Che meraviglia quando si combatteva a suon di antologie, di ‘movimenti’, dando avvio a una specie di poetica tellurica – per lo più votata al vaneggiamento. Tra i gruppi più ardimentosi e ‘punk’ del mondo anglofono, vanno ricordati – per eccesso di attesa e attestato di resa lirica – i “New Apocalyptics”. Costoro, videro in Dylan Thomas il proprio Messia – credevano, con rabbiosa ingenuità, che il potere della visione bastasse a scardinare le asfittiche stanze della poesia novecentesca. Il loro obbiettivo era rompere il culto “Audenesque”, che conferiva poteri da pontefice a W.H. Auden: vi facevano parte alcuni tra i più potenti poeti e intellettuali dell’epoca, da Stephen Spender a Cecil Day Lewis, da Christopher Isherwood a Louis MacNeice; la loro base era Oxford. Dall’altra parte, occorreva disseccare gli altolocati cliché diffusi dal Bloomsbury, che faceva capo ai coniugi Woolf e alla Hogarth Press, e arruolava personalità come E.M. Forster, John Maynard Keynes, Lytton Strachey. I “New Apocalyptics” miravano a essere ciò che promulgava il loro marchio: i cavalieri dell’Apocalisse della nuova poesia inglese. Insomma: cercavano un loro posto nel mondo – a spallate.
L’atto di sfida fu lanciato nel 1939, con l’antologia The New Apocalypse – avrebbero dovuto chiamarla “Apocalypse Now” – edita dalla Fortune Press, piccola editrice specializzata in narrativa erotica, che aveva pubblicato, cinque anni prima, il formidabile esordio di Dylan Thomas, 18 Poems. Nel programma – sufficientemente fiabesco, vago, all’assalto – si diceva, tra l’altro, che:
“1. Lo sviluppo umano, e dunque poetico, si rivolge al tutto; dunque: al cuore non meno che al cervello, al sogno non meno che alla veglia. 2. L’uomo, vittima della meccanizzazione esasperata, deve essere liberato, deve sprigionare il proprio individuo se vuole sopravvivere; a tale libertà si giunge attraverso il Mito, l’Immaginazione (nel senso fornito da Coleridge) e una Religione personale, intima, opposta al Credo delle Masse”.
Nei decenni, questi proclami saranno fertile terra per orfismi, mitomodernismi, neoprimitivismi vari. Al programma poetico – sonnambulico – si legava quello politico: la vita singolare, individuale, il nuovo luddismo, la via negativa del cristianesimo, l’erta mitica di Blake e Coleridge.
A guidare gli “apocalittici” erano due poeti di difforme e ferreo talento: lo scozzese James Findlay Hendry (1912-1986) e il britannico Henry Treece (1911-1966). Intorno a loro, pullulava un nutrito gruppo di visionari che andava da Dorian Cooke a Norman McCaig, da Nicholas Moore a Philip O’Connor. Il ‘movimento’ si sviluppò in altre due antologie, pubblicate durante la Seconda guerra: The White Horseman: Prose & Verse of the New Apocalypse (1941) e The Crown and the Sickle (1945). Nelle intenzioni filosofiche, gli “apocalittici” si riferivano al saggio di David Herbert Lawrence, Apocalypse; tra i poeti più importanti convocati a fare i cardinali del movimento spiccavano George Barker e Vernon Watkins, oltre, ovviamente, a Dylan Thomas. Il Dioniso di Swansea, tuttavia, faceva gruppo – e apocalisse – da sé: non aveva alcun interesse ‘messianico’ né antologico. Così, il gruppo – a cui credevano, in sostanza, soltanto Hendry e Treece, per altro poeticamente i più talentuosi – si sfaldò nel giro di pochi anni.
Kenneth Rexroth, curatore di un’importante antologia di The New British Poets per la New Directions, nel 1949 – in cui sono intruppati in massa gli ‘apocalittici’ –, spiega le ragioni della fine del movimento con sarcastico distacco:
“Oggi, soltanto Treece e Hendry si considerano ancora ‘apocalittici’. Per un po’, si cercò di dar credito alla loro rivoluzione. A volte, si aveva il sospetto che gli ‘apocalittici’ attendessero con ansia il giorno in cui ci sarebbe stata una maggioranza apocalittica alla Camera dei Comuni, con il libro dell’Apocalisse a fare da programma di partito. Cercarono di colonizzare gli spazi della coscienza lirica aperti da Dylan Thomas, e di personalizzare la rivoluzione. Il nome, dopo tutto, era stato scelto con scienza. Credo che gli ‘apocalittici’ abbiano fallito perché non hanno rappresentato una rottura radicale con il passato. Recavano in sé i segni del marxismo letterario come del surrealismo, da cui dicevano di volersi distaccare. D’altronde, non si può personalizzare una rivoluzione, che è, per definizione, impersonale, come un terremoto”.
Entrambi i guru del movimento furono coinvolti nell’apocalisse della Seconda guerra: J.F. Hendry servì tra i ranghi dell’Intelligence Corps, per poi lavorare come traduttore alle Nazioni Unite. Finì a insegnare in Ontario; nei primi anni Ottanta pubblicò una biografia di Rilke, The Sacred Threshold: a life of Rilke. L’entusiasta Henry Treece arrivò a pubblicare per la Faber di Thomas S. Eliot (Invitation and Warning, 1942; The Black Seasons, 1945; The Haunted Garden, 1947), impegnandosi, in guerra, per la RAF. Mise il suo estro poetico a servizio dell’amor patrio, pubblicando, nel ’47, una selezione di diari, commentati, dei soldati della Royal Air Force, Leaves in the Storm. Lo studio critico, pionieristico, sull’opera di Dylan Thomas – Dylan Thomas: Dog among the fairies, 1949 – sancì, in sostanza, la fine dei suoi rapporti con il poeta gallese, che aveva guardato con indolenza agli sforzi antologici del suo discepolo. Dylan Thomas non voleva San Pietro al suo fianco né fondare una chiesa sulle sue poesie.
Dalle ceneri degli ‘apocalittici’, Treece fondò i ‘nuovi romantici’. Nel 1949 per la Gray Walls Press, questa volta insieme a Stefan Schimanski, Treece s’inventa A New Romantic Anthology. Il libro, di per sé, è bellissimo, guarnito da alcune mirabili tavole di Mervyn Peake, l’autore di Gormenghast. Tra gli altri, il tomo raccoglie interventi di Herbert Read, Michael Sayers, Francis Scarfe (tra l’altro, accanito studioso di Auden). L’intuizione ‘apocalittica’ fu coltivata, invece, su una rivista, “Transformation”, spesso di pregio, uscita negli anni Quaranta, in uno stretto giro di numeri; vi contribuirono Henry Miller e Lewis Mumford, Edith Sitwell, Gertrude Stein e – ovviamente – Dylan Thomas. Interessante il legame con la Russia, denunciato dalle traduzioni da Ivan Bunin e Aleksandr Blok e dai continui riferimenti alla filosofia di Nikolaj Berdjaev. Il quarto numero di “Transformation” reca in copertina la litografia di Albrecht Dürer che raffigura I quattro cavalieri dell’Apocalisse.
Terminata l’ebbrezza antologica e il piglio da capobanda, Henry Treece trovò la sua via come scrittore di libri per ragazzi, di successo, come The Golden Stranger (1956), The Children’s Crusade (1958) e la “Viking Trilogy” (1955; 1960), dedicata all’epopea vichinga. Alcuni romanzi di Treece sono ambientati durante la conquista romana della Britannia.
A tratti, Treece dà l’idea di essere un Eliot che non ce l’ha fatta. Voleva divorare l’impero della letteratura britannica – ha scoperto un grumo di polvere. Non è un caso se una delle sue poesie più belle, Conquistatori, racconta di una disastrosa vittoria, tra terre forgiate al disastro: gli assedianti, in fondo, desiderano casa, come se i piedi fossero un sole, la mente il nostro solo mondo.
**
Poesie dei Nuovi Apocalittici
Conquistatori
Giungemmo al villaggio che tramontava:
l’aria era ferma, immobile intorno
nessun suono s’intrometteva nelle nostre
orecchie stanche tranne il rigoglio della pioggia
e il malinconico canto dei cancelli aperti.
Attraverso una finestra spaccata, uno di noi
vide un uccello morto: fermo, nella gabbia
di ruggine, premeva il petto magro e sbucciato
contro le sbarre – il becco immenso, rotto. Mentre
correvamo, allo sbando, per la via ricoperta di erbacce
un cane, macilento, sbucò da una fessura buia
e svanì trascinando le gambe sottili come rami
verso il bosco, per morire in pace.
Nessuno ci ha detto che questo è vincere;
nessuno avrebbe morso il proprio pane
prima di riempire la bocca di quel bimbo grigio
disteso, rigido come pietra, davanti alla porta
in frantumi. Non uno di noi che non desiderasse casa.
*
Poema I
Nelle oscure cavità della notte
solo e senza amore
privo di compagni come il vento che langue
attraversando la pianura, mi fermo, ultimo uomo
sulla terra, metto su carta il terrore
e prego che l’amore sorga dalla penna arida
mentre le lacrime fanno della pagina un lebbrosario.
Ricordo, sotto
l’immobile idolo della notte
le oche eleganti
che flottano nella tempesta
i topi che sbattono contro la porta
distratti da una nera nube
e la lumaca che decora
il ramo prima che sboccino i fiori.
I vecchi dicevano
“Quando sei cupo pensi solo a cose piccole”:
ora i sogni sbriciolano i lividi della mente
sotto l’immobile idolo della notte
solo e senza amore
resto, finché non se ne va l’ultimo uomo
che conosce il rumore della pioggia sulle foglie estive
il civettuolo cigno che varca il fiume rosso sangue
e il cuore, l’incompetente.
*
Poema II
La morte cammina negli oscuri boschi della mente
bella come l’aconito,
il fior di giglio in una mano bianca
e occhi pari a pietre lunari che ardono scintillanti.
L’amore corre per i corridoi del cuore
canta per una crosta di pane
storie di giovani che ridono
e che domani saranno morti.
Sdoppiate, estive metafore:
anche nell’assolato giorno
la risata si spezza nel sale
delle lacrime: la tomba
non è mai lontana.
*
Poema III
Attraverso le cupe camere del bosco
dove gli aghi di pino inghiottono i rumori
e la colomba vola tra rami neri
Attraverso le volte crepuscolari della foresta
dove il fungo morde le radici
e lo scoiattolo scappa con una pigna
Attraverso i nascosti vicoli della pineta
dove il bastone si muove come una vipera
e il tasso si leva per annusare la luna
Attraverso il verde sepolcro delle foglie
dove l’ermellino sa cosa significa uccidere
e un teschio bianco ghigna tra le felci.
Henry Treece
**
Londra prima dell’invasione
Muri e palazzi di ergono immobili, come conchiglie.
Teneteli premuti all’orecchio. Non recano l’eco
degli oceani di un tempo. La marea, oltre
valli e colli, è terminata.
I giorni sorgono e muoiono mentre la città
ha la distanza di una stella. Il cuore
è assente, nei bassi fondali del paradiso:
la risata è ancora tesa, incline alle lacrime.
Ora galleggia l’immaginazione, come erba sopra
un vuoto d’acque. Fato di donne, limpide e dai
tratti di pietra. I fiori sono irrilevanti come ragazze
prive di profezia. La marea ritorna recando sangue e fuoco,
sbianca gli spiriti lievi, privi di forza
il futuro sarà lacero, scivoloso come
il disastro: un tempo alla deriva, scosso
da torrenti di cieca guerra.
*
Costanza del Nord
Avvolgimi, amore mio,
con la fermezza dei tuoi occhi spalancati.
Anche se le ombre meridiane preparano la rovina
il sole è saldo e lo ricordo:
se la morte dovesse raggiungerci
cadrà come neve da un cielo così limpido.
Abbiamo strappato minuti ai crudeli venti
cresciuti come narcisi al confine
dell’oceano che si fa beffe delle verdi miserie;
eppure, ti cerco ad ogni ora, ancora,
orbato, mia solitaria Atlantide, come
un ago inquieto orientato dalla costanza
del Nord che continua a perforarci la mente.
James Findlay Hendry