“Verso il fiore della solitudine”. Sohrab Sepehri, poeta persiano
Poesia
Francisco Soriano
Henry de Montherlant si è ucciso nel 1972, il 21 settembre, l’equinozio, il giorno in cui oscurità e luce sono gemelli. Ingoiò una capsula di cianuro, si sparò in gola. Come richiesto, fu bruciato “con la maschera di guerriero romano”; le ceneri sparse nel Tevere, nel Tempio di Portuno e presso l’isola Tiberina da Jean-Claude Barat, suo esecutore testamentario, e Gabriel Matzneff. Proprio a Matzneff, qualche settimana prima di togliersi la vita, aveva inviato una frase di Ernst Jünger, “Le suicide fait partie du capital de l’humanité”, dal nitore ineffabile. Con Jünger, Montherlant condivideva l’arte del disprezzo e della sprezzatura, una donna – l’audace Banine, ricca azera dal viso di volpe –, un rabbioso individualismo e quel tenace istinto di morte. Jünger, tuttavia – sulla scia di Goethe – era un uomo della luce, Montherlant – nipote di Pascal, cugino di Sade – della luce amava i riflessi plumbei, l’ardore del bronzo, la penombra esoterica fino al sangue, fino alla cecità (che in effetti, lo colse). Quando fa visita a Jünger, Bruce Chatwin non può che accennare al “suo amico”, poiché, scrive, “Montherlant mi interessava”: scopre proprio lì “l’aforisma di Jünger che risale agli anni Trenta” trascritto dal grande scrittore francese su un foglio, lordo di sangue (il reportage di Chatwin, Ernst Jünger: un esteta in guerra, è raccolto in Che ci faccio qui?, Adelphi, 1990). Le parole di Jünger sono state il passepartout al suicidio di Montherlant, l’amuleto agli altri mondi. Chi è riuscito a studiare il biglietto estremo, ha detto di una scrittura solida, ferma, a tratti infantile; l’ego trapiantato nel gioco.
Anche Emil Cioran, nei suoi Quaderni registra la morte di Montherlant, il più autorevole e solitario scrittore del suo tempo: “Suicidio di Montherlant. Si è riscattato ai miei occhi. Fine di ogni atteggiamento, di ogni posa. O piuttosto: atteggiamento supremo, posa suprema”. È il pensiero che segue, tuttavia, a risolvere questo cammeo: “Smettere di essere uomini… sognare un’altra forma di decadimento”.
Nato il 21 aprile del 1895, “discendente da una famiglia aristocratica, di origine catalana”, Montherlant ha tentato la morte con vigorosa vitalità. Amava la tauromachia, che praticò con un certo estro – “A quindici anni fui mandato in Spagna perché amavo i tori! Ho conosciuto i toreri, ho ucciso due piccoli tori, proporzionati alla mia età… Il primo fu un disastro, il secondo un trionfo: il mio nome fu stampato per la prima volta sui giornali di Burgos” –, vantandosi di essere stato incornato ad Albacete, nel 1925, ormai trentenne. Amava la sfida sublimata dallo sport: correva i cento metri in undici secondi e un tot, giocava a calcio. Fu decorato durante la Prima guerra: alle mansioni da segretario dello stato maggiore preferì quelle del soldato semplice: le sette schegge di granata che lo falciarono il 6 giugno del 1918 furono, nell’agiografia privata, più importanti della Croix de Guerre. Nello stesso tempo, amava esporsi e ritrarsi, Montherlant, aveva bisogno del riconoscimento pubblico per screditarlo, di un lotto di fedeli per abiurare il proprio credo, di una landa di accoliti per sputargli in faccia. Da qui, il genio teatrale, pressoché unico, con un tema monotematico – “alla mediocrità del mondo e del consorzio umano si oppone l’eroismo di un uomo solo, diviso tra il desiderio dell’azione e il dubbio rispetto alla sua stessa utilità” – risolto in forme austere, micidiali, tra seduzione e repulsione: La Reine morte, Malatesta, Le Maître de Santiago, Port-Royal, La Guerre civile sono dei classici del ‘genere’, insuperati.
Scrisse romanzi di inquietante grandezza, capaci di assediare, a spirale, gonfi di vipere: Les Bestiaires, il ciclo, antiproustiano, vertiginoso, “Les Jeunes Filles”, Le Chaos et la Nuit. Nonostante in Italia abbia avuto traduttori complici e notevoli – Camillo Sbarbaro, Massimo Bontempelli, Piero Buscaroli – Henry de Montherlant è pressoché inedito, demandato all’oblio, semmai trattato come un paria (che viltà editoriale quella comminata da Adelphi, che della tetralogia ha pubblicato soltanto il primo volume, Le ragazze da marito, vent’anni fa). Restano i piccoli editori a coltivare il talento indiscutibile e irritato di Montherlant: di recente le edizioni De Piante hanno pubblicato, in edizione di pregio (con introduzione di Stenio Solinas), il saggio Contro “Don Chisciotte”; Passaggio al Bosco ha riproposto Il solstizio di giugno; Settecolori ha in animo di editare Service inutile; nel 2004 l’editore Raffaelli, per la cura di Moreno Neri, ha pubblicato un testo antologico ed esegetico, necessario, L’infinito è dalla parte di Malatesta. Per un paio di anni – dal 2018 al 2020 – collezionando un’ottantina di repliche, il Malatesta curato da Gianluca Reggiani ha dimostrato che la prestanza scenica di Montherlant è inalterata, senza tempo. André Gide non poteva amare Montherlant, uno scrittore che vuole farsi guardare da distante, “affascina, è indubbio, nessuno può fraintendere le sue qualità, rare… ma si rivolge di continuo a un pubblico, che egotismo impossibile celano i suoi giochi retorici!”. Il 24 marzo del 1960, “senza concorrenti, senza effettuare visite di candidatura, formalità a cui si è rifiutato”, Montherlant fu eletto all’Académie française. Nel suo discorso, ovviamente, si focalizzò sulla morte, sullo “scrittore al cospetto della morte della propria opera”: “Plutarco dice di uno dei suoi eroi che ‘precipitò nell’indifferenza dell’avvenire’. Tutti precipitiamo nell’indifferenza dell’avvenire; ciò che abbiamo fatto e ciò che non abbiamo fatto in pochi istanti sarà equivalente. Guai a chi sopravvive nella memoria dell’avvenire: questa forma di immortalità non è che una contraffazione, una ruberia, un’infamia”. Con la scusa dell’agorafobia, non partecipò mai alle fatue imprese dell’Académie né indossò – cosa inaudita prima di lui – il costume tradizionale, l’abito verde degli “Immortali”.
Voleva dare fastidio, infastidì tutti, sempre, i resistenti e gli occupanti, durante la Seconda guerra. Fu processato dai vincitori, reo di aver collaborato – come molti – con le riviste naziste (ma “i soldi ricevuti dagli editori tedeschi li aveva devoluti alla Croce Rossa di Ginevra”). Che uno scrittore fosse semplicemente se stesso pareva – allora come ora – innaturale, inadeguato, inaccettabile. Bisogna prendere parte, si diceva – allora come ora –; Montherlant parteggiava soltanto per sé. “Il risultato della lunga, disordinata istruttoria a suo carico fu la sospensione della pubblicazione delle sue opere per un anno. ‘Bisognava fermare il sole nella sua gloria’, commentò Jean Cocteau” (Giuseppe Scaraffia).
Pur praticando, apparentemente, il caos, Montherlant era affascinato dall’ordine, o meglio, dalla ‘regola’, appropriata agli eletti. Che all’ordine seguisse l’ordalia sta nei caratteri del personaggio. Dopo la Prima guerra fondò una società segreta, “L’Ordre”, che si ispirava alla cavalleria medioevale e all’etica dei samurai; d’altronde, viveva l’agonia della contraddizione, si dava un compito per adempierlo al contrario. Restava un moralista, al di là di ogni morale. “Tutta questa condiscendenza verso le cose esterne non può che imporci una domanda: tale dovere è giustificato? Qual è la realtà? Come conciliare la vita contemplativa con quella civile? A cosa appartenere quando non si appartiene?”. A volte si accontentava di una alterigia maculata di misericordia: “Ci si può occupare del servizio del mondo a condizione di sapere che non ha importanza, di prestarsi soltanto con il distacco dei sonnambuli. Sii dunque temporale, ma resta eternamente assente”. Pericoloso gioco di equilibrismo tra opposti abissi. Preferì la gloria del recluso: l’esito, a gola scoppiata, è noto.
Ai lettori deboli non piace l’ineluttabile, chi gli ricorda che siamo morti prima che mortali, che il riscatto passa attraverso il ‘bel gesto’, che la bellezza abbaglia finché è inutile.
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Non sfoglio Racine: preferisco i poeti dell’Iran e della Cina
Fu solo durante il barbaro periodo dell’adolescenza che la poesia fu per me l’ebetudine delle rozze regole prosodiche, compitare le sillabe sulle dita, gioire della cadenza dei versi. In seguito, ho preteso che creasse un ‘clima’ adatto a ricostruire la mia via intima, privata, la sola che mi importi. I maestri dell’Iran – e, in altro modo, quelli della Cina – mi hanno condotto, più tardi – avevo ventotto anni – al ‘romanzesco’ di cui sono intriso, per cui i rimari europei non mi piacciono.
Mi hanno svelato la via raffinata; mi hanno insegnato la riservatezza, il segreto, l’estasi (appropriata alla morte) che si ricava dal profilo di un corpo o di un viso, l’immersione nelle acque profonde della poesia, la lunga stupefazione nei meandri della bellezza, nella musica, il presentimento dell’amore, tutte cose che chiamavo “fatalità”, “le magie del quinto giardino”, alludendo al Golestân e al Bahârestân, consacrato alle “passioni dell’estrema giovinezza”. Quei poeti, che non si sa mai se si rivolgano a un mortale o a Dio, lusingavano la mia tendenza a utilizzare più registri contemporaneamente. La loro indifferenza verso le varie religioni, di cui conservano un solo Dio (Hâfez, Saadi, Hâtif, Djalâleddin Rumi), si è legata al sincretismo che mi è congenito. Mi hanno insegnato gli equivoci su cui si prolunga la magia del contemplare. Alcuni aforismi hanno innescato in me il tono della malinconia e della speranza: la loro eco non si spegne. “Passeranno anni prima che tu riconosca la tomba del padre”, scrive Saadi; “Il lupo, sfiancato dalla corsa notturna, vede la pecora offrirgli la vasta coda per il riposo”, canta Giami. Gli eroi dei loro apologhi, delicati, alti, crudeli, con quella generosità assurda, mi ricordano che si può fare a meno del Cristianesimo per la carità e degli Antichi per la grandezza d’animo; mi offrono il sublime avvolto in pergamena.
Per lunghi periodi, in Marocco, in Tunisia, in Tripolitania, ho pensato di poter rivivere la vita dei poeti iraniani, cullato nel candore. Certe ore trascorse a Fez, Tunisi, Tétouan, sono i frutti dorati della mia vita. Che io ricrei nel senso ciò che amo della Persia di Saadi e di Hâfez, della Cina di Li Po e Tu Fu, del Giappone dell’epoca Tokugawa, non mi inganna: non ignoro la caricatura scandalosa che dei poeti orientali danno i traduttori europei. Resta il fatto che non posso immaginare alcun momento lirico della mia vita che non dipenda in qualche modo dal genio iraniano. In Europa, in tempi di crisi, non sarà certo Racine che sfoglierò, ma il diwan dell’uomo di Shiraz: con lui costruisco un domani più felice.
Henry de Montherlant
23 aprile 1937