaudi e per ciò che riguarda il criterio di scelta degli autori, abbiamo optato per una scelta “cronologica”, partendo da poeti nati nel corso degli anni Trenta, per giungere fino alla più giovane, Fuzumi Yuki, nata nel 1991, allo scopo di offrire un quadro sufficientemente ampio della produzione che, sviluppatasi dopo l’immediato dopoguerra, arrivasse approssimativamente ai nostri giorni. Sulla “intensità lirica” lascio a lei il compito di giudicare, non appena l’Antologia sarà disponibile nelle librerie.
*In copertina: Izumi Shikibu, poetessa vissuta intorno all’anno Mille, come Murasaki Shikibu, in un disegno del 1765