Scrivo che è ormai sera inoltrata, e ho qui tra le mani, con mia somma gioia ‒ appena portatomi da un amico, al quale avevo chiesto di acquistarlo immediatamente, nonostante il prezzo ‒ un libro importantissimo quanto introvabile: Il settimo sogno. Lettere 1926. Si tratta del triangolo epistolare tra Marina Cvetaeva, Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke. Uno scambio di lettere avvenuto in pochi mesi, in un solo anno. Una testimonianza unica di altissima letteratura, che debbo ancora scoprire.
Ciò nonostante, iniziando a sfogliare e a leggere il libro, immediatamente una cosa mi è chiara: quel credere e affidarsi al destino che questi tre protagonisti della cultura del Novecento portavano addosso come un vestito, quasi come fosse la divisa e il simbolo del loro essere poeti.
Tre poeti, appunto, nel turbine del riconoscersi e amarsi, si cercano, si trovano, si scrivono. Soprattutto, vorrebbero incontrarsi. Oltretutto, vorrebbero incarnarsi in quel che scrivono l’uno dell’altra. È questo il sommo punto che accomuna gli animi volti alla grandezza: il desiderio di un incontro. Vedersi, per vedere realizzato l’ennesimo impossibile sogno della letteratura. Un sorriso che si specchia negli occhi dell’altro; una parola, a dirsi tutto quel che non si è potuto scrivere.
Lo scriversi tra poeti allora ‒ che è cosa bella, che è cosa intima, importante, integerrima ‒ svela la stima per eccellenza verso qualcuno che, in un certo senso, si vuole amare, nonostante lo si conosca unicamente per la propria effimera fama. Ma cosa c’è di più vero se non la parola scritta, quella che rimarrà in eterno, nonostante il tempo tenti ‒ negli inganni ‒ di rinnegarne la verità?
Che tre personalità del calibro di Marina, Rainer e Boris, decidano di affidarsi nuovamente al destino, è qualcosa di straordinario, quanto commovente. Poiché, in ogni lettera, si deve amare il poeta, e non l’uomo: “Il tuo destino terreno mi sta a cuore ancora più in profondità delle altre tue strade” scriverà Marina a Rilke. Come se l’unica donna ‒ quella poetessa! ‒ fosse il tramite di un segreto più grande. L’unirsi e il fondersi in quella che risulterà, agli occhi postumi di tutti, un’unica conversazione. Un dirsi e cercarsi, per testimoniarsi vicendevolmente, oltre il valore del mondo.
Ci si diceva, increduli. Ci si raccontava. Si gioiva insieme, rallegrandosi impercettibilmente nel genio. Ma quel che conta, soprattutto, fu il legame autentico che è giunto fino a noi, e che andrà ben oltre noi. E sarebbe da auspicare che accadesse nuovamente qualcosa del genere tra altri poeti di una nuova era. Che qualcuno, come Pasternak, custodisse parole scritte a testimoniare il massimo rispetto di un poeta verso un altro poeta. Tre amici, tre amanti traditi: un’unica, medesima fiamma.
Perché di questo stiamo parlando, dello spendersi l’uno per l’altra, dimostrando a se stessi, oltre che al mondo intero, di valere quel che si scrive. Si deve amare il poeta, e non l’uomo. Si deve darsi a colui o a colei che sogna l’invisibile agli altri. Per onorare un destino ‒ responsabili insieme. Affidarsi, scrivendo, a qualcosa di più grande di noi. Conservando quel che si ha di più prezioso, affinché tutti, un domani, possano riconoscere il valore di un’amicizia portato dalla poesia.
Essere poeti, dunque, non è un vezzo, ma una responsabilità. Il potersi e volersi scrivere, accusando l’altrui assenza, ma azzerando una fastidiosa lontananza, rientra nell’ordine di una fratellanza, come fosse un ‘patto di luna’, a voler significare l’affidarsi cieco a qualcosa di più grande dell’uomo stesso.
Ci si scrive quindi nella speranza attesa e vana di un incontro. Ci si cerca comunque. Non per un sentito dire. Per lasciare piuttosto che qualcuno un giorno possa vedere il nostro inchiostro sbiadito, ma ancora teso alla meravigliosa bellezza di un destino comune; di una vita spesa tutta per amor della poesia; per comunanza all’unica parola che ci annoda vorticosamente alla fatalità detta letteratura.
Giorgio Anelli
*In copertina: Isaac Levitan, Eterna quiete, 1894