31 Luglio 2024

Quando alle Olimpiadi di Parigi gareggiavano poeti e artisti

Alle Olimpiadi di Parigi del 1924, un secolo fa, parteciparono due pesi massimi della letteratura occidentale: Henry de Montherlant e Robert Graves. Atleta naturale, Montherlant praticava il calcio – in porta –, amava sfidare i tori, eccelleva nella corsa. Nei cento metri, “una gara per idioti”, fatta in apnea, fece un tempo di undici secondi e mezzo, “sulla pista dell’ippodromo di La Courneuve, ma il tempo non fu omologato da un cronometrista ufficiale”. Come si sa, nella competizione ufficiale, il 7 luglio del 1924, presso lo Stade de Colombes – poi intitolato al rugbista Yves du Manoir – fu l’inglese Harold Abrahams a primeggiare, con un tempo di 10 secondi e 6 centesimi. Atleta di primo livello, aveva già partecipato alle Olimpiadi di Anversa, fermandosi ai quarti nella gara individuale, arrivando quarto nella 4×100. Riuscì a battere il favorito, l’americano Jackson Scholz – che si sarebbe rifatto vincendo, due giorni dopo, i 200 metri – con una gara formidabile, eternata nel film olimpico per antonomasia, Chariots of Fire, di Hugh Hudson, che sbancò agli Oscar del 1982. L’anno dopo, Abrahams si ruppe la gamba durante una gara di salto in lungo: aveva 26 anni, l’incidente mutilò per sempre, all’apice, la sua carriera. Potatura violenta.

Diverso lo stile di Eric Liddell: velocista naturale, sportivo per caso, figlio di missionari della chiesa congregazionalista scozzese, fu impegnato, per un tot, nel rugby. Un record ottenuto quasi per caso durante una gara amatoriale di atletica, gli garantì le inattese convocazioni all’Olimpiade parigina. Liddell rifiutò di gareggiare sui cento metri, perché la gara si disputava la domenica, il giorno votato a Dio; primeggiò nei 400 metri – record olimpico e aristocratico distacco di quasi un secondo da Horatio Fitch – piazzandosi terzo nei 200. Aveva 22 anni e, come si dice, una carriera davanti: non gliene importava nulla. L’anno dopo tornò in Cina, diventò insegnante e missionario, infine ministro del culto. Ebbe tre figli. Durante la Seconda guerra, fu internato in un campo dai giapponesi, dove morì, nel 1945; vista la fama, tentarono, con uno scambio di prigionieri, di salvargli la vita: Liddell preferì che al posto suo liberassero una donna incinta. A quel tempo, non contavano allori e statistiche, i palestrati del record: lo sport, di solito, premiava gli uomini.

Nonostante l’epos del film – passato in Italia come “Momenti di gloria” – non furono gli inglesi a primeggiare alle Olimpiadi del ’24. Dietro gli irraggiungibili americani (99 medaglie in tutto, di cui 45 ori) si piazzò la Finlandia – in virtù degli straordinari fondisti, guidati dal micidiale Paavo Nurmi, che conquistò cinque ori – seguita dalla Francia. Parteciparono 44 paesi e 3.089 atleti (di cui 2.954 maschi); quest’anno i Paesi in gara sono 206, oltre 11mila gli atleti, per metà donne.

Ad ogni modo. Montherlant – 29 anni, già autore di Le Songe e di La Releve du Matin – partecipò alle Olimpiadi parigine nella sezione “Littérature” delle “Compétitions artistiques”. L’arte, alle Olimpiadi, fece la sua scomparsa nel 1912, durò sette edizioni, difformi nei ‘generi’, fino a Londra 1948. Le gare – per così dire – si dividevano in cinque grandi categorie: architettura, letteratura, musica, pittura, scultura. Una giuria, insindacabilmente, elargiva eventuali medaglie; per la musica, nel ’24, ad esempio, la giuria, di altissimi nomi – Béla Bartok, Igor Stravinsky, Gabriel Fauré… – decise che nessun autore era degno di alloro. Che l’arte venga decisa da una giuria, resa alle statistiche come una competizione qualunque può far storcere il naso: ad ogni modo, in questa particolare categoria, l’Italia è al secondo posto del medagliere complessivo, dietro alla Germania. Di norma, venivano premiati degli audaci sconosciuti – secondo il criterio del ‘dilettantismo’; ma chi conferisce a un artista la patente di ‘professionista’? –; nel 1920, ad esempio, a vincere l’oro nell’arte lirica fu il misconosciuto Raniero Nicolai, autore delle dimenticate Canzoni olimpiche: negli anni, pubblicò un Elogio della vita e un Invito a ridere, dal 1933 fu – per meriti sul campo, pardon, sul desco – capo ufficio stampa del Comitato olimpico italiano. Nel 1948, a Londra, per la sezione “epic works” fu il triestino Giani Stuparich a vincere l’oro, con il racconto La grotta, poi raccolto da Einaudi in Il ritorno del padre e altri racconti – durante la Prima guerra aveva ottenuto una medaglia d’altro lignaggio (ma forse non meno inutile), “al valor militare”.

Torniamo però alle Olimpiadi del ’24. Montherlant non ottiene alcun alloro; l’oro va al modesto Géo-Charles, redivivo Pindaro: il suo testo, apollineo, Jeux olympiques, viene pubblicato, per gli onori letterari, dalla NRF, nel 1925 – poi se ne perde traccia. Quasi a mo’ di vendetta, Montherlant pubblica, invece, proprio nel ’24, per Grasset, il ciclo di odi Les Olympiques. Come sempre, siamo nei dintorni dell’inno marmoreo, iridescente per muscolarità. A tratti, tuttavia, si avverte l’ombra, l’avverata fine dell’era degli eroi, del più puro entusiasmo, come in Vesper:

“Non è che silenzio e solitudine, ora, lo stadio. I riflettori sono spenti.
Le finestre dello spogliatoio sono mute, tutte. Qualcuno se ne va.
Resta soltanto il ragazzo, nel buio, che lancia il disco nel buio.
La luna sorge ma lui è solo. Questa è la sola cosa chiara.
Egli è solo. Solfeggia per sé solo una musica pura e perduta:
la sua fatica è inutile, la sua bellezza morirà domani.
Lancia il disco verso il disco lunare, ripetendo un antico rito
officiato dalla dea Madre, un cuore infante nello stadio.
Ed è solo – e nulla è mai stato così solo. E prega la sua
preghiera pura, perduta”.

Les Olympiques, testo ancora inedito in Italia, godrà di diverse ristampe, fino a tempi recenti: Gallimard, nel 1943, ne cura un’edizione d’arte, con litografie di Charles Despiau.

A proposito di miti olimpici e di dee madri: anche Robert Graves – l’autore de La Dea bianca e dei Miti greci, tra l’altro – ottiene scarso successo alle Olimpiadi. Vi partecipò poco meno che trentenne, forgiato dalla Prima guerra, con qualche libro alle spalle (in ambito poetico: Country Sentiment, 1920 e The Feather Bed, edito nel 1923 dalla Hogarth Press di Virgina Woolf). Al contrario, ottenne una clamorosa medaglia di bronzo l’irlandese Oliver St. John Gogarty, medico, senatore dello Stato Libero d’Irlanda, legato al Sinn Féin, poeta per diletto, noto per aver offerto a James Joyce lo spunto per il Buck Mulligan che furoreggia in Ulysses. In ambito pittorico l’argento premiò un irlandese d’altra fama, Jack Butler Yeats, fratello di William, il poeta, che l’anno prima delle Olimpiadi francesi aveva ottenuto il Nobel per la letteratura; Jack ottenne la medaglia con un quadro, Natation, di claustrale potenza: da tempo dipingeva i nuotatori nel Liffey, la gara che si teneva ogni anno a Dublino. In giuria, spiccava la presenza del grande pittore John Singer Sargent, di cui, per certi versi, Jack Yeats era un epigono.

La giuria olimpionica letteraria, quell’anno, invece, era guidata da Jean Richepin, accademico di Francia, poeta e drammaturgo ora tarlato dal tempo; un tempo, Editori Riuniti pubblicava un suo libro eccentrico, Morti bizzarre. Fu un intero ‘sistema’ letterario, a dire il vero, a mobilitarsi per le Olimpiadi parigine: nella giuria internazionale spiccavano i nomi di Paul Claudel e di Gabriele D’Annunzio. D’Annunzio, per altro, partecipò alle Olimpiadi di Stoccolma, nel 1912. Secondo le assurde motivazioni dei giudici, il premio andò, ex aequo, a due tedeschi, Georges Hohrod e Martin Eschbach, autori di una iper-retorica Ode allo sport. Dietro i nomi fittizi si nascondeva, invece, Pierre de Coubertin, il padre dei Giochi olimpici moderni. Alla faccia della correttezza. Il nome di D’Annunzio, comunque, compare tra gli atleti partecipanti nell’immane portale delle Olimpiadi; come sempre, con viete precisazioni – “He is often seen as a precursor of the ideals and techniques of Italian fascism” – che rendono uno scarso servizio al genio: si ricorda la “controversa influenza sul fascismo italiano”, senza citare alcun suo libro.

Nella scultura, la medaglia di bronzo andò al collo del figlio di Paul Gauguin, Jean-René, per un’opera intitolata Le boxeur.

Quasi subito si capì che una competizione nelle arti era paradossale. Un artista si impone al di là di un concorso pubblico, fa gara a sé – e con una violenza (contro se stesso e contro gli altri) inspiegabile agli sportivi. Il resto è ciò che si sa: il dominio dell’atletismo spinto ha spento l’idea dello sport come carisma; il cronometro ha sostituito il bel gesto, il record ha reso inutile la preghiera e la divinità; il sacro, come un sarto, ogni tanto infrange lo schema, scardinando le acquisite norme sportive. In quel caso, però, chiamiamo uomo tale miracolo: la sovrana sapienza nel soverchiare la necessità statistica. Nella bellezza del gesto tecnico, che va al di là del pensato, avvertiamo il brivido della divinità – gli occhi dell’atleta che trionfa hanno qualcosa di paradisiaco, la tigre blu che bruca quell’iride.

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